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Autore: KeyLimner    25/03/2014    1 recensioni
"«Poi lui mi baciò».
Avrebbe potuto scrivere film interi su quel bacio. Quel bacio aveva riassunto in sé una vita intera, ed era ancora era in grado di riassumerla: bastava che nella sua mente riavvolgesse il nastro del tempo e premesse il tasto replay per riguardare per l’ennesima volta quella scena rimasta congelata negli anni.
Ma di baci s’è già scritto fin troppo.
La verità è che quello fu un bacio come milioni di altri, e allo stesso tempo unico nel suo genere… allo stesso modo in cui ogni fiocco di neve risulta indistinguibile dai suoi fratelli ed è in realtà unico e inimitabile… né mai cadrà sulla terra un fiocco che sia simile ad un altro"
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Pochi giorni dopo la pubblicazione della sua intervista sul blog del giovane Zachary, la segreteria del cellulare di Mattia cominciò a riempirsi di messaggi.
Sulla scrivania del suo ufficio, in cima a una pila di fogli accatastati alla rinfusa, stava dischiuso un bigliettino. Una grafia fitta ed elegante, piena di svolazzi, campeggiava sulla carta rosa dall’aroma di lavanda. Era da parte di una certa “Madame Butterfly”… chiaramente uno pseudonimo. Non aveva neanche indicato la città di provenienza e la mail.
Diceva madame Butterfly: “Mio caro giovanotto, se solo al mondo esistessero più persone come lei e meno ipocriti… allora questo sarebbe certamente un posto migliore in cui vivere. Le sue parole mi hanno aperto il cuore, e mi hanno fatto capire quanto fossi sempre stata cieca. Confesso di non essere mai riuscita davvero a comprendere mia figlia, quando un mattino venne da me e in poco tempo disintegrò anni di progetti delineati con cura circa il suo avvenire, la famiglia che avrebbe avuto, i nipotini che un giorno avrebbero allietato la mia vecchiaia riempiendo con le loro allegre risa la mia veranda. Ho accettato la cosa, come si fa quando qualcuno a noi caro fa una scelta che non condividiamo e che ci ferisce… solo per non rischiare di perderla. Ma non è possibile accettare veramente senza comprendere. E grazie a lei l'ho finalmente capito. Non posso trovare parole adeguate ad esprimere la mia riconoscenza. Posso solo comunicarle tutta la mia ammirazione. Cordiali saluti”.
I messaggi nella segreteria e le altre lettere erano più o meno sullo stesso tono, ma era evidente dalla frequenza con cui il ragazzo tornava a scorrere quelle righe, tra una cosa e l'altra, che quel biglietto lo aveva particolarmente colpito.
Dopo un po’ si lasciò cadere sulla poltrona. Fece scrocchiare le ossa intorpidite, poi chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi le tempie.
Era esausto. Mai come quel giorno, alla redazione c’era stato un così incessante andirivieni di persone. Il telefono non faceva che squillare dalle otto. Ormai poteva sentire il suo trillo acuto trapanargli il cervello anche nel silenzio assoluto.
Non si sarebbe mai aspettato una reazione del genere. In fondo - aveva pensato - il mondo pullula di cretini che non fanno che vomitare la loro vita sul web senza alcun riguardo per la propria privacy. Inizialmente aveva avuto qualche remora a dare il proprio assenso a Laura, quando se ne era uscita con quella brillante idea dell’intervista. Ma lei aveva tanto insistito che alla fine aveva ceduto. “Vedrai che la vostra storia piacerà un sacco”, aveva detto la giovane, entusiasta. “E il blog ha proprio bisogno di una spintarella” Zachary non aveva cercato di mettergli pressione in alcun modo, ma era evidente che era stato felice che acconsentisse,
Naturalmente, una volta redatta la prima bozza, Laura aveva provveduto subito a fornirgliene una copia cartacea. Adesso il fascicolo giaceva nell’ultimo cassetto della scrivania, sepolto sotto un cumulo di documenti… tuttavia, il testo continuava a scorrergli innanzi agli occhi come l’avesse avuto fra le mani. E ancor più vivida era nella sua mente la voce squillante dell’amica, mentre lo interrogava col tono professionale che usava di solito in televisione… così strano da sentire rivolto a lui. Ricordava anche la sua posizione: la schiena eretta che non sfiorava neanche lo schienale della sedia, le gambe accavallate, le lunghe unghie smaltate serrate sulla carta giallina del taccuino; se pensava al modo in cui la vedeva sedere di solito, con i piedi tirati sul sedile e le gambe attorcigliate in modi improponibili, aveva trattenuto a stento le risa.
«Quando vi siete conosciuti tu e Zachary?».
