Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Laylath    24/03/2014    4 recensioni
[Spoiler per chi non ha letto il capitolo 55]
La sua mente, in genere svelta e acuta, riusciva solo a ripercorrere ogni singolo secondo di quella giornata che non avrebbe mai voluto vivere: non è molto bello scoprire di essere capace di torturare un essere umano.
Sono come lui?
La domanda che le bruciava nel profondo dell’anima prese finalmente il sopravvento.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hanji, Zoe
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Non perdere il conto



I suoi passi riecheggiavano nel corridoio, ma per una volta tanto Hanji avrebbe preferito non sentirli.
Se doveva essere sincera avrebbe voluto non sentire più il suo corpo, il suo respiro, la sua stessa vita: si sarebbe voluta completamente annullare.
Ma tutto questo non traspariva dal suo volto e continuava a camminare come se quei vestiti macchiati di rosso fossero la cosa più normale del mondo, come se l’odore di urina, sudore e sangue umano facessero parte di una tranquilla giornata di routine.
Il sangue dei titani sarebbe evaporato in pochi secondi.
Un motivo in più per continuare a studiare e lavorare su di loro.
Hanji Zoe i titani non li torturava davvero, non avrebbe mai potuto: era obbligata a testare su di loro determinate cose e soffriva tremendamente nel farlo, bizzarre creature che seguivano un istinto tutto loro, senza alcuna premeditazione o cattiveria gratuita. Erano semplicemente così, a prescindere dalle eventuali anomalie o distorsioni, a loro modo ingenui.
Trasse un profondo respiro e finalmente arrivò alla porta della sua stanza: posò pesantemente la testa contro il legno prima di trovare la forza di mettere la mano sulla maniglia. Le dita le tremarono e dovette fare un grandissimo sforzo per serrarle sul freddo ottone ed entrare dove sarebbe stata al sicuro da tutto il mondo.
Almeno per qualche ora via da tutti, via dall’orrore che aveva fatto.
La porta si chiuse alle sue spalle, un rumore che a lei sembrò assordante, e con pochi ed esausti passi arrivò al letto dove si sedette, la testa china e le braccia abbandonate sulle cosce: c’era del sangue anche sui pantaloni.
Le sue mani sfregarono distrattamente sulla stoffa: non capì se si sporcarono per i pantaloni o viceversa; quel sangue era veramente dappertutto, le penetrava nella pelle peggio di una lama, facendola sentire sporca in un modo orribile.
 
Il tempo continuava a scorrere, la luce che entrava dalla finestra che si faceva sempre più rossastra, annunciando il tramonto. Restava ferma in quella posizione oggettivamente poco riposante, le assi del pavimento sotto i suoi occhi che mai erano state osservate così a lungo con tanta passività.
La sua mente, in genere svelta e acuta, riusciva solo a ripercorrere ogni singolo secondo di quella giornata che non avrebbe mai voluto vivere: non è molto bello scoprire di essere capace di torturare un essere umano.
Perché era tortura: non poteva nemmeno nasconderla dietro la parola esperimento come faceva per i titani. Perché per le sue cavie lei provava dolore, simpatia, non godeva assolutamente nel far loro del male.
Sono come lui?
La domanda che le bruciava nel profondo dell’anima prese finalmente il sopravvento.
Sangue, urla, dolore: aveva provocato quasi tutto lei con quegli attrezzi chirurgici che aveva manovrato come uno scienziato pazzo. Le unghie strappate da ogni singolo dito delle mani, prima con goffaggine poi con maggiore maestria…
Te ne sei sentita fiera?
Perché anche se era stata costretta a mantenere un’aria noncurante, anzi persino allegra, non poteva negare di aver provato una perversa soddisfazione nel perfezionarsi unghia dopo unghia, dente dopo dente. Come quando da piccola faceva le prime prove di scrittura dei numeri: aveva grandi difficoltà per fare l’otto, ma poi man mano che lo disegnava nei fogli con le matite colorate le usciva sempre meglio, più preciso, i due tondi perfetti… e se ne sentiva così fiera.
“Cavoli, non è stato per niente facile, meno male che ho cominciato a prenderci la mano dopo la quinta.”
Il ricordo della sua voce le dette profondo fastidio: come era riuscita a sorridere davanti ad una cosa simile? Come aveva potuto sentirsi innegabilmente fiera di quell’atto orribile?
“Fatelo! Continuate a divertirvi nel torturarmi! Voi amate la violenza, no?”
“No! – scosse il capo, una ciocca di capelli che le cadeva sulla lente destra – Non è vero, è stato necessario!
“Aspetta! Non hai risposto abbastanza in fretta: punizione! Ne voglio uno senza carie.”
Era stata lei, proprio lei, a dire quelle parole a infilare quelle tenaglie sporche di sangue nella bocca di Sanes, nel cavare quei denti. Con una facilità disarmante, con una strana forma di partecipazione per quel gioco assurdo che era la tortura.
“Sono come lui…”
Non era più una domanda e questo faceva dannatamente male.
E la cosa triste era che non aveva nemmeno la voglia di piangere ed era ingiusto.
 
