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Autore: Nidham    31/03/2014    0 recensioni
Cosa succede quando perdi te stesso e ritrovarti significa affacciarsi su di un mondo che non avresti mai voluto conoscere? In una Parigi a metà tra il reale e il fantastico, Alexandra si farà strada verso verità impensate, attraverso incontri affascinanti e terribili, nemici pericolosi e amici impareggiabili, fino a decidere se varcare l'ultimo cancello e accettare un destino da cui sembra non esserci scampo.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cerco di ricordare dove abbia fatto volare il cordless ieri sera, ma, avendo Gabriel come ospite, non dovrei stupirmi di trovarlo ben in mostra sulla sua base. Sono più che certa di non averlo sistemato io, lì; quel ragazzo è un vero maniaco dell'ordine.

Allungo la mano, ma il pensiero dello shock subito l'ultima volta mi rende restia a compiere un gesto tanto banale: non ho voglia di trovarmi il timpano perforato da un altro disturbo elettrico. Passi aver perso la memoria, ma ritrovarmi mezza sorda a nemmeno trentanni è inammissibile, soprattutto perché ci vuole orecchio fine per captare informazioni sugli scapoli d'oro.

Ad ogni modo, non potrò passare la vita a controllare la segreteria, quindi tanto vale prendere il toro per le corna.

“Pronto” sono un po' troppo aggressiva, quindi ripeto, con voce più dolce. “Pronto?”

“Alexandra?”

Di certo non è Jasmine, ma per fortuna non sembra neppure un maniaco. Credo di aver già sentito questa voce, leggermente accentata, austera e poco simpatica, e temo anche di sapere a chi appartenga, ma preferisco non dare suggerimenti a eventuali impostori.

“Chi parla?” assomiglio molto a una segretaria di dentista, rispettabile professione che avrei dovuto prendere in considerazione, visto che i dentisti sono tutti benestanti e i migliori incontri si fanno sul luogo di lavoro. Mi chiedo cosa avessi in mente quando ho scelto la carriera di insegnante elementare.

“Alexandra” ripete, questa volta senza toni interrogativi, ma con una certa aria scocciata che già mi irrita.

“Smettila di ripetere il mio nome. Io so chi sono” poi, per estrema onestà, borbotto un poco consono. “Più o meno.”

“Che significa più o meno? Ti sei drogata?”

Mio nonno, se ho riconosciuto la voce e se è stato davvero lui a lasciare il messaggio in segreteria, è un rompiballe sputasentenze.

“Lo sapevo che lì, a Montmartre, c'è sempre un nugolo di drogati che si spacciano per artisti e che non è un luogo adatto a una giovane fanciulla sola.”

Giovane fanciulla? Che razza di definizione arcaica; la potrei appuntare nel mio quaderno di frasi anacronistiche, insieme a quella usata dall'ispettore per definire Emile. Ad ogni modo non mi piace che si prenda tante libertà nel giudicare me o il mio stile di vita, che pure, per il poco che mi hanno raccontato e che ho avuto modo di constatare, non posso io stessa definire troppo giudizioso o raccomandabile.

“Ho saputo di averti inviato qualcosa” andiamo subito al dunque e evitiamo gli inutili, quanto inesistenti,convenevoli.

“Come sarebbe a dire? Non lo ricordi?”

Potrei rispondere con qualche commento sagace che già mi punge la lingua, ma ho premura di concludere questa sgradita conversazione quindi non mi dilungherò in facezie.

“No, ho avuto un incidente e, al momento, ho qualche difficoltà nel ricordare alcuni avvenimenti.”

Gabriel alza un sopracciglio e io gli alzo il dito medio, per buona risposta.

“Un incidente?” anche questo tipo è buono solo a formulare domande. Sono proprio fortunata. “Con quel drogato del tuo amico?”

Non posso dargli torto, ma posso riattaccargli il telefono in faccia.

Squilla di nuovo dopo nemmeno trenta secondi.

“Pronto.”

“Alexandra, non osare più fare una cosa del genere a tuo nonno!” sta gridando e me lo immagino stringere la cornetta con tanta forza da farsi sbiancare le nocche, ma non mi interessa la sua indignazione e non ho intenzione di tollerare che si rivolga a me come fossi una bambina, così faccio una cosa veramente infantile e chiudo di nuovo la comunicazione.

