In
un diario
Io
mi chiamo
Vorrei
cominciare dicendo
È
la prima volta che tengo un diario
Di
me stessa e della mia vita attuale non ho molto da dire: sono
una ragazza intelligente (dicono), di indole contemplativa (questo me
l’ha
detto uno psichiatra), un’indole che mi ha permesso di
riflettere sul mio
passato e che ora mi permette di scrivere questo diario. Continuo a
tenerlo
aggiornato anche se è difficile. È davvero molto
difficile. Scrivere è
difficile. Scrivere, lasciare che venga fuori tutto, lasciare che le
parole
scarabocchiate su una pagina coprano il dolore... È quasi
impossibile. All’ultimo
momento forse strapperò le pagine e le getterò
nel cestino o le userò per
accendere il fuoco.
Un
sentimento al quale non so dare un nome preciso si impossessa
ogni tanto del mio spirito: è uno stato d’animo
che non può essere compreso o
analizzato. È un sentimento inesprimibile.
È
qualcosa di
Quando
ero bambina non c’era. C’erano molti sentimenti, ma
questo
no.
Sarebbe
stato troppo bello sentire solo questo, sconosciuto
sentimento.
Quando ero bambina, dico, ma in realtà non sono mai stata
veramente bambina. I
pochi ricordi della mia infanzia sono legati ad una casa arredata con
mobili
antichi, ad un gatto, il gatto della mia famiglia, un gatto bianco con
la testa
grigia che sonnecchiava in salotto e alla figura di mio padre. Per un
osservatore superficiale o per un passante che avesse, per caso,
incrociato il
suo sguardo e la sua persona per strada, il suo aspetto non avrebbe
avuto
niente di apparentemente anormale. In quanto a statura, era alto, molto
più alto
di me, spalle larghe, robusto, ma non grasso. Singolare era
l’espressione del
suo viso, indefinibile direi oggi. Come quel sentimento. I capelli
grigi erano
la testimonianza degli anni addietro, gli occhi altrettanto grigi
parevano a
volte minacciosi, a volte gelidi, altre volte solo distanti,
annebbiati; a
volte attenti, curiosi, audaci.
Per
un osservatore superficiale, ho detto. Perché
l’osservatore
superficiale si ferma alle apparenze. Non vede lo spirito, se no
salvarmi
sarebbe stato facile per chiunque.
Intendere l’orrore che provavo è impossibile. Voi
potete solo immaginare, ma
intendere no. Le persone tremano perché hanno paura di
perdere una persona
cara, si sentono morire alla sola idea di essere abbandonate da chi
amano. Si
sentono sole se il loro amore, il loro amico se ne va.
Io
no. Io avrei preferito essere abbandonata, ho desiderato morire
perché avevo una famiglia. Ho desiderato uccidere.
Ho tremato anch’io. Ho tremato tutte le sere da quando avevo
circa dieci anni,
tutte le sere.
Tutte
le notti.
Anche
nei giorni in cui nulla accadeva, nei giorni in cui il
mostro mi lasciava in pace, ho tremato e gli unici sogni che mi
tenevano
compagnia erano lande desolate dove non cresceva un filo
d’erba né scorreva un
rivolo d’acqua, belve che mi strappavano gli arti, ombre che
si allungavano per
acciuffarmi, per trascinarmi nell’abisso, più
giù, più giù di quanto già
non
fossi scivolata, perché “ toccare il
fondo”
per me era un’espressione senza senso.. Il fondo
non esisteva. Non
esiste. Si cade e cade e cade e cade... E bisogna cercare un appiglio,
qualcosa
a cui aggrapparsi, altrimenti la caduta continua, inesorabile. Io
volevo
Mio
padre entrava nella mia stanza, silenzioso, chiudeva la porta
dietro di sé, bofonchiava sommessamente. I passi erano
inquieti, incerti,
sembrava strascicasse i piedi sul pavimento. Mi toccava un
po’ mentre io
fingevo di dormire, si toglieva la camicia e poi entrava nel mio letto.
Da quel
momento in avanti, la stanza e le immediate vicinanze erano preda delle
tenebre
di una notte nera, confusione di cigolii, gemiti provocati da un corpo
pesante
che mi schiacciava. Avevo gli occhi chiusi, ma sentivo il suo respiro
sul mio
collo, le sue mani che mi facevano male. Qualche volta mi sussurrava
parole in
tono di comando, ma per quanto fosse vicino, la sua voce mi giungeva da
un
miglio di distanza. Ricordo l’alito pesante. Puzzava di
tabacco, perché fumava
molto. Almeno venti sigarette al giorno.