Bussarono alla porta, ma lei non rispose: non era proprio il momento per affrontare qualcuno.
Tornò a fissare il pavimento con ostinazione, i pugni serrati sulle cosce, pregando che quel contatto con il mondo esterno decidesse di non insistere.
Ma dopo qualche secondo sentì la maniglia abbassarsi, i cardini cigolare lievemente.
“Ohi, Hanji.”
Nel sentire quella voce gli occhi castani si dilatarono leggermente: perché proprio lui?
Per ricordarle quello che avevano compiuto assieme su un loro simile nemmeno qualche ora fa? Per farla sentire la più crudele, perché in fondo lui aveva dato solo pugni e ordinari colpi: gli attrezzi chirurgici erano tutt’altra cosa.
Vattene.” non lo disse davvero, le labbra si limitarono a sillabare quella supplica.
Ci furono dieci secondi di profondo silenzio, in cui lei fu perfettamente consapevole dello sguardo di quegli occhi azzurri ed incavati, l’espressione annoiata come era tipico di Levi.
Anche durante la tortura.
L’allegrona e l’annoiato… una bella coppia di mostri.
“Che schifo, – disse lui, andando verso la finestra – la puzza che hai addosso ha appestato la stanza: meglio far arieggiare. Vatti a fare un bagno, stupida quattrocchi, e se vuoi un consiglio butta quei vestiti, quelle macchie non andranno più via.”
E per lavare via il lordume dalla mia anima cosa posso fare?
Ci fu ancora silenzio tra loro due: niente botta e risposta questa volta.
Le scarpe di Levi entrarono nel suo campo visivo e ancora una volta si sentì squadrata dagli occhi infossati.
“Hai goduto?” chiese all’improvviso, decidendosi ad alzare il volto su di lui, affrontandone l’espressione impassibile.
“Non ho mai visto persone godere così tanto nel torturare il prossimo.”
Possibile che quelle parole di Sanes non esprimessero che la pura e semplice verità?
Vendetta per Nick, compiacimento per la sua bravura nell’usare quegli attrezzi… possibile che lei fosse un mostro simile?
“Sono stato per ore in una stanza maleodorante e sporca di sangue e piscio a sentire i vaneggi di un coglione. Dimmi che cosa ci trovi di godurioso in questo…”
“Quando lo colpivi.” Hanji lo incalzò con rabbia.
Perché Levi aveva usato i guanti ed un grembiule da macellaio nella sua maniacale esigenza di pulizia. Era così che si proteggeva l’anima? Bastavano un grembiule e dei guanti per evitare di sentirsi dei mostri?
“Non è come il sangue dei titani – mormorò, tornando a guardarsi le mani ed i pantaloni – non va via. Penetra dentro l’anima e fa capire che in fondo… in fondo sono come lui. Se fossi entrata nella guardia cittadina…”
“Non dire idiozie, Hanji – la voce di Levi era annoiata – c’è un abisso tra noi e lui. Perché le sue parole devono turbarti così tanto?”
“Dov’è questo abisso?” sussurrò lei.
La mano di Levi si posò sulla sua testa e la obbligò ad alzare lo sguardo verso di lui: camicia e pantaloni puliti, viso perfetto così come i capelli neri e fini, sembrava che niente potesse contaminarlo.
“Quante unghie gli hai strappato?”
“Dieci, lo sai bene.”
“Quanti denti?” la mano la scrollò leggermente quando lei esitò.
“Sei…” le venne da piangere nel dire ad alta voce quei numeri.
“Quanto fa dieci più sei?”
“Finiscila, ti prego…” fu un sussurro disperato, mentre serrava gli occhi e le lacrime iniziavano a colare più rapidamente sulle guance sporche.
“Dieci più sei, coraggio.”
“Sedici… fa sedici! Sei contento?”
Urlò quest’ultima frase, alzandosi in piedi e fronteggiandolo: le braccia lungo i fianchi, i pugni stretti quasi volesse colpirlo. Perché doveva infierire in questo modo? Non lo capiva proprio il suo stato d’animo? Il suo sentirsi sporca in maniera indelebile?
“Sedici, Hanji: dieci più sei… tu non hai perso il conto: ecco l’abisso, stupida quattrocchi.”
E non perché te ne vanti, ma perché ti ha bruciato ogni singola unghia strappata ed ogni dannato dente cavato. Perché ti mostravi allegra e disinvolta, ma in realtà le tue mani tremavano e più di una volta nel levarti il sudore dal viso ti sei asciugata le lacrime.
Non disse queste parole, ma fu come se la frase continuasse da sola, riecheggiando nella mente ferita della donna.
“Hanji, sul serio, vatti a fare un bagno – sospirò Levi – ne hai proprio bisogno, non sei nemmeno in grado di pensare con lucidità.”
“Probabile…”
Lui annuì lievemente, come a sincerarsi che lei avesse recepito il concetto e poi si diresse verso la porta.
“Ricordati di buttare quei vestiti e cambiati anche le lenzuola, visto che ci sei. Io vado a lavarmi le mani e a farmi una tazza di the.”
La porta si chiuse alle sue spalle ed Hanji rimase in piedi, riuscendo a sorridere tristemente, ma con sincerità. E non perché era stata brava ad usare quegli attrezzi, a fare male ad un altro essere umano.
Perché non perderò mai il conto e spero con tutto il cuore che rimanga a sedici.
Anche se li aspettavano tempi duri, anche se ora avrebbe dovuto combattere contro i suoi simili.
Ed il sangue umano non evapora come quello dei titani.
  
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