Ero
morta. Fredda,
inerme e pallida su quel letto
sconosciuto, su quelle lenzuola così candide che sembravano
brillare di
riflesso a quella accecante luce bianca che invadeva la stanza,
apparentemente
uno spazio senza confini, come un foglio immacolato. Avevo le mani
incrociate
sullo stomaco e la mia presa era salda, indissolubile. Le dita erano
rigide,
private ormai della loro articolazione, livide, così come le
mie labbra
socchiuse e le mie palpebre, che non si sarebbero mai più
sollevate e avrebbero
celato il mondo ai miei occhi per l’eternità. I
miei capelli lunghissimi
sembravano aver perso la loro vitalità, e si spargevano
spenti e opachi fra le
pieghe del cuscino, andavano a nascondersi sotto la mia schiena o si
infiltravano tra le pieghe della mia camicia da notte, carezzandomi il
collo e
il petto. Ero morta, lo vedevo chiaramente. Ed era questo,
ciò che mi
spaventava di più. Io, riuscivo a vedermi.
Non
poteva essere un sogno – anzi, un incubo. Non poteva essere
nulla che
rientrasse nel campo dell’immaginazione o delle
allucinazioni. Prima di
vedermi, io lo sapevo. Sapevo
perfettamente che stavo morendo. Ero in fin di vita ormai da tempo, e
le mie
giornate si consumavano sempre più tediose a letto, ma non
in quello stesso
letto in cui mi vedevo distesa, priva di respiro. Adesso.
Ero
giovane. Un’adolescente; una di quelle ragazze dannatamente
complicate a cui
era davvero difficile strappare un sorriso. Un sorriso che una volta
sfoggiato,
semplice e spontaneo, ricordava quello di un bambino a cui si era
appena fatto
un regalo con il quale si era assolutamente certi di renderlo appagato.
I
tratti del viso particolarmente puerili, le forme del corpo non
sviluppate
totalmente, la carnagione chiara ma non eccessivamente pallida,
costellata di
lentiggini quasi in ogni punto della sua estensione. Certe volte sapevo
di
essere estremamente permalosa, specialmente se si parlava della mia
altezza,
che – parere che avevo sempre sostenuto dai primi anni di
vita, senza peraltro
mai lasciarmi convincere del contrario – non mi rendeva
assolutamente
giustizia. E a parte la mia testardaggine, vi erano parecchi lati del
mio carattere
che non venivano considerati favorevoli per la mia posizione.
Ero
la prima ed unica figlia di una coppia di nobili decaduti, arricchitisi
grazie
all’eredità paterna che spettava loro per diritto
di successione – erano
entrambi figli unici come la sottoscritta – e che quindi
conducevano una vita
tranquilla e campagnola nella più grande tenuta che la
nostra Contea ospitasse
ormai da generazioni. I miei genitori adoravano lo Yorkshire;
consideravano i
suoi paesaggi i più belli, maestosi e impervi di tutto il
territorio. La
maggior parte dell’anno nello Yorkshire pioveva;
d’estate e in inverno
assistevo a temporali burrascosi quasi tutti i giorni.
L’autunno era la mia
stagione preferita perlopiù per ragioni mondane, quali il
mio anniversario di
nascita – mi sono sempre rifiutata di chiamarlo compleanno
– ma anche perché in
quel periodo la pioggia era meno impetuosa, anche se spirava sempre un
forte
vento. La stagione più calda e meno allagata era la
primavera, dove, essendo
esposta al sole per gran parte delle mie giornate, le macchioline scure
che
ricoprivano il mio corpo erano ancora più evidenti, cosa che
non mi faceva più
di tanto piacere – non le trovavo molto, come dire, attraenti – ma di cui, alla
fine, andavo segretamente vantandomi