Il volto di Gabriel rimane impassibile, ma i suoi occhi sono tutt'altro che capaci di nascondere le emozioni, così, pur senza emettere un fiato, so benissimo cosa sta pensando: non comportarti da sciocca e scopri qualcosa, una dannata volta. Potrebbe aver ragione, ma non sono dell'umore per ammetterlo. D'altra parte il poveretto potrebbe anche solo star ignorando me e tutta la vicenda, perché pare davvero stupito allo sguardo di rimprovero che gli rifilo.

Il trillo del telefono un po' mi meraviglia: qualora fossi stata al suo posto, non avrei richiamato neanche sotto tortura, dopo un simile comportamento.

“Mi farai venire un infarto” questa volta non urla, ma credo sia solo perché non ne ha più la forza, non per più miti intenzioni; infatti il suo tono non si è addolcito di una virgola. “Quale incidente?”

“Qual è il tuo nome?”

“Leonardo Valeri” lo pronuncia con incomprensibile orgoglio, ma anche con una nota di sdegno che sembra ancor più fuori luogo. “Sono il padre di tuo padre.”

Ignoro la sua curiosità e continuo a bersagliarlo di domande. La miglior difesa è pur sempre l'attacco.

“Posso sapere perché, dopo anni di indifferenza reciproca, avessimo intavolato questo repentino riavvicinamento?”

“Non ero stato io a volerti star lontano, Alexandra.”

Il mio nome suona strano sulle sue labbra, quasi inquietante, ma credo dipenda unicamente dall'accento con cui lo pronuncia.

“E chi, allora?”

“Dopo la morte dei tuoi genitori sei stata tu, rifiutando il mio invito a venire ad abitare in Italia e preferendo rimanere da sola in quella casupola che ti ha lasciato tua madre, a vivere non si sa come.”

“La casa non apparteneva a entrambi i miei genitori?” è una curiosità sciocca, ma la domanda mi esce prima di aver riflettuto.

“No, i tuoi avevano una casa più grande dove stare. Quello era l'appartamento di tua madre prima di sposarsi con mio figlio.”

Non ci vuole un genio per intuire che i rapporti tra suocero e nuora non dovessero essere idilliaci; probabilmente la rottura è derivata da un motivo molto più banale di quanto sospettassi.

“D'accordo, d'accordo, recriminazioni a parte, cosa ti ho mandato?”

“Non ricordi neanche questo? Quell'incidente deve essere stato più grave di quanto tu voglia confessare. Ti avevo detto di stare alla larga dalle faccende di Morel!”

Ok, una cosa è pensare di aver avuto uno inspiegabile attacco di nostalgia per la famiglia scomparsa, un'altra è aver raccontato la misteriosa faccenda di Emile e della sua ossessione a un parente quasi sconosciuto. Parente che, tra l'altro, pare sapesse qualcosa sulla pericolosità della situazione in cui mi stavo infilando, pur abitando in un altro stato e non conoscendo direttamente né il mio amico, né il suo stato di follia.

“Questo incidente è un segno” continua a blaterale.

“No, questo incidente è stato un'esplosione.”

“Tua madre e tuo padre sono morti perché hanno sempre ignorato gli avvertimenti.”

“Nonno, ti rendi conto che questa conversazione sta diventando ridicola, vero? Non capisco di cosa tu stia parlando.”

“Sto parlando della tua testardaggine e della tua incapacità di accettare qualsiasi consiglio, a meno che non rientri nel tuo ordine di idee.”

Lancio uno sguardo a Gabriel, che però ha l'accortezza di non sghignazzare.

“Di sicuro sai come renderti simpatico, ma ancora non mi hai detto cosa ti avrei inviato.”

“Un DVD.”

“E?”

“E basta. Non so che cosa contenga, mi avevi detto di non guardarlo e io non l'ho fatto, a differenza di te, che sei andata a casa di Morel anche se te lo avevo proibito.”

Mi sorge il dubbio di esserci andata a posta.

“Dicevi che il tuo amico aveva la chiave e quindi non commettevate effrazioni.”

Immediatamente ripenso alla vecchia chiave rugginosa che mi aveva incuriosito, frugando tra i miei effetti personali, in ospedale. Potrebbe essere quella di cui sta parlando il nonno e questo potrebbe essere davvero un segno: devo andare a vedere cosa ci sia in quella villa, con o senza accompagnatori.

