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Autore: udeis    27/03/2014    0 recensioni
John Tokai oggi si occupa di annunciare ai nati babbani di essere maghi: è un uomo felice e appagato. Ma durante la prima guerra magica, come tutti quelli che non erano mangiamorte, non se l'è passata molto bene. Certo, per un Serpeverde, babbanofilo, purosangue, le cose sono sempre un tantino più complicate.
Genere: Generale, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'L'Ufficio alle relazioni babbane e le sue dis/avventure.'
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Come a nessun’altro, non mi piace molto parlare del periodo di Tu-sai-chi.
Quando divenne chiaro che quel mago non si sarebbe fermato davanti a nulla io ero stato assunto all’ ufficio delle relazioni babbane da un paio d’anni e la mia babbanofilia era nota in tutto il mondo magico.
Immagino comprendiate molto bene la situazione.
Un Serpeverde, purosangue e babbanofilo non è per niente sicuro di quale sarà con esattezza il suo destino: da una parte i seguaci di Voi Sapete Chi e Colui Che Non Deve Essere Nominato in persona, folli ed efferati quanto bastava per farmi pagare cara la mia passione, dall’altra quelli del ministero e la resistenza che guardavano con sospetto e disgusto alle mie origini e alla mia carriera scolastica e ancora di più alla posizione neutrale e disinteressata della mia famiglia. E che comunque in quanto a follia non erano messi meglio.
 
All’inizio noi ci sentivamo al sicuro: credevamo fosse solo una moda passeggera, come quella di portarsi dietro un rospo o di allevare draghi domestici, sgradevole e insensata, forse, ma innocua.
Poi la gente cominciò a morire.
 
E anche il nostro passato divenne qualcosa di estremamente pericoloso.
 
Nella famiglia Tokai sono tutti maghi da tre generazioni, ma il nostro capostipite era stato un nato babbano, immigrato tempo prima dal Giappone.
La memoria delle nostre origini era ormai quasi del tutto scomparsa fino a quando io non la riportai alla luce. Sfogliando un vecchissimo album di fotografie, infatti, mi accorsi come alcune di esse non si muovessero affatto e ne rimasi affascinato: avevo sette anni allora e i racconti del mondo babbano e di mio nonno diventarono le mie storie della buonanotte preferite.
A mia nonna, nata babbana anche lei, piaceva molto raccontarle e le piaceva molto avermi come ascoltatore: non si lamentava mai delle mie domande e dava le risposte chiare e precise con la sua voce cantilenante.
Da piccolo costringevo i miei genitori a portarmi a giocare dove giocavano i bambini babbani  e ci trascinavo anche i miei fratelli.
Passò poco tempo e poi anche loro ne restarono affascinati.
Crescendo, io e i miei fratelli continuammo ad esplorare insieme questo mondo così lontano a sconosciuto guidati anche dai babbani che avevamo conosciuto d’estate.
Facevamo cose da ragazzi, anche se mi rendo conto che, allora, dovevamo sembrare ai nostri coetanei degli autentici idioti, privi come eravamo della conoscenza di alcune cose basilari come l’età giusta per bere, il modo migliore per rubare al negozio all’angolo e un sacco di altre informazioni fondamentali come nomi di cantanti e programmi televisivi.
Non che questo ci abbia mai fermato: estati migliori di quelle non ci sono più state.
All’inizio tutte quelle domande a cui non sapevamo rispondere ci avevano messo in imbarazzo, ma poi io e i miei fratelli avevamo unito le forze e nessuno ci aveva più preso in giro o sottovalutato, al contrario eravamo piuttosto benvoluti. Eravamo uno strano trio: quello silenzioso e introverso, quella saccente e responsabile e il curioso entusiasta.
 
Tutti indistintamente abbiamo studiato Babbanologia con un autentico interesse, tutti abbiamo mantenuto la passione e l’amore per quel mondo anche una volta cresciuti, ma quando la minaccia si concretizzò corremmo in fretta ai ripari.
 
I miei genitori non amavano né odiavano i babbani, come molti maghi purosangue li ritenevano strambi e li ignoravano, ma non erano d’accordo con i metodi dei mangiamorte; li temevano, ma non volevano schierarsi apertamente contro di loro e non sapevano quanto ancora la supposta purezza del loro sangue li avrebbe protetti.
Emigrarono in Giappone: ufficialmente per andare a trovare alcuni parenti, ufficiosamente se la diedero a gambe, per non essere usati come ostaggi, o peggio, quando le simpatie della famiglia sarebbero state chiare a tutti.
                                  
Noi i miei fratelli ed io, decidemmo di non seguirli: avevamo tutti un lavoro e non volevamo lasciare il nostro paese per via di un folle, confidavamo nel ministero e nella fortuna e così restammo a Londra.
 
Mio fratello Sai, un indicibile, trasfigurò, con suo immenso dispiacere la sua considerevole raccolta di libri della letteratura babbana in libri di cucina giapponese. Mise in giro la voce che un nostro lontano cugino li aveva spediti a lui nella speranza che potesse diffondere la nostra cultura agli inglesi. Al Ministero risero per una settimana: malgrado il nome non c’è nessuno di più inglese di mio fratello e la sua incapacità con filtri e pozioni e cucina in genere era leggendaria.
Per intenderci ha fatto esplodere un calderone provando a fare i Muffin alla maniera babbana la vigilia di Natale dei miei tredici anni: l’intera famiglia Tokai ha passato il Natale al S.Mungo con delle protuberanze viola e fastidiose su tutto il corpo.
Regalò quei libri alla biblioteca del ministero e, nel giro di un mese, anche i pochi che lo sapevano, avevano dimenticato che amava Shakespeare, anzi, sparse la voce con tanta cura, che ancora oggi al ministero è conosciuto da tutti come Mister Sushi.
 
