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Autore: Pichichi    29/03/2014    0 recensioni
Due mamme, una bambina, la ricetrasmittente rigorosamente spenta.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Annotazioni:  la storia è ambientata in un futuro prossimo (possibilmente un futuro in cui sono io a far nascere la bambina), le protagoniste sono sposate e una di loro è rimasta incinta tramite fecondazione eterologa. Oh yes, tutto legale.



ANTIGENE

 

Questa storia è cominciata due mesi fa, diciamo. Posso indicare con molta lucidità anche il momento preciso: una sera in cui avevamo ospiti e non vedevamo l’ora che se ne andassero.

Abbiamo aspettato che i nostri amici oltrepassassero la porta di casa, poi ci siamo guardate negli occhi come a dire “lo facciamo?”, per darci coraggio. Marta si vergognava, così come si vergognava da morire quella volta che in un negozio di abbigliamento 0-12 anni ha dovuto chiedere alla commessa: «Vorremmo una tutina, per favore.»

Ha dei problemi con i vezzeggiativi e in generale con le parole un po’ sdolcinate, te ne accorgerai. Per lo meno, all’epoca ne aveva.

Abbiamo acceso il computer, aperto un foglio di testo e dibattuto per un po’ circa il titolo del documento, poi abbiamo iniziato a scrivere tutto quello che ci passava per la testa. Giorno uno, ovocita e spermatozoo. Io ho detto che era tristissimo, sembrava una cartella clinica o l’incipit di un racconto di fantascienza, così, per provocarla. Marta è stata inflessibile. Non era sicura di sapere come fare, ma era sicura di volerlo fare, quasi fosse un dovere nei tuoi confronti. Sentiva il bisogno di spiegarti, voleva che sapessi tutto, proprio tutto; poche volte mi è capitato di vedere la tua mamma così presa da qualcosa, così determinata.

Abbiamo avuto quest’idea di scrivere una sorta di diario e di fartelo leggere quando saresti stata abbastanza grande, quando ci avresti fatto delle domande. In questo modo, pensavamo, le nostre risposte non sarebbero sembrate passi di educazione alla sessualità, frasi prese da opuscoli informativi, discorsi pronunciati e riportati dai giornali; volevamo spiegarti tutto, ma a modo nostro.

All’inizio la tua mamma si vergognava: una cosa così intima, così privata – e difatti le prime pagine sono mie. Lo capisci dal fatto che apro parentesi a destra e sinistra e prendo l’argomento alla larghissima; volevo parlarti un po’ di me, darti delle istruzioni. Anche io ti ho desiderata tanto, bambina mia.

Marta ha letto le mie parole e dapprima ha proposto qualche aggiunta personale, qualche pensiero; poi qualche frase, sempre più lunga. Alla fine ha accettato il mio invito a proseguire per un po’ sulle sue gambe. Ero così contenta!

Avresti letto le nostre parole proprio come noi le avevamo scritte di nascosto da tutti, quella sera. Le nostre parole… Marta a un certo punto si è fatta seria, ha cominciato ad usarne alcune che non conoscevo. Continuava a scrivere e scrivere e non capivo più se a muoverla fosse l’urgenza di spiegarti ogni minima cosa o se non fosse piuttosto il tentativo di spiegare tutto quanto a se stessa. È stato il mio turno di vergognarmi.

Ho smesso di leggere e l’ho rassicurata sul fatto che sarei andata io a preparare la cena. C’erano parole che non capivo lì in mezzo: pancia, termometri, calci, freddo e caldo.

Ho sempre saputo che la mia memoria non è stata progettata per mandare a memoria numeri e misure: sono un tipo con la testa fra le nuvole, io. Ti accorgerai anche di questo e prego che non sia per qualche dimenticanza. Impara in fretta a piangere forte se ti senti sola, bambina mia.

I primi numeri che ho memorizzato dopo le tabelline: 3280 grammi e 52 centimetri. Ascendente Scorpione, dice una nostra amica, ma nessuna di noi sa bene che cosa voglia dire. Abbiamo scelto per te un cappellino bianco, in cui la tua testa sguazzava, che ti è toccato indossare per i tuoi primi giorni di vita. Ci siamo fatte prendere un po’ la mano tra video e fotografie, abbiamo costruito un patrimonio di documenti sufficiente ad esaurire la memoria della macchina fotografica, ed eravamo soltanto alla prima settimana.

La tua mamma, mia moglie, è una persona politicamente corretta, molto diplomatica insomma. Mi chiede di avvicinarmi mentre ti allatta, di guardare. Mi vergogno di nuovo, ma lei insiste. Insiste perché ti prenda in braccio, insiste perché lo faccia almeno un tot di volte al giorno per x minuti. Sono la tua mamma-a-tempo, bambina mia.

Somigli a lei, ovvio che somigli a lei. Non hai niente di me. Posso insegnarti i miei modi di dire, posso insegnarti il mio dialetto, posso educarti ai miei gusti culinari, alle mie letture… ma sono tutte cose astratte, capisci? Sono cose che stanno fuori.

Lei non ha bisogno d’insegnarti nulla: lei è già dentro di te e tu sei stata dentro di lei; e io ero fuori allora e sono fuori anche adesso.