“Ti avevo spiegato che la violazione di domicilio sarebbe stato l'ultimo dei vostri problemi. E, come vedi, avevo ragione.”

“Guarda che l'incidente non è avvenuto a villa Morel.”

“Non c'entra niente Alexandra. Stai facendo gli stessi errori di tua madre. Io ho provato a metterti in guardia, ma sembra che tu sia decisa a seguire il suo destino.”

“Non credo al destino e puoi star sicuro che non ho intenzione di morire, almeno a breve termine.”

“Però ficchi il naso in faccende che potranno portarti solo a quel risultato.”

“Cazzo, nonno” non riesco a trattenermi. “Morel è morto e ora è morto anche Emile, chi o che cosa dovrebbe farmi temere per la mia vita?”

“Il tuo amico è morto? Meglio. Era già corrotto.”

“Corrotto da cosa?”

“Alexandra, tua madre credeva in cose verso le quali mi sembra tu sia incredula ed è meglio che la situazione rimanga così. Ad ogni modo sta lontana da villa Morel. Io sarò da te dopodomani.”

La sua ultima affermazione mi sconvolge a tal punto che dimentico le mie proteste sulle sue precedenti farneticazioni.

“Cosa?” ho un'aria davvero sciocca, mentre sgrano gli occhi come un luccio fuori dall'acqua. “Perché? Puoi rimandarmi il DVD per posta, non c'è premura.”

“No, non sarebbe prudente.”

“Sempre più dell'incontrarci, te lo assicuro.”

“Alexandra, tu sei l'ultima parente che mi rimanga e mi preoccupo per te.”

Alla fin fine era quello che avevo desiderato, giusto? Una famiglia pronta a prendersi cura di me. E' proprio vero il detto “attento a ciò che chiedi”, ora mi ritrovo con un nonno invadente e bisbetico che vuole venire a controllare la mia vita e soffocarmi con noiosi consigli bigotti. Però, magari, anche lui si sente solo, comincia ad avvertire gli acciacchi dell'età e ha paura di morire senza un cane che vada a seppellirlo. Dovrei dargli un'opportunità di riconciliazione, per quanto mi sembri assai poco conciliante. Sono appena stata miracolata e forse un gesto di buona volontà potrà riequilibrare un po' il mio karma negativo, generato in anni e anni di malestri, inoltre il vecchietto snob e collerico è pur sempre mio nonno e anche per me è l'unico parente ancora in vita, non posso semplicemente riattaccargli il telefono in faccia. Non un'altra volta.

“Ok” dico soltanto, per evitare di pentirmene. “Quando arriverai?”

“Adesso controllo i voli, poi ti farò sapere” per essere uno che ha appena ottenuto ciò che voleva, non pare troppo esultante. “Ti richiamerò stasera. Non fare altre sciocchezze.”

A questo punto chiudo davvero la comunicazione, infischiandomene di passare da maleducata, perché se mio nonno ha un briciolo di buon senso, dovrà piuttosto ritenerlo un gesto prudente, teso a evitare un mio repentino cambio d'idea.

All'improvviso mi sento stanca e avrei solo voglia di stendermi di nuovo sotto le coperte, per convincermi che sia tutto un'inquietante e incomprensibile sogno. Ma fuggire non mi porterebbe a niente e voglio approfittare di ogni minuto di questa giornata per districare il casino magistrale in cui mi sono infilata, senza neanche ricordarmi come abbia fatto.

Gabriel sta asciugando le tazze e sembra perso nei suoi pensieri, perché non ha più detto una parola da quando ho interrotto la telefonata. Mio nonno ha fatto discorsi strani quasi quanto i suoi e forse potrebbero andare d'accordo, ma non credo li farò mai incontrare, perché non ho ancora deciso se davvero potrò accettare di aver intorno per molto il mio socio a delinquere e sono certa non sia il caso di presentarlo alla famiglia.