«All’età di quattordici anni. In collegio. O meglio... io avevo quattordici anni perché ho fatto la primina».
«Quindi Zachary era il più grande dei due?».
«Sì… ma guardandoci non l’avresti mai detto. Voglio dire, io sono sempre stato piuttosto alto per la mia età. Zachary invece… be’, a vedere che razza di armadio è diventato ci si stupisce, adesso… ma allora era piuttosto mingherlino. Dava l’impressione che avresti potuto farlo volare via con un soffio». Mattia ridacchiò.
«Cosa vi ha fatto incontrare?».
Il ragazzo si sentiva a disagio. Continuava a sistemarsi il colletto, come se lo soffocasse. «Non amo raccontarlo… Ero un ragazzo stupido e arrogante. Troppo arrogante. Abbastanza da sentirmi in diritto di sbandierare la mia presunta superiorità su un ragazzetto da poco arrivato nella scuola… solo perché era di origine africana e sua madre per mantenerlo era costretta a lavorare come sguattera, mentre mio padre era un pezzo grosso nella finanza».
«Che cosa è successo esattamente?».
Nella stanza c’era una temperatura torrida. Mattia poteva vedere l’aria fremere oltre le imposte serrate delle finestre come se tutte le minuscole particelle che la componevano ardessero contemporaneamente, arroventandosi a vicenda.
«Be’… In tre anni passati in quella scuola, mi ero circondato di una cricca di fedeli seguaci, e… sai come funziona tra ragazzi… non aspettavamo altro che una giovane preda sprovveduta da attaccare. Zachary era il bersaglio perfetto. Senza contare che aveva qualcosa… Adesso non saprei spiegare. Ma ricordo come fosse ieri la prima volta che lo vidi. Fu durante la partita di calcetto della scuola. Lui distribuiva bibite e pizzette fra gli spettatori, e passandomi davanti scivolò su una pozza di coca cola e mi cadde fra le braccia, rovesciandomi addosso tutto il contenuto del suo carrellino. Si chinò subito a raccogliere, profondendosi in scuse. Ma io non gliela lasciai passare liscia. Lo afferrai per il bavero e lo costrinsi a guardarmi negli occhi. Dio, quegli occhi non li scorderò mai! Mi colpirono, perché erano azzurri. Azzurri come i ciottoli che si vedono sul fondo del mare, verso la riva, attraverso le acque limpide. Non avevo mai visto un nero con gli occhi azzurri. Più tardi seppi che entrambi i suoi genitori erano inglesi per parte di padre, e che lui aveva ereditato gli occhi dei nonni. Ma sul momento rimasi così colpito che per un attimo lo fissai in silenzio, e lui mi guardò di rimando, gli occhi sbarrati pieni di paura che volevano fuggire verso il pavimento, dove ancora stavano sparpagliati panini, pizzette e bottigliette di Coca Cola e acqua minerale. Ma fu un attimo. Poi cominciai a dirgliene di tutti i colori. Buttai a terra quel poco che restava del suo carrellino e cominciai a calpestare con violenza le cose rimaste intatte, gridandogli di sparire dalla mia vista. Lui scappò via in lacrime, umiliato.
E quello fu solo l’inizio. Da quel giorno in poi, non lo lasciai più in pace. Non so perché mi accanissi tanto contro di lui… il solo vederlo mi faceva salire una tale rabbia che non potevo fare a meno di cercare qualunque pretesto per attaccare briga. Ricordo che una volta lo costringemmo a mettere delle puntine sulla sedia della professoressa di inglese… che fra l’altro lo adorava, perché grazie a sua madre aveva sempre avuto un ottima proprietà di linguaggio. All’inizio lui tentò di ribellarsi, ma poi si rassegnò ad obbedire. Fu scoperto. Rischiò l’espulsione, quella volta. Fu un gesto estremamente crudele da parte nostra… visto che sapevamo bene quanti sacrifici facesse sua madre per permettergli di studiare… e difatti la notte mi girai e rigirai nel letto tormentato dai sensi di colpa. Quando la mattina seguente scoprii che non era stato cacciato, tirai un sospiro di sollievo».
Mentre parlava, la penna di Laura scorreva rapida foglio, emettendo uno sgradevole suono. Mattia seguì rapito la sua corsa frenetica.
«E poi? Cosa è cambiato?».
