Annotazioni: la storia è ambientata in un futuro prossimo (possibilmente un futuro in cui sono io a far nascere la bambina), le protagoniste sono sposate e una di loro è rimasta incinta tramite fecondazione eterologa. Oh yes, tutto legale.
ANTIGENE
Questa
storia è cominciata due mesi fa, diciamo. Posso indicare con
molta lucidità
anche il momento preciso: una sera in cui avevamo ospiti e non vedevamo
l’ora
che se ne andassero.
Abbiamo
aspettato che i nostri amici oltrepassassero la porta di casa, poi ci
siamo
guardate negli occhi come a dire “lo facciamo?”,
per darci coraggio. Marta si
vergognava, così come si vergognava da morire quella volta
che in un negozio di
abbigliamento 0-12 anni ha dovuto chiedere alla commessa:
«Vorremmo una tutina,
per favore.»
Ha
dei problemi con i vezzeggiativi e in generale con le parole un
po’ sdolcinate,
te ne accorgerai. Per lo meno, all’epoca ne aveva.
Abbiamo
acceso il computer, aperto un foglio di testo e dibattuto per un
po’ circa il
titolo del documento, poi abbiamo iniziato a scrivere tutto quello che
ci
passava per la testa. Giorno uno, ovocita e spermatozoo. Io ho detto
che era
tristissimo, sembrava una cartella clinica o l’incipit di un
racconto di
fantascienza, così, per provocarla. Marta è stata
inflessibile. Non era sicura
di sapere come fare, ma era sicura di volerlo fare, quasi fosse un
dovere nei
tuoi confronti. Sentiva il bisogno di spiegarti, voleva che sapessi
tutto,
proprio tutto; poche volte mi è capitato di vedere la tua
mamma così presa da
qualcosa, così determinata.
Abbiamo
avuto quest’idea di scrivere una sorta di diario e di fartelo
leggere quando
saresti stata abbastanza grande, quando ci avresti fatto delle domande.
In
questo modo, pensavamo, le nostre risposte non sarebbero sembrate passi
di
educazione alla sessualità, frasi prese da opuscoli
informativi, discorsi
pronunciati e riportati dai giornali; volevamo spiegarti tutto, ma a
modo
nostro.
All’inizio
la tua mamma si vergognava: una cosa così intima,
così privata – e difatti le
prime pagine sono mie. Lo capisci dal fatto che apro parentesi a destra
e
sinistra e prendo l’argomento alla larghissima; volevo
parlarti un po’ di me,
darti delle istruzioni. Anche io ti ho desiderata tanto, bambina mia.
Marta
ha letto le mie parole e dapprima ha proposto qualche aggiunta
personale,
qualche pensiero; poi qualche frase, sempre più lunga. Alla
fine ha accettato
il mio invito a proseguire per un po’ sulle sue gambe. Ero
così contenta!
Avresti
letto le nostre parole proprio come noi le avevamo scritte di nascosto
da
tutti, quella sera. Le nostre parole… Marta a un certo punto
si è fatta seria,
ha cominciato ad usarne alcune che non conoscevo. Continuava a scrivere
e
scrivere e non capivo più se a muoverla fosse
l’urgenza di spiegarti ogni minima
cosa o se non fosse piuttosto il tentativo di spiegare tutto quanto a
se
stessa. È stato il mio turno di vergognarmi.
Ho
smesso di leggere e l’ho rassicurata sul fatto che sarei
andata io a preparare
la cena. C’erano parole che non capivo lì in
mezzo: pancia, termometri, calci,
freddo e caldo.
Ho
sempre saputo che la mia memoria non è stata progettata per
mandare a memoria
numeri e misure: sono un tipo con la testa fra le nuvole, io. Ti
accorgerai
anche di questo e prego che non sia per qualche dimenticanza. Impara in
fretta
a piangere forte se ti senti sola, bambina mia.
I
primi numeri che ho memorizzato dopo le tabelline: 3280 grammi e 52
centimetri.
Ascendente Scorpione, dice una nostra amica, ma nessuna di noi sa bene
che cosa
voglia dire. Abbiamo scelto per te un cappellino bianco, in cui la tua
testa
sguazzava, che ti è toccato indossare per i tuoi primi
giorni di vita. Ci siamo
fatte prendere un po’ la mano tra video e fotografie, abbiamo
costruito un
patrimonio di documenti sufficiente ad esaurire la memoria della
macchina
fotografica, ed eravamo soltanto alla prima settimana.
La
tua mamma, mia moglie, è una persona politicamente corretta,
molto diplomatica
insomma. Mi chiede di avvicinarmi mentre ti allatta, di guardare. Mi
vergogno
di nuovo, ma lei insiste. Insiste perché ti prenda in
braccio, insiste perché
lo faccia almeno un tot di volte al giorno per x minuti. Sono la tua
mamma-a-tempo, bambina mia.
Somigli
a lei, ovvio che somigli a lei. Non hai niente di me. Posso insegnarti
i miei
modi di dire, posso insegnarti il mio dialetto, posso educarti ai miei
gusti
culinari, alle mie letture… ma sono tutte cose astratte,
capisci? Sono cose che
stanno fuori.
Lei
non ha bisogno d’insegnarti nulla: lei è
già dentro di te e tu sei stata dentro
di lei; e io ero fuori allora e sono fuori anche adesso.
Marta
ti sta educando al contatto fisico con me, ha preso questa cosa molto
sul
serio. Molto nobile da parte sua, anche se col passare delle settimane
la tua
mamma-a-tempo ormai viene usata principalmente per riempire i buchi in
cui lei
è al lavoro, a fare compere, a fare qualsiasi cosa che non
sia stare appresso a
te – o a me, se è per questo.