Guardandolo alla luce del sole appare anche più grande e imponente di quanto mi fosse sembrato stanotte: ha spalle enormi, bicipiti scolpiti e mani ampie, ma non tozze o volgari, per quanto sembrino abituate ai lavori manuali; il suo fisico è incredibilmente robusto e non assomiglia affatto ad un materassino da spiaggia gonfiabile, come i classici esaltati che frequentano le palestre. È bello, di quella bellezza prettamente mascolina che non ha niente di gentile o dolce, ma è generata solo dalla perfetta armonia di linee forti e decise, quasi dissonanti nella loro perfezione. Per mia sfortuna, non ha neppure qualche porro o cicatrice a deturpargli il volto, che è degno del suo corpo, altrettanto fiero e deciso, affascinante anche dopo una notte insonne a bivaccare su un pianerottolo umido e freddo, mentre il mio, pur avendo beneficiato di qualche ora di riposo, sono certa sia pallido e tirato proprio come me lo sento.

Certo, a tutto questo ben di Dio si potrebbe anche resistere. Il guaio è che al di là del rude fascino da boscaiolo texano, oltre la facciata di stoico e cupo coraggio che si ostina a sbandierare come un'armatura a piastre fatta di adamantio, Gabriel lascia intuire anche un animo tormentato, sensibile, bisognoso di rassicurazione, insomma il perfetto connubio tra forza e fragilità capace di mandare in estasi ogni ragazza.

Mi attrae, inutile negarlo; come è inutile negare la totale inutilità di questo interesse. Ognuno ha i suoi principi e io intendo rimanere fedele ai miei. Lo odio.

“Non dovevi disturbarti a rassettare” mantengo un tono neutro, per controllare l'irritazione derivata dall'osservare il suo fondoschiena tornito, sapendo che non c'è nessun portafogli ben fornito a incrementare quella polpa. “L'avrei fatto io più tardi.”

“Più riposi, meglio è. Comunque non è stato un disturbo, tu hai preparato il tè, io ho rigovernato le tazze, mi pare equo” si asciuga le mani sui jeans, voltandosi lentamente verso di me. “Brutte notizie?”

“Non saprei. A quanto sembra avrò ospiti.”

“Sgraditi?”

“Vedremo, mio nonno non sembra un tipo piacevole, ma ha un altro DVD, che dice gli abbia mandato poco prima dell'incidente. Speriamo sia meno rovinato di quello che abbiamo adesso.”

“Credi contengano lo stesso tipo di filmati?”

Mi stringo nelle spalle. Non so più cosa dire, anche se, probabilmente, gli argomenti di conversazione non mancherebbero, qualora mi decidessi a tollerare alcuni tipi di fantasie che, tuttora, non sono propensa ad ascoltare, quindi rimango a fissarlo in silenzio, stupita che questo non generi alcun imbarazzo o tensione, come avviene di solito in certe situazioni.

“E' meglio che vada a lavoro” mormora infine, come se gli dispiacesse doversene andare. “Alex...”

Si interrompe, incespicando su parole che forse non vuole pronunciare.

“Forse non dovresti più immischiarti in questa faccenda” lo guardo impassibile, senza incoraggiarlo su una tale insensata linea di pensiero. “Forse dovresti solo essere felice di essere sopravvissuta e continuare la tua vita, dimenticandoti questa brutta storia.”

“Mi stai suggerendo di non fare come te?”

“Come me? Sì, potrebbe essere un buon consiglio.”

“Tu non sei felice di essere rimasto vivo, mentre i tuoi amici sono morti.”

“E' diverso, io avrei voluto essere con loro per evitare che morissero.”

“Sei molto sicuro dei tuoi mezzi. Magari non avresti potuto fare niente.”

“Non potrò mai saperlo, ormai.”

“Quindi è inutile continui a tormentarti chiedendotelo. Con buone probabilità saresti solo riuscito a morire in compagnia. Come ti saresti potuto accorgere che stava...”

“Per prendere fuoco tutto?” mi interrompe. “Non lo so, avrei potuto sentire un odore, notare qualcosa.”

“Eri più percettivo dei tuoi amici?”
“In realtà no. Diciamo che ero più svelto.”

“Ti stai solo torturando, Gabriel. È inutile, anzi è dannoso. Smettila di sentirti in colpa per queste stronzate e vai a lavorare.”

“Giusto, devo andare a lavoro” è la seconda volta che lo dice, ma ancora non accenna a togliere le tende. “Immagino che tu non abbia più il coltello che ti avevo dato.”