«Successe tutto all’improvviso. Per più di un anno la situazione continuò ad andare avanti così. Poi, un giorno… Lo stavo prendendo in giro, come al solito… non ricordo più nemmeno per quale motivo… e lui, a un certo punto, dopo aver incassato in silenzio per un po’, alzò la testa e mi piantò in faccia due occhiacci cattivi. Rimasi così sorpreso di vederlo reagire che quando mi si avvicinò col braccio levato non pensai nemmeno a scansarmi. Mi colpì dritto in faccia. Io barcollai, stordito. Poi prese a urlarmi contro. Mi disse che non ero altro che un figlio di papà… che non valevo niente… che era solo per i soldi del mio paparino se avevo la possibilità di prendere lezioni private con i migliori insegnanti… di andarmene nei più rinomati college all’estero… persino di guadagnarmi la stima dei miei coetanei. Lui - disse - era un poveraccio, e doveva faticare il triplo per potersi permettere di fare anche solo la metà di quel che facevo io… e magari non sarebbe riuscito ad arrivare da nessuna parte… ma se mai fosse riuscito a combinare qualcosa, avrebbe avuto la soddisfazione di sapere di esserci riuscito con le sue sole forze. Io, invece, avrei sempre dovuto condividere il merito dei miei successi con qualcun altro.
Aveva colto nel segno. Fui così ferito dalle sue parole… le stesse che mi tormentavano tanto spesso… che all’inizio non feci niente. Poi, accecato dall’ira, gli balzai addosso. Facemmo a botte. Lui era più forte di quel che la sua piccola statura faceva supporre. Ne presi almeno tante quante gliene diedi. Dopo un po’, quando attorno a noi si era già radunata una folla di spettatori esultanti, un professore venne a separarci. Ci dette una bella strigliata, dopodiché ci condusse entrambi nell’ufficio del preside. Ricordo che aspettammo per mezz’ora su due sedie di legno sgangherate fuori dalla porta, ed entrambi fissavamo i lacci delle nostre scarpe in silenzio».
«Foste puniti in seguito a quell’episodio?».
«Non io. Dopo pochi minuti arrivò mio padre tutto trafelato, e dopo aver lanciato una breve occhiata a Zachary… un’occhiata piena di disprezzo… entrò nell’ufficio del preside. Per tutto il tempo che passò dietro quella porta, io non ebbi il coraggio di guardare in faccia Zachary. Sulla mia pelle bruciava ancora lo sguardo che mio padre gli aveva rivolto… come se l’avesse rivolto direttamente a me. L’aveva guardato… come se fosse una nullità. Come se non valesse di più di una bestia. Naturalmente sapevo benissimo come sarebbe andata a finire. Mio padre avrebbe convinto il preside che non ero io quello nel torto… il preside sarebbe stato ben lieto di lasciarsi convincere, timoroso di perdere un appoggio così prezioso per la sua scuola… e tutta la colpa sarebbe ricaduta su Zachary. Non era che una conferma di quello che aveva detto poco prima. Lo sapevo benissimo. E lo sapeva anche lui. Guardava dritto innanzi a sé, conscio come me di quel che lo aspettava… ed i suoi occhi erano pieni di fierezza. Io, invece, mi vergognavo come un ladro».
«Fu espulso alla fine?».
«Sì». Mattia aveva abbassato lo sguardo. «Io… non potevo liberarmi dei sensi di colpa. Dopo una settimana mi feci dare il suo indirizzo e andai a casa sua. Abitava in un tugurio, in una squallida via di periferia. Dopo un attimo di esitazione, suonai il campanello. Mi aprì sua madre».
A quel punto Mattia fernò. Gli era tornata alla mente un’immagine incredibilmente realistica della donna. Aveva riconosciuto subito sul suo volto i lineamenti di Zachary, tuttavia era stato in grado di ravvisare in essi una certa dolcezza che era assente nel figlio. E i suoi occhi, a differenza di quelli di Zachary, erano neri. Neri come due lucide sfere di ossidiana. L’avevano scrutato a lungo, quegli occhi, come se potessero penetrare nella sua anima. Aveva sentito un brivido corrergli lungo la schiena, mentre percepiva la loro gelida accusa e la subiva umilmente, a testa china, conscio di meritarla. Mille discorsi erano fluiti silenziosamente fra loro nello spazio di un secondo.
Al prolungarsi della pausa, il grattare della penna si fermò, e Laura levò gli occhi dagli appunti, guardandolo al di sopra degli occhialetti tondi.
«Ci sei?».
«Sì… sì. Dicevo… mi fece entrare senza dire una parola. Dentro, vidi Zachary. Stava riparando un armadio. Quando la madre tornò nella stanza, biascicò qualcosa nella sua lingua in tono interrogativo, voltandosi verso di lei. Nel vedermi, rimase paralizzato. “Aspettami qui”, disse alla madre, alzandosi. “Torno subito”. Poi mi mise una mano sulla spalla e mi condusse fuori».
Mattia tacque. Il suo cuore batteva come un tamburo.
Laura lo incoraggiò. «E poi?».
