Like a needle in the hay, or an expensive stone...
“Nas andiamo?” mi poggiò una mano
sulla spalla e mi sorrise. Io annuì copiando il suo sorriso e ci dirigemmo sul
palco. Sempre gli ultimi a salire.
Siamo sempre stati io e lui
contro il mondo. Noi a farci forza in questo grande, cattivo e rumoroso mondo. Dopo
molti anni di riflessioni, discussioni, bisticci arrivai alla conclusione che
niente e nessuno avrebbe potuto mai intrufolarsi tra di noi, finalmente avevo o
meglio avevamo trovato la famosa quadratura del cerchio.
Sia ringraziato il giorno in cui lo
incontrai in quel negozio di musica, non quelli che ci sono ora, ma quelli dove
vendevano vinili, cd o cassette; dove entravi e venivi catapultato in un
universo parallelo fatto di profumi come di legno laccato e carta impolverata
mentre in sottofondo potevi sentire le note di qualche band indipendente o
rock, ma mai nulla di commerciale.
Non lo notai subito preso dalla
ricerca del nuovo cd di PJHarvey tra gli scaffali delle novità del periodo,
mentre spostavo l’ultimo album degli Oasis delle note mi giunsero all’orecchio.
Non era nulla di classico tipo Schubert o Mozart, niente di contemporaneo che
mi potesse sembrare di richiamare, ma era un suono melodico e deciso con una
nota di malinconia. Curioso seguì la musica e in un angolo dietro agli scaffali
tra il rock americano e il blues vidi dei ciuffi dritti e un grande pianoforte
scuro che mi nascondeva la visuale del musicista. Mi nascosi dietro allo
spigolo come a non voler disturbare con la mia presenza, socchiudendo gli occhi
per farmi trasportare dalla melodia, e aspettai non so quanto, perdendo
completamente la cognizione del tempo.
D’un tratto tutto tacque e io non
seppi se volli o meno riaprire gl’occhi e lasciare tutto il rumore del mondo
attorno a me intromettersi. Quando finalmente mi decisi ne trovai due verde
smeraldo incollati ai miei, e subito un sorriso brillante ad accompagnarli.
“Non volevo disturbarti, io…ora
vado” dissi sgattaiolando via, o almeno tentando quando sentii una mano sulla
spalla.
“Cosa ne pensi?” mi chiese
schietto.
“Mh...” mi morsi il labbro
inferiore interdetto sentendo ancora il suo palmo caldo su di me.
“Sincero, non mi offendo” mimò
una croce sul cuore spostando la suddetta mano e portandosela sul petto.
“Sei molto bravo, ma non sono
riuscito a capire di chi fosse”
“Agron”
Accigliai la fronte, mi cullavo
nella consapevolezza di essere un grande intenditore, di conoscere quasi tutto
il mondo musicale eccetto forse qualche canto delle tribù africane o dei tempi
buddisti.
“Chi?” domandai con un tono
leggermente stridulo.
“Io, cioè me. Piacere sono Agron
e ho composto il pezzo che hai appena ascoltato” e allungò la mano verso di me
che strinsi annuendo.
Che strano nome, stavo cercando
di ripeterlo nella mia mente cercando di capire chi fosse questo ragazzo,
sicuramente molto bravo ed estremamente bello. Quando le nostre dita si
sfiorarono sentii un brivido irradiarsi dal polso e percorrermi tutto il corpo,
lasciandomi disorientato e eccitato.
“Tu? Qual è il tuo nome
piccoletto?”
“Eh?! Nasir, e non osare mai più
chiamarmi piccoletto se ti vuoi trovare tutte le ossa al loro posto” finsi un sorrisetto
di circostanza.
“Wow, per essere uno…così giovane
sai il fatto tuo, mi piace!”
Lo guardai incredulo come se gli
fossero spuntate altre due teste o fosse un troll. Poi mentre pensavo ad un
modo per fuggire da questo aitante, bellissimo, sbagliatissimo e probabilmente
etero ragazzo lui disse la cosa più improbabile di tutte.
“Posso offrirti un caffè?”
E da quel pomeriggio tutto
cambiò, parlammo a lungo di musica e lui mi raccontò di come fosse venuto dalla
Germania per poche settimane per inseguire il sogno di suonare in una band o
per chiunque gli proponesse di pagarlo per farlo. Entrambi volevamo fare i
musicisti nella vita, nessuno dei futuri programmati dalla nostra famiglia
avevano appeal su di noi, e io gli raccontai di come odiavo il lavoro d’ufficio
che facevo in quel periodo dove mi riprendevano sempre per le unghie laccate di
nero o perché arrivavo in ritardo. Ci raccontammo i tempi della scuola e lui mi
disse di come fosse il classico ragazzo che tutti pensavano sarebbe finito in
qualche università grazie allo sport, ed io di quanto mi sentissi fuori luogo a
scuola per essere l’unico gay persiano.
Il tempo volò e dopo il suo
ritorno in terra tedesca, quando tornò andammo a vivere assieme e alla ricerca
di una casa discografica che ci desse una possibilità che fortunatamente arrivò
dopo pochi mesi. Trovammo un batterista e iniziammo a lavorare sul nostro primo
album, Agron scrivendo la musica ed io i testi, anche se molti dei più belli
della nostra carriera li ha scritti lui.
Erano dieci anni che condividevo
la vita con quest’uomo, un uomo fantastico, che assaporava la vita come se
fosse sempre l’ultimo giorno, divertente, introverso, amorevole, impulsivo,
testardo e potrei andare avanti per ore. Le persone si fanno impaurire dal suo
aspetto, che non ha nulla a che invidiare ad una statua greca, non notando la
sua complessità, ma io riescivo a reggerlo come un libro aperto ormai.
L’unica cosa che non riuscii a
fare fu confessargli il mio amore, siamo stati con altre persone ma non ha mai
funzionato perché chi ha il tuo cuore non è lo stesso con cui ti risvegli il
mattino dopo, la paura mi ha attanagliato negli anni ingigantendosi e
divorandomi dall’interno. Paura di non essere corrisposto, di perderlo, di
perdere tutto quello che abbiamo ottenuto con anni di gavetta, di concerti semi
deserti, alti e bassi. Non potrei vivere senza di lui, perderei una parte di me
e non so cosa ne rimarrebbe.
Ma stasera qualcosa mi convinse,
forse il suo modo di guardarmi o l’adrenalina per il palco che stavamo per
solcare, così mentre tutti salirono quei pochi scalini io lo bloccai, tirandolo
a me e sfiorai le sue labbra con le mie. Un tocco delicato, temendo una
spiacevole reazione.
“Nasir…” soffiò sulle mie labbra
e mi prese il volto con entrambe le mani per baciarmi, uno di quei baci da
capogiro, le nostre bocche si sfiorarono, fameliche dell’altro e la sua lingua
che chiedeva il permesso per entrare, assaporarmi il palato e giocare con la
mia. Le mie mani di volontà propria vagarono per il suo petto stropicciando il
tessuto della camicia per tirarlo ancora di più contro di me, per sentire il
suo peso sovrastarmi e il suo calore avvolgermi. Lo volevo tutto, volevo mi
inglobasse e fossimo un essere solo, e forse in quel momento lo eravamo. Il suo
sapore un misto di tabacco, della sigaretta appena spenta e qualcosa di
dolciastro che apparteneva solo a lui, solo al mio Agron. Mio, e di
nessun’altro.
Quando ci staccammo per respirare
poggiò la fronte contro la mia ed inspirò a fondo ad occhi chiusi, come se non
volesse risvegliarsi dal sogno di quel momento di passione. Il mondo era
scomparso attorno a noi perché finché uno dei macchinisti mi strattonò non mi
accorsi di nulla, scossi la testa e con un po’ di imbarazzo gli feci cenno di
muoversi. Avevamo un pubblico ad attenderci e molto tempo per stare assieme.
Quando fummo davanti alle
migliaia di persone che erano venute per noi, dopo essersi seduto sullo
sgabello iniziò a muovere le sue dita affusolate e leggere sui tasti bianchi
del piano, con le note di apertura di un nostro vecchio successo, io presi la
mia chitarra ed un plettro dall’asta del microfono per cantare.
Alla fine della canzone mi voltai
verso di lui con un mezzo inchino ed un sorriso che lui ricambiò ricominciando
a suonare, perdendosi nella melodia mentre io ringraziavo ancora una volta gli
Dei per avermi donato lui.
Note: Allora non odiatemi per
piacere, e se qualcuno nel leggere ha trovato similitudini con una band inglese
è perché mi sembrava perfetto prendere spunto da loro, perché Agron e Nasir
sono gli opposti che si completano e così i membri della sopracitata band.
Questa cosa fa schifo, ma qualcuno, e non faccio nomi XD mi ha detto che avrei
potuto tentare…quindi, chiedo venia umilmente e mi scuso dicendo che l’ho
scritta ieri notte guardando le repliche di Spartacus….*regala cioccolatini per
farsi perdonare*, vabeh basta sciapate…BYE