“Guarda tra i coltelli” spero sia uno spelucchino per la frutta e non un vero e proprio pugnale. “Come sai sono un po' distratta, ultimamente.”

Apre il cassetto delle posate più per prendermi in giro che per reale convinzione di trovarci qualcosa, il che mi fa presumere di aver sottovalutato il suo senso dell'umorismo, o forse di averlo sopravvalutato, a seconda dei punti di vista.

“Te ne darò un altro.”

“Non lo voglio. Non vado di certo in giro armata tipo Rambo.”
“Io sì” annuncia candidamente, aprendo una tasca nascosta del giacchetto e porgendomi un coltellaccio nero con la lama di quasi venti centimetri. “Tieni, è anche migliore dell'altro.”

Cerco di non farmi prendere dal panico, mentre fisso quell'aggeggio puntato verso il mio torace. È di sicuro più corto di una spada e non dovrebbe impressionarmi, ma non è un giocattolo sportivo e chi lo impugna non sta andando a caccia e non è un militare in servizio, ma solo un pazzo con un'arma potenzialmente letale.

“Chi diavolo sei?” urlo, ignorando l'idea che i pazzi sia meglio non farli infuriare. “Un terrorista?”

“Cosa?”

“Sei un criminale? Un mafioso?” mi accorgo di essere diventata monotona, ma ogni volta che mi tranquillizzo e penso di non essere pazza a dargli fiducia, se ne esce con qualcosa di sconvolgente. “Sei tu l'assassino?”

“Sì, sono io. Intingevo sempre il coltello nella vernice e poi lo usavo per provocare una scintilla che facesse esplodere tutto” fa dell'ironia, ma continuo a guardarlo storto. “No, dico: mi stai prendendo sul serio?”

Scuoto le spalle, cercando di figuramelo nella veste del killer e, di nuovo, non riuscendoci minimamente, quindi sospiro.

“Tienilo” mi ripete. “E' per autodifesa.”

Allungo la mano, soppesando istintivamente il bilanciamento di quell'aggeggio e meravigliandomi dalla sua precisione. È una buona arma, ma a me sembra più offensiva che difensiva e non sono certa sia legale portarsela in giro.

“Dovrai indossare qualcosa di più ampio del tuo cappottino striminzito.”

“Scusa tanto se non ho studiato il mio guardaroba in modo che potesse nascondere una daga” ribatto offesa, mentre gli strappo di mano il piumino che stava ciancicando, a caccia di inesistenti tasche segrete. “E' maleducato rovistare tra gli abiti di una signora.”

Sono sicura abbia voglia di imprecare, ma dimostra un notevole autocontrollo limitandosi ad un sonoro e sarcastico sbuffo.

“Dovrò darti quello più piccolo allora.”

Da un'altra tasca tira fuori un coltello pieghevole più maneggiabile, ma non meno minaccioso, e me lo mette in mano, riprendendosi la daga. Sembra una bella arma, ma quasi quasi avrei preferito tenere l'altra, ormai; mi faceva sentire più sicura, il che la dice lunga sul mio grado di paranoia.

“Se lo metti in tasca, ricordati di inserire la sicura. È molto sensibile.”

Lo fulmino con lo sguardo, perché non deve trattarmi da idiota o da imbranata, neanche quando potrei davvero esserlo.

“La sicura!” ripete con urgenza, bloccandomi nell'atto di infilare in tasca quel temperino senza ascoltare il suo consiglio. “Dannata testona. Sei brava con la spada, ma questo non ti rende abile o esperta con ogni tipo di lama.”

“Mi conosci quasi quanto mi conosco io, ovvero praticamente per niente. Come puoi fare affermazioni tanto sicure sul mio conto?”

“Forse non potrei dire di conoscerti neanche se ti frequentassi da anni, ma è certo che, almeno per quanto riguarda gli ultimi avvenimenti della tua vita, sia molto più informato io sul tuo conto dei tuoi vecchi amici.”

Dovrò credergli sulla parola, o continuare a crogiolarmi nel dubbio come per tutto il resto.

“E comunque, la notte siamo quasi sempre stati insieme, dopo il nostro incontro.”

Cosa, cosa cosa? Siamo stati insieme ogni notte e me lo dice solo adesso? E senza un minimo di preparazione?