Marta ti sta educando al contatto fisico con me, ha preso questa cosa molto sul serio. Molto nobile da parte sua, anche se col passare delle settimane la tua mamma-a-tempo ormai viene usata principalmente per riempire i buchi in cui lei è al lavoro, a fare compere, a fare qualsiasi cosa che non sia stare appresso a te – o a me, se è per questo.

Mi inquieta un po’ il sistema della ricetrasmittente nella culla cui infine si è piegata la tua mamma: nonostante questo faccia a pugni con la mia indole poco pratica, quando Marta esce di casa la spengo sempre. Un modo un po’ rischioso di tenere in allenamento il mio cervello, di non far abbassare la soglia d’attenzione.

Adesso stai piangendo, bambina mia, vengo a prenderti in braccio. Stai diventando più pesante, la dottoressa dice che è una cosa buona. Questa dottoressa è molto paziente con noi (con me poi, non ne parliamo), dovremmo dedicarle almeno una pagina del nostro diario. Probabilmente mi odia perché le faccio sempre un sacco di domande, a volte anche stupide: è come se avessi paura di perdermi dei pezzi, di restare indietro. Quando mi ha spiegato che per i primi due tre giorni non avresti visto un accidente – e vorrei ben vedere, con tutte le foto che ti abbiamo fatto – sono rimasta piuttosto affascinata, pensavo di fare una qualche battuta sull’ereditarietà della miopia e sull’allievo che supera il maestro. Come tutti sanno, sono quella con le lenti più spesse nel raggio di almeno cinque chilometri.

Ah, la memoria fa brutti scherzi! Per il bene della decenza pubblica e soprattutto della mia dignità personale ho tenuto chiusa la bocca.

Ed eccomi qua, a gambe incrociate sul divano, che ti metto alla prova. So che davanti a Marta non posso farlo, pena una velata critica che cerca solo una scusa per potersi trasformare in una scenata da genitrice gelosa; né tu né io necessitiamo di questi siparietti, dunque applicheremo la saggezza popolare, occhio non vede e cuore non duole. Sei più pesante, è vero, ma sei diventata anche più forte. L’impresa titanica che stiamo affrontando è cercare di farti tener dritta la testa con le tue forze, con i tuoi muscoli, con tutta la volontà che puoi dimostrare, forte delle tue tre settimane di vita.

Forse sei stanca, bambina mia. Sì, devi essere stanca.

Facciamo un altro gioco, facciamo il gioco del guarda-il-mio-dito. Hanno detto che è importante verificare che tu stia attenta, che riconosca quello che ti sta attorno, ma potrebbero anche mettersi l’anima in pace, tanto da me non hai preso nulla. Quando c’è Marta mi sento un po’ stupida a fare queste cose, lei invece da vergognosa è diventata una fiera sostenitrice del “diciamole qualcosa, non importa che cosa sia”. Che mi venga un colpo se le filastrocche che si inventa e ti recita non sono la cosa più stupida che abbia mai sentito. Ma a lei non importa, è tutta tronfia, tutta fiera del suo diritto di cantarti filastrocche – se a recitarle sono io, magicamente diventano stupidaggini. No, aspetta, non pensare alla tua mamma come una mamma-faccio-tutto-io-non-ti-avvicinare, è a me che paiono stupidaggini: le mie parole, pur se uguali, hanno un suono diverso.

Piangi bambina mia, hai fame, lo so. Non posso farci nulla. È inutile che cerchi, che ti aggrappi; inutile che ti volti in cerca di una sporgenza, non vedi che i miei capezzoli hanno una forma diversa, un altro odore? Non ho latte.

Arriva Marta e fa subito storie per la ricetrasmittente. Ho perso il conto delle volte che abbiamo fatto questo botta e risposta:

«Se tu la spegni io poi non mi ricordo di riaccenderla!»

«Senti, è una cosa inquietante, ma dobbiamo farla per forza?»

«Certo che dobbiamo farla per forza! Pensa se succede qualcosa!»

Insieme a tutti gli ormoni deve esserle giunta una overdose di ipocondria. Hai smesso di piangere, forse hai riconosciuto la voce della tua mamma.

«Stavo pensando una cosa» comincio.

«Cosa?»

«Non dovremmo metterle i cerotti alle orecchie?»

«Perché, ti sembra che siano piegate?»

Sul “perché” la voce di Marta ha subito un’impennata clamorosa, come una macchina che fa inversione ad U; si precipita accanto a me. Ecco, ora stiamo tenendo un dibattito sull’angolo che formano le tue orecchie con la testa; forse puoi accorgertene da sola, ma Marta è quella a cui fra poco schizzeranno gli occhi fuori dalle orbite. Io sono quella a cui fra qualche mese cercherai di tirare i capelli. Decidiamo per il sì.

«Posso farlo io, tu vai a cambiarti.»

Questi cerotti sono così piccoli, le tue orecchie sono così piccole. Fatto. Stai certa che mi ringrazierai. Un’altra serata ordinaria: tu bevi, Marta si stravacca sul divano, io preparo la cena; questa volta voglio essere io a farti addormentare, insisto – non è che ci voglia granché, a dirla tutta, così accumulo punti da mamma-a-tempo. Solita posizione: braccio sinistro sui sessanta gradi, testa sul braccio o sul seno. Anche questo fa parte dell’educazione al contatto fisico. Siamo in terapia di coppia, bambina mia. Mi tocca aspettare fino ai dodici mesi, quando potrò giocarmela sulla prima parola.

 

 

   
 
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