Mia madre lo sapeva. Mi sono trovata faccia a faccia con lei e le ho
parlato.
Ha visto con i suoi occhi i miei disegni, ma li ha strappati. Diceva di
non
raccontarlo in giro, di non preoccuparmi perché non era
colpa di papà. Lui era
malato. Era colpa della malattia, non sua. C’era qualcosa nel
suo cervello che
gli impediva di ragionare. C’era qualcosa... Lei non sapeva
spiegare cosa
fosse, ma c’era.
La
rabbia che si impadroniva del mio animo in quegli istanti quasi
non mi permetteva di reggermi in piedi.
Barcollando sulle gambe, andavo a scuola come se niente fosse,
ascoltavo
impassibile le chiacchiere di una maestra che si domandava
perché non parlassi
mai con gli altri compagni. Ascoltavo le prese per i fondelli di
bambini che
giocavano nel cortile e ridevano del mio mutismo, della mia
incapacità di
comunicare in una lingua a loro comprensibile. Guardavo le mamme e i
padri
degli altri scolari e un sacco di interrogativi popolavano la mia
mente: succede anche a loro? Sono io che sto
sbagliando e in realtà è una cosa normale?
L’amore si dimostra così?
Ma
più passava il tempo e più capivo che
l’amore è ben altro. E la
paura aumentava, cresceva a dismisura. Mi sentivo sporca.
Sporca,
sola e inutile. Dentro e fuori.
Stomacata...
Nauseata... Frustrata... Avvilita...
Volevo
sparire. Volevo urlare.
E
volevo anche trovare un luogo sicuro in cui nascondermi, braccia
che mi avrebbero stretto senza farmi male, braccia che mi avrebbero
stretto per
amarmi, per consolarmi, per aiutarmi.
Sapevo
che esisteva, quel luogo.
Sapevo
che esistevano quelle braccia. Ma non sapevo dove cercare.
Non
sapete quante volte avrei voluto parlare con qualcuno,
confidarmi, ma più provavo a farlo e più le
parole non uscivano, nella mente si
apriva un vuoto incredibile.
E
più non parlavo, più sprofondavo... e
più sprofondavo, più
piangevo. Ma sempre da sola, di nascosto.
Poi è finito tutto.
É finito in un attimo, così com’era
cominciato. Non so se siano state le mie
preghiere, le suppliche che rivolgevo a Dio o un fatto naturale (in
fondo, Dio
non mi aveva aiutata fino a quel momento, perché iniziare? E
così tardi per
giunta! Se ne andasse).
Un
giorno mio padre iniziò a sentirsi male, ad avere dolori
fortissimi e un sacco di altri sintomi che non ricordo. Lo portarono in
ospedale d’urgenza e per settimane restò in
osservazione. Non gli davano molte
speranze e le uniche persone che potevano vederlo eravamo io e mia
madre.
Ed ero sola con lui quando accadde.
I macchinari cominciarono a suonare. Stavo per chiamare
l’infermeria ma alla
fine mi alzai e spensi l’allarme. Non venne nessuno. Nessuno
lo aiutò. Forse
sapevano cos’era successo ma non dissero niente.
Avevo
diciassette anni.
Ho ucciso?
Sta di fatto che non ho mai provato un sollievo così grande
come quando mi
dissero che mio padre non c’era più.
Lo so. Alcuni sentenzierebbero che io non devo odiare.
È
giusto che provi rabbia, risentimento. È giusto il disgusto
e
anche la vergogna.
Altri
consiglierebbero di dimenticare, di far finta che nulla sia
successo, di non pensare a mio padre. C’è chi mi
ha persino detto di perdonare
e di guardare avanti.
Può
essere che abbiano ragione quando spiegano che l’odio ti
rovina, ti corrompe l’animo fino a distruggerti la vita, ti
schiaccia sotto il
suo peso fino a impedirti di ragionare con lucidità, ti
porta a fare del male a
persone che non c’entrano.
Ma
io non posso fare a meno di odiare.
Mi
è capitato di andare sulla tomba del mostro, ma non sono
uscite
lacrime, quelle le ho finite molto tempo fa. L’unica cosa che
è traboccata è
l’odio.
Ci
sono momenti in cui non penso affatto ed è allora che
sopraggiunge quel sentimento indefinibile. Però ci sono pure
giorni in cui
l’odio è più forte di qualsiasi altro
sentimento umano.
Ti odio, mi senti?
I O T I
O D I O