Apro e chiudo la bocca senza emettere suono, con la stessa capacità espressiva di un pesce rimasto fuori dall'acquario. Non posso credere di essere venuta meno ad ogni mio ideale per divertirmi con questo qui, per quanto l'idea mi stia solleticando da quando l'ho spiato attraverso lo spioncino. E poi, se proprio dovessi averlo fatto, mi scoccerebbe dannatamente non riuscire a ricordarlo, perché dovrebbe essere stata un'esperienza notevole.

“Non per quello che pensi” scuote la testa con tale veemenza che mi sento quasi offesa dall'intensità della sua negazione. “Già allora ti credevo in pericolo e volevo proteggerti, anche se, ovviamente, tu questo non lo sapevi e credevi rimanessi al tuo fianco per controllare Emile.”

“Passavo le notti con Emile?”

“Non proprio, ma cercavi di non perderlo di vista e poi avevi molto da fare per finire di organizzare la sua mostra e il tempo che ritagliavi per le nostre indagini si rivelava sempre essere ad orari improbi.”

Sono delusa: non solo non sono stata a letto con lui, il che, vista l'amnesia, non sarebbe una gran perdita, ma pare anche che lui non abbia alcuna intenzione di venire a letto con me in futuro. Non che io volessi farlo, è ovvio. Sarebbe stupido, insensato e controproducente.

“Mi spiace di averti tenuto sveglio” ribatto con ingiustificata acidità. “Vedrò di impiegare meglio le mie prossime serate libere.”

Senza alcuna logica, sorride, forse soddisfatto di avermi fatto irritare.

“Per ora preoccupati solo di tenerti fuori dai guai.”

“Sì, mammina.”

“E non andare a casa di Morel.”

Lo guardo col sopracciglio inarcato.

“Alex, promettimelo.”

Gli dedico il mio miglior sorriso.

“Alex...”
“Farai tardi a lavoro” lo accompagno alla porta. “Cerca di non affaticarti, perché non mi sembri ancora troppo in forma. E non preoccuparti per me. Non farò niente di stupido.”

“Per me o per te?”

“Per entrambi, ok?”

Non mi crede, ma non può rimproverarmi per qualcosa che ancora non ho fatto.

“Sii prudente, per favore” mormora quando è già sul pianerottolo. “E se hai bisogno, chiamami in qualsiasi momento.”

Chiudo piano la porta alle sue spalle, intuendo la sua intenzione di voltarsi una volta ancora per qualche raccomandazione che non ho voglia di ascoltare. Ora che il silenzio mi avvolge dovrei sentirmi in pace, o almeno più tranquilla, senza costanti domande a cui rispondere, senza martellanti preoccupazioni sull'avere o meno un maniaco seduto al mio tavolo, senza bisogno di confutare con la logica bislacche teorie dannatamente intriganti e pericolose; ma la casa, che fino a un attimo fa mi circondava placida e neutrale, sembra stringersi di nuovo intorno a me con aura malevola, provocandomi impossibili brividi lungo la spina dorsale. Non c'è niente che sia fuori posto, nulla che sia diverso, a parte la sensazione che tutto sia più spazioso senza l'ingombrante presenza del misterioso signor “Ebasta”, eppure ciò che prima mi appariva confortante e gradevole, ora incombe su di me come un ignoto pericolo senza nome e senza volto.

Una nuvola deve star passando sopra al sole, perché le ombre hanno assunto toni più foschi e assalgono con prepotenza gli spazi abbandonati dalla luce, facendomi venir voglia di sbirciare negli angoli per controllare che non vi si nasconda qualche mostro balzato fuori direttamente dalla mia infanzia.

Il silenzio non è una confortante mancanza di caos, ma solo un'opprimente cappa grigia di malinconia e il piacevole tepore a cui mi stavo velocemente abituando ha di nuovo ceduto il passo a un'umidiccia sensazione di gelo.

Sospiro pesantemente e allungo le braccia sopra la testa, cercando di calmarmi e convincermi di star cadendo nella teatralità e in una banale paranoia post-traumatica. Al di là di tutte le mie scempiaggini, semplicemente, novembre non deve essere il mio mese preferito, troppo instabile, acquoso e gelato. Sarebbe più facile sentirsi pieni di vita e ottimisti nella tiepida brezza primaverile o sotto il sole brillante di un agosto cittadino.

