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Autore: Pterie Scrive    23/03/2014    1 recensioni
Giuro, quando mi disse che quella era la sua fidanzata, ci rimasi di sasso. Era un bellissimo ragazzo, muscoloso, capelli scuri e occhi chiari, un contrasto splendido. Poteva scegliere me, ero decisamente più bella di quella, invece io ero single. Certo, potevo avere chi volevo: bel fisico, bel viso, sempre alla moda, cheerleader. Mi misi in testa di volere lui.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale.
La ragazza dagli occhi rossi di chi piange la notte e le labbra stanche di chi sorride per finta.

La vedevo tutti i giorni entrare a scuola, salutava il bidello Mario (soprannominato così per i baffetti alla Super Mario Bros e di cui non conosco il vero nome), saliva le scale ed entrava in classe. Spostava i lunghi capelli neri e mossi su una spalla e sistemava gli occhiali celesti sul naso; prendeva posto e tirava fuori dalla cartella il portapenne, per poi ripassare la lezione del giorno. Non aveva molti amici, io non ero una di loro. Non so nemmeno come si chiamasse, aveva un nome insolito e durante l’appello non prestavo mai attenzione. Era nuova.
Aveva un paio di grossi occhi spenti, verdi, un colore che spiccava, in contrasto con il rosso che li circondava. Raramente la vedevo sorridere. Era magrissima, a volte le offrivo la mia merenda, ma rifiutava continuamente. Vestiva abiti di almeno due taglie più grandi, a volte usava delle bretelle per reggere i jeans. Non so perché non usasse la cintura, era molto più pratica. Non era brutta, ma nemmeno troppo bella. Ne avevo viste di migliori e, nonostante gli occhi, il viso non aveva nulla di tanto speciale. Ogni volta che qualcuno si avvicinava a lei, sorrideva timidamente. Come se temesse che la sbranassero.
Era così strana; durante la ricreazione, io andavo dalle mie amiche a spettegolare, a parlare dei più e dei meno, a criticare com’erano vestite le ragazze delle altre classi e a scherzare con loro. Ma lei non veniva mai, scuoteva la testa, con il suo solito sorriso riservato, quando le chiedevo se voleva venire con me.
Così, dopo un po’, mi stufai di provare a smuoverla.
A fine lezioni, ritirava tutto nello zaino e andava fino alla stazione dei pullman. Facevamo la strada insieme, o almeno facevamo la stessa strada. Non sempre ci beccavamo, ma anche se non ci vedevamo prima, sul mezzo di trasporto eravamo obbligate almeno a salutarci. All’inizio mi sedevo sempre vicino a lei, poi qualcosa mi diceva che la mia compagnia non era gradita, così iniziai a sedermi sempre negli ultimi posti, insieme ai ragazzi più carini.
Iniziai a non sopportarla, era troppo strana. Sparlavo di lei e dicevo che era antipatica. Insomma, quale persona buona ti vede e ti saluta a malincuore? Era ovvio che mi odiava, così istintivamente le stetti sempre più alla larga.
Aveva due amiche. Amiche per modo di dire, visto che si parlavano a mala pena. Beh, almeno si parlavano.
Tutti i giorni la stessa routine. Pullman, scuola, pullman, il tutto in sua compagnia.
Poi arrivò un giorno che probabilmente entrambe odiammo. Il giorno del cambio di posti. Il professore sorteggiò i nostri due bigliettini in prima fila, così per un intero mese dovetti stare accanto a lei. Non so quale strano caso avesse voluto mettermi accanto ad una simile figura patetica, sfigurandomi a tal punto.
Era molto secchiona, nelle verifiche mi mostrava sempre la risposta e durante le spiegazioni non spiccicava una parola: stava sempre con la testa china a scrivere, a prendere appunti come una matta. Non so come, ma un giorno mi venne in mente la possibilità che quella ragazza fosse emo. Di certo non era normale.
A volte, quando me ne andavo, il suo ragazzo si sedeva al mio posto a farle compagnia. Giuro, quando mi disse che quella era la sua fidanzata, ci rimasi di sasso. Era un bellissimo ragazzo, muscoloso, capelli scuri e occhi chiari, un contrasto splendido. Poteva scegliere me, ero decisamente più bella di quella, invece io ero single. Certo, potevo avere chi volevo: bel fisico, bel viso, sempre alla moda, cheerleader. Mi misi in testa di volere lui.
Mentre chiacchieravo con le mie amiche, spesso li spiavo. Lei era totalmente diversa in sua presenza, sorrideva veramente, a differenza di quando stava con me o con le altre. A volte le scappavano delle risatine imbarazzate e altre volte ancora, la sua pelle bianca si coloriva di rosso fuoco, in viso.
Sembrava davvero diversa, più simpatica. Ma poi finiva la ricreazione e mi toccava tornare accanto a lei e rinchiudermi in quella bolla che si creava come un alone sul suo corpo.
Fuori da scuola, un giorno, la vidi leggere un messaggio sul suo cellulare. Era il cellulare più brutto che avessi mai visto, aveva i tasti, non era un blackberry e non era nemmeno touch-screen, ma lei sembrava tenerlo davvero con cura, come se fosse la cosa più importante che avesse. Ora che ci penso, faceva così con tutto, anche con Dave, il suo ragazzo.
Era china su quell’aggeggio, intenta a leggere un messaggio che mi sembrava davvero lungo, da qualche metro di distanza. Poi lo spense. Gli occhi le diventarono lucidi, e poche lacrime traballavano sulle sue ciglia, incerte se scendere o no. Non sapevo bene cosa pensare. Forse era appena stata lasciata. Sicuramente. Era una ragazza forte, se riusciva a trattenere così le sue emozioni.
Quindi, se Dave l’aveva lasciata, avrei avuto campo libero. Probabilmente da quando mi aveva vista, aveva iniziato a capire che poteva avere molto di più di una come quella. Oddio, ancora non sapevo il suo nome.
Poco prima che l’autobus partisse, il suo ragazzo entrò velocemente nell’autobus e mi spintonò, per passare e sedersi accanto all’altra. Avevo frainteso tutto, ti pareva. Restò tutto il viaggio al suo fianco a consolarla e a dirle cose sdolcinate, che lui ci sarebbe sempre stato e che se aveva bisogno bastava un messaggio.
Tipico.
Il giorno dopo lei non venne a scuola, non so cosa era successo, ma stavo davvero bene nel banco da sola. Sperai che stesse male anche il giorno dopo. Quella giornata la passai nel totale relax, niente compiti, amici e una bella festa, perché i miei non erano in casa. Avevo invitato anche Dave, ma non era voluto venire. Ora che faceva? Il principessino? Che odio.
In fondo la sua ragazza era malata, perché restare con lei? Era ovvio che voleva restare con lei, ma non era costretto, anzi, sicuramente la sentiva come una palla al piede e non riusciva a sbarazzarsene per paura di farla soffrire.
La sfigata non venne più e scoprì il motivo solo due settimane dopo, quando andai a trovare al cimitero mio nonno di domenica.
Dopo una lunga preghiera, notai Dave davanti ad una lapide molto semplice, con tantissime rose sopra. Mi avvicinai a lui, che iniziò a parlare senza darmi il tempo di collegare il tutto.
«Si chiamava Jane. Era scozzese. Mi ha parlato molto di te, tutte cose più che belle. Diceva che sei solare, simpatica, che ti preoccupavi di farla sentire bene. Mi ha anche detto che sull’autobus, quando mi hai visto sedermi accanto a lei e consolarla, non ti sei nemmeno arrabbiata per la scortesia che ti ho fatto, spingendoti. Aveva appena ricevuto quel messaggio. Bella merda, il cancro.» Lo vidi piangere, le lacrime gli scivolavano sul volto e questo non favorì i miei occhi, che iniziarono ad inumidirsi. Jane, si chiamava. Avevo frainteso tutto. L’avevo giudicata e le avevo sparlato alle spalle, mentre lei di me non faceva che parlare bene.
Dave continuò: «Tre giorni fa, è morta. Ci ha lasciato tante cose. A me il suo amore. Non la dimenticherò mai.» Posò le cinque rose che aveva in mano, sulla lapide, per poi andarsene e lasciarmi lì, da sola, portando con sé altre rose, brutte, vecchie, quasi marcie, probabilmente lasciate lì giorni prima. Ero sola con i miei sensi di colpa. Sola con Dio, che in questo momento chissà in quante lingue mi stava maledicendo. Sola con quello schifo, quella stronza che sono. Sola con me stessa.
E, peggio di tutto, sola con Jane.