«Mi guidò senza aprire bocca attraverso le strade affollate del quartiere, ed io lo seguii in silenzio. Cominciava a fare buio. Le luci del tramonto sparivano a poco a poco oltre le cime dei palazzi, e le ombre si allungavano sempre di più, mentre le figure che si stagliavano sul cielo si facevano via via più livide. Alla fine, arrivammo in un parco deserto. Nel parco c’erano solo un piccolo scivolo e un paio di altalene, di cui una era rotta. Mi condusse fino al bordo estremo del recinto, dove una fila di alberi ci nascondeva alla vista. Mi guardò in attesa. “Che vuoi?”, chiese, gelido». Mattia serrò la mascella. «Non sapevo che rispondere. Per un po’ rimasi in silenzio, incapace di proferire parola. Poi scoppiai in un pianto convulso. Singhiozzando come un bambino, gli dissi che mi dispiaceva tantissimo per quel che era accaduto, e che ero solo un deficiente, che era tutta colpa mia se lui adesso non avrebbe più potuto frequentare quella scuola, dopo che sua madre aveva faticato tanto perché ci entrasse… e via dicendo». Fece una pausa. «Lui a un certo punto mi mise l’indice sulle labbra per farmi tacere. Tacqui. Ci guardammo a lungo. E non solo i volti… ma qualcosa al di là dei volti… qualcosa di cui entrambi avevamo sempre sospettato la presenza senza mai confessarla. Intorno a noi, le ultime luci del tramonto morivano, lasciandosi dietro una cupa ombra che sembrava circondare come un caldo abbraccio i sussurri delle nostre anime. E poi lui…». Si arrestò di colpo.
Gli occhi di Laura lo fissarono intensamente. Un sorriso affiorò leggermente dalle sue labbra, tradendola ancora una volta. Perché lei sapeva come la storia sarebbe andata a finire. E a bramare di sentire ancora una volta quel frammento non era tanto la penna, che lo serbava già nella sua memoria e avrebbe potuto plasmare quella materia duttile a suo piacimento, in modo da fargli di catturare l’interesse del pubblico. Era lei a volerlo. I suoi occhi gli frugavano il volto maliziosi, in attesa non delle sue parole, ma della sua reazione, dello sbocciare del fiore di sangue che, affluito al suo volto, avrebbe conferito a quelle parole la vita.
Difatti, lui sentì le guance avvampare.
«Poi lui mi baciò».
Avrebbe potuto scrivere film interi su quel bacio. Quel bacio aveva riassunto in sé una vita intera, ed era ancora era in grado di riassumerla: bastava che nella sua mente riavvolgesse il nastro del tempo e premesse il tasto replay per riguardare per l’ennesima volta quella scena rimasta congelata negli anni.
Ma di baci s’è già scritto fin troppo.
La verità è che quello fu un bacio come milioni di altri, e allo stesso tempo unico nel suo genere… allo stesso modo in cui ogni fiocco di neve risulta indistinguibile dai suoi fratelli ed è in realtà unico e inimitabile… né mai cadrà sulla terra un fiocco che sia simile ad un altro.
Anche in quella circostanza, come in molte altre, Mattia era stato costretto a sprecare inutili parole su un qualcosa che nessuna parola, neanche un milione di parole, avrebbe potuto contenere… perché la gente è sempre affamata di parole: la gente vive le vite altrui attraverso le parole, parole che col loro colore, col loro spessore, con la loro raffinatezza, possono - se ben intagliate - permettere di guardare il mondo attraverso occhi sconosciuti… che tutta via siamo sempre in grado di scoprire simili ai nostri. Da tempo ormai Mattia non sperava più di poter descrivere il suo mondo interiore con le parole, tuttavia delle parole aveva imparato a servirsi per delineare un mondo che potesse avere degli orizzonti in comune con quello dei suoi lettori… un mondo che, come un immenso giardino, contenesse alcuni dei suoi fiori e dei suoi alberi, lasciando spazio anche i fiori e gli alberi dei suoi vicini.
Naturalmente, c’era ancora molto da raccontare, e molte altre storie - forse anche più interessanti di questa - sul modo in cui entrambi avevano imparato a conoscersi, a condividere le loro diversità facendone una risorsa, delle difficoltà (soprattutto da parte sua) ad accettare quel sentimento nuovo e sconosciuto, dello shock di suo padre quando era venuto a sapere la cosa, saranno da noi taciute.
Ma questa, come tutte le altre, è solo una storia. Anche questa, una storia come tante. La storia dell’umanità, in fondo. Un’umanità in lotta, mai stanca, che anche quando si siede in un cantuccio a riposare, a leccarsi le ferite, è sempre pronta a riprendere la battaglia.
  
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