Non nuocerebbe neanche al mio umore poter pensare di scorgere qualche lieve miglioramento nella memoria, ma i miei ricordi sono esattamente quelli di ieri: accademici, futili e impersonali.

Sono come una bambola depositata in una stanza, costretta a fidarsi della rassicurazione di estranei che quello sia il posto in cui deve stare, ma che non avrebbe trovato differenza a esser lasciata in un qualsiasi altro luogo, con una qualsiasi altra spiegazione.

Posso dire di apprezzare il modo in cui questo posto è stato arredato, anche se non è troppo ordinato o elegante, ma vorrei sapere se il gufetto col cappello da cuoco poggiato vicino al lavello sia il ricordo di una gita o il regalo di qualcuno, vorrei capire perché tenga i coltelli nel secondo cassetto e tutto il resto delle posate nel quarto, o quale logica mi abbia spinto a comprare un graziosissimo porta cd a forma di gatto per poi tenerlo seminascosto dietro al letto, dove non posso vederlo, ma solo inciamparci sopra. Giusto per riequilibrare le cose, lo prendo e lo sposto accanto al lettore cd, resistendo alla tentazione di chiedermi quale musica mi piacesse o mi piaccia ancora.

Sono un'estranea in casa mia, ma questo potrebbe anche essere vagamente tollerabile, con un po' di ottimismo; pazienza se non mi ricordo del servizio di piatti marchiato Ikea, il peggio è che non riconosco neanche le mie mani, le mie gambe, i miei capelli, la mia voce; ogni volta che scorgo la mia immagine riflessa in uno specchio, sussulto come una stupida pensando di avere un estraneo accanto a me e questo, dopo un po', risulta abbastanza fastidioso, per non dire allucinante.

Non c'è nulla che mi appartenga o a cui senta di appartenere e non ho molta voglia di vedere questa situazione come la fortunata occasione per un nuovo, emozionante inizio.

Avevo sperato di svegliarmi, stamani, ed essere nuovamente me stessa, tutta intera, o almeno intera per tre quarti, invece non noto alcun progresso, a parte il fatto di trovarmi sempre più monotona e lagnosa.

Sento il cuore che batte troppo forte e credo di star per avere un attacco di panico, ma sono certa che non risolverebbe i miei problemi e non mi risolleverebbe dal umor nero con cui ho iniziato questa giornata. Ho subito un'ulteriore delusione, è vero. Ho visto sfumare momentaneamente le mie più rosee aspettative, ma, in fondo, non è passato abbastanza tempo per mettere da parte le speranze, ho lasciato quell'ospedale malefico solo poche ore fa e non ho ancora chiesto un consulto con un medico degno di questo nome. Non ha senso lasciarsi andare al pessimismo.

In fondo, per quanto spiacevole, la mia condizione è senza dubbio più positiva di quella degli altri partecipanti a quella maledetta inaugurazione: io sono sommersa da dubbi e paure, ma loro sono direttamente sotto a tre metri di terra e, sinceramente, non vorrei fare a cambio, quindi ho il dovere morale di pensare positivo.

Urge preparare un piano di azione e voglio farlo io, non accodarmi a quello elaborato da altri.

La prima cosa da fare sarà trovare un dottore per un controllo generale, quindi dovrò chiedere a Jasmine se conosca qualcuno di competente.

Dopo voglio visitare villa Morel, con o senza l'approvazione di quel fifone di Gabriel.

Se poi dovesse avanzarmi un po' di tempo, farò un giro a Pigalle, per trovare il negozio che vogliono spacciarmi per fatato e che sarà solo uno squallido locale rintanato in un vicolo malfamato.

Con qualcosa da fare, la giornata sembra subito più luminosa e non mi importa che l'armadio scricchioli come se fosse posseduto da un tarlo di due quintali, né che la luce, in bagno, tremoli e minacci di spegnersi senza che ci sia stato alcuno sbalzo di corrente. Mi preoccuperò dei problemi casalinghi più tardi. Al massimo delegherò Philippe perché assuma un tuttofare per controllare l'impianto elettrico, il riscaldamento e la stabilità delle pareti o della mobilia.

Io ho una missione da compiere: capire cosa diavolo mi sia successo e perché. E capire se sia o meno responsabile della triste fine di un bel numero di innocenti.

  
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