Mi
inquieta un po’ il sistema della ricetrasmittente nella culla
cui infine si è
piegata la tua mamma: nonostante questo faccia a pugni con la mia
indole poco
pratica, quando Marta esce di casa la spengo sempre. Un modo un
po’ rischioso
di tenere in allenamento il mio cervello, di non far abbassare la
soglia
d’attenzione.
Adesso
stai piangendo, bambina mia, vengo a prenderti in braccio. Stai
diventando più
pesante, la dottoressa dice che è una cosa buona. Questa
dottoressa è molto
paziente con noi (con me poi, non ne parliamo), dovremmo dedicarle
almeno una
pagina del nostro diario. Probabilmente mi odia perché le
faccio sempre un
sacco di domande, a volte anche stupide: è come se avessi
paura di perdermi dei
pezzi, di restare indietro. Quando mi ha spiegato che per i primi due
tre
giorni non avresti visto un accidente – e vorrei ben vedere,
con tutte le foto
che ti abbiamo fatto – sono rimasta piuttosto affascinata,
pensavo di fare una
qualche battuta sull’ereditarietà della miopia e
sull’allievo che supera il
maestro. Come tutti sanno, sono quella con le lenti più
spesse nel raggio di
almeno cinque chilometri.
Ah,
la memoria fa brutti scherzi! Per il bene della decenza pubblica e
soprattutto
della mia dignità personale ho tenuto chiusa la bocca.
Ed
eccomi qua, a gambe incrociate sul divano, che ti metto alla prova. So
che
davanti a Marta non posso farlo, pena una velata critica che cerca solo
una
scusa per potersi trasformare in una scenata da genitrice gelosa;
né tu né io
necessitiamo di questi siparietti, dunque applicheremo la saggezza
popolare,
occhio non vede e cuore non duole. Sei più pesante,
è vero, ma sei diventata
anche più forte. L’impresa titanica che stiamo
affrontando è cercare di farti
tener dritta la testa con le tue forze, con i tuoi muscoli, con tutta
la
volontà che puoi dimostrare, forte delle tue tre settimane
di vita.
Forse
sei stanca, bambina mia. Sì, devi essere stanca.
Facciamo
un altro gioco, facciamo il gioco del guarda-il-mio-dito. Hanno detto
che è
importante verificare che tu stia attenta, che riconosca quello che ti
sta
attorno, ma potrebbero anche mettersi l’anima in pace, tanto
da me non hai
preso nulla. Quando c’è Marta mi sento un
po’ stupida a fare queste cose, lei
invece da vergognosa è diventata una fiera sostenitrice del
“diciamole
qualcosa, non importa che cosa sia”. Che mi venga un colpo se
le filastrocche
che si inventa e ti recita non sono la cosa più stupida che
abbia mai sentito.
Ma a lei non importa, è tutta tronfia, tutta fiera del suo
diritto di cantarti
filastrocche – se a recitarle sono io, magicamente diventano
stupidaggini. No,
aspetta, non pensare alla tua mamma come una
mamma-faccio-tutto-io-non-ti-avvicinare,
è a me che paiono stupidaggini: le mie parole, pur se
uguali, hanno un suono
diverso.
Piangi
bambina mia, hai fame, lo so. Non posso farci nulla. È
inutile che cerchi, che
ti aggrappi; inutile che ti volti in cerca di una sporgenza, non vedi
che i
miei capezzoli hanno una forma diversa, un altro odore? Non ho latte.
Arriva
Marta e fa subito storie per la ricetrasmittente. Ho perso il conto
delle volte
che abbiamo fatto questo botta e risposta:
«Se
tu la spegni io poi non mi ricordo di riaccenderla!»
«Senti,
è una cosa inquietante, ma dobbiamo farla per
forza?»
«Certo
che dobbiamo farla per forza! Pensa se succede qualcosa!»
Insieme
a tutti gli ormoni deve esserle giunta una overdose di ipocondria. Hai
smesso
di piangere, forse hai riconosciuto la voce della tua mamma.
«Stavo
pensando una cosa» comincio.
«Cosa?»
«Non
dovremmo metterle i cerotti alle orecchie?»
«Perché,
ti sembra che siano piegate?»
Sul
“perché” la voce di Marta ha subito
un’impennata clamorosa, come una macchina
che fa inversione ad U; si precipita accanto a me. Ecco, ora stiamo
tenendo un
dibattito sull’angolo che formano le tue orecchie con la
testa; forse puoi
accorgertene da sola, ma Marta è quella a cui fra poco
schizzeranno gli occhi
fuori dalle orbite. Io sono quella a cui fra qualche mese cercherai di
tirare i
capelli. Decidiamo per il sì.
«Posso
farlo io, tu vai a cambiarti.»
Questi
cerotti sono così piccoli, le tue orecchie sono
così piccole. Fatto. Stai certa
che mi ringrazierai. Un’altra serata ordinaria: tu bevi,
Marta si stravacca sul
divano, io preparo la cena; questa volta voglio essere io a farti
addormentare,
insisto – non è che ci voglia granché,
a dirla tutta, così accumulo punti da
mamma-a-tempo. Solita posizione: braccio sinistro sui sessanta gradi,
testa sul
braccio o sul seno. Anche questo fa parte dell’educazione al
contatto fisico.
Siamo in terapia di coppia, bambina mia. Mi tocca aspettare fino ai
dodici mesi,
quando potrò giocarmela sulla prima parola.