#OKAY.
Bene, ciao a tutti.
Non ho scritto questa OS per deprimervi, anche se scrivendola mi sono scavata la fossa, ma l’ho scritta per una lezione personale, che spero sia utile a tutti voi.
Diciamo che, non si può negarlo, tutti giudichiamo le persone senza conoscerla. Io stessa, spesso, me ne esco con pensieri cattivi su persone che intravedo appena.
Una volta, anni fa, mi stava tanto sul culo una ragazza. Eravamo in quarta elementare e ce ne dicevamo di tutti i colori. Un giorno vidi sua sorella e non persi l’occasione di fare la solita battutina sull’aspetto fisico.
Santo cielo, ma quanto è magra?!
Mesi dopo, la sorella morì di anoressia, a scuola. Me lo ricordo come se fosse ieri, la faccia della mia compagna, così traumatizzata. Ha trattenuto le lacrime a lungo, mentre usciva da scuola. E stanotte io ho provato come si è sentita.
No, no, mia sorella è viva, non preoccupatevi, ma ho sognato che moriva. Mi sono svegliata alle cinque di questa mattina, piangevo senza sosta, sentivo la gola in fiamme e un buco nello stomaco. Mal di testa, viso bagnato, naso chiuso, fiato appesantito. Ho passato così mezz’ora, a pensare a lei e a ciò che mi fa stare bene di lei, nonostante i NUMEROSSISIMI litigi tra di noi. Solo alle cinque e mezza mi sono accorta che era ancora nel suo letto, respirava, dormiva. Volevo saltarle addosso, sentire la sua voce, che mi dicesse “Sto bene, Vale, sto bene!” e mi cacciasse via, arrabbiata perché l’avevo svegliata. Non l’ho fatto, però e mi sono accontentata di saperla nella mia stessa stanza.

Ieri è passato, oggi è presente, domani è un mistero. Ma i misteri, sono sempre così imprevedibili. Come la vita, ti porta via le persone a cui più tieni senza preoccuparsene.
E basta, concludo dicendovi di dimenticare ciò che è successo ieri, tenere lo sguardo lontano dal domani e godersi il presente. E amate, perché chi ama, non muore mai.
Un bacio dalla vostra Vale.
   
 
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