A mia sorella non andò così bene: per lei vennero i Mangiamorte.
Non era mai stata una donna discreta e da alcuni anni decretava che l’integrazione tra medicina babbana e magica era l’unica scelta possibile e la più auspicabile. Non faceva mistero di seguire corsi all’università babbana e affermava con forza l’efficacia dei loro rimedi.
La aspettarono un giorno a casa sua: non credo di dover dire che cosa le fecero, queste cose sono tristemente note all’intera comunità magica.
Si salvò solo perché ebbe l’ardire di contraddirli e trovò persone abbastanza intelligenti da stare ad ascoltarla.
Decretò che la sua ricerca era strutturata per salvare i maghi: Quante malattie, quante maledizioni restavano incurabili anche usando la magia? Quanti maghi morivano ogni anno? Quanti ne sarebbero morti? La medicina babbana era per la gran parte dei casi arretrata, ma in mezzo a tutto quel letamaio poteva sicuramente esserci qualcosa di utile, anche solo la capacità di pensare in modo differente. I babbani sono stupidi, ma se grazie a loro si riesce a salvare la vita di un mago, perché non sfruttare la loro ingombrante presenza? Aggiunse che se l’avessero lasciata studiare avrebbe potuto trovare le prove dell’inferiorità dei babbani, avrebbe potuto evitare che nascessero maghi tra loro e maghinò tra noi.
La umiliarono senza pietà, ma la lasciarono in vita.
Non andò all’ospedale e si guarì da sola: per tutta la guerra si premurò di scrivere i suoi articoli scientifici sottolineando la superiorità magica sui babbani. Visse quel periodo in bilico tra il ricatto e l’approvazione, tra il diventare una mangiamorte e l’essere uccisa. Sopravvisse solo perché era una donna determinata e testarda, e il miglior medico mai vissuto in questo secolo. E grazie a queste qualità si salvò anche dai processi, alla fine della guerra.
I suoi aguzzini la obbligarono più volte a guarire qualcuno di loro e mia sorella non si tirò mai indietro: era un medico, diceva, il suo primo dovere era quello di guarire i malati.
Chiunque essi fossero.
 
Quanto a me… Io ero quello nella situazione peggiore.
Lavoravo alle relazioni babbane e la mia adorazione per i loro usi e costumi era nota in tutto il mondo magico e non intendevo nasconderla. Inoltre ero stato l’unico Serpeverde ad aver frequentato Babbanologia: già solo questo poteva essere considerato un affronto sufficiente.
Decisi di sparire quando fui aggredito da tre tipacci sulla via di casa.
Quando arrivò Malocchio mi disse che era strano che un idiota come me non fosse stato aggredito prima, e che, ora, mi rimanevano solo due scelte: o sparire o entrare negli Auror. Personalmente, mi disse, a lui avrebbe fatto più piacere la seconda ipotesi: un tizio con le mie convinzioni, che sembravano genuine, e le mie abilità gli sarebbe sicuramente stato utile.
Insomma ero sopravvissuto ad un agguato neutralizzando due aggressori su tre –“e ringrazia che sono arrivato io se no ti giocavi le chiappe ragazzo. Ora alzati in piedi che stai bene”-  senza riportare lesioni significative.
Si vedeva che avevo talento, ero sprecato alle relazioni babbane, soprattutto in un momento come quello. Anche se come furbizia lasciavo molto a desiderare - mi rendevo conto o no che Tu Sai Chi non scherzava su certi argomenti o ero del tutto idiota?-ma su quello ci si poteva lavorare.
Guardai Mody, le sue cicatrici, i suoi occhi cupi, considerai la sua paranoia e decisi di sparire.
Mi rifugiai, così nell’unico posto in cui potevo essere al sicuro: il mondo babbano.
Conoscevo quel mondo molto meglio di qualsiasi Mangiamorte e sapevo come non farmi notare e questo mi dava un indubitabile vantaggio.
Cambiai città, cambiai nome e mi risolsi a vivere come un babbano.
 
Speravo con tutto il cuore che i Mangiamorte mi considerassero solo un eccentrico e non un aperto oppositore, solo incredibilmente fortunato anziché temibile, se così non fosse stato, avrei avuto ancora meno possibilità di sfuggire alla loro vendetta e a quella del loro oscuro signore. Pregavo che il ministero considerasse la mia sparizione come una delle tante che avvenivano in quel periodo e non pensasse che mi fossi unito alle schiere dei Mangiamorte, Mody in questo avrebbe potuto essere d’aiuto, se avesse voluto.
Non avvertii nessuno della mia famiglia.
Avevo paura.
Per loro e per me.
 
Ebbi fortuna.
Non ho mai saputo se mi abbiano mai cercato o non siano mai riusciti ad intuire il mio nascondiglio, se avessero pensato che avessi raggiunto i miei genitori in Giappone o più semplicemente mi avessero dato per morto, fatto sta che nessuno mi trovò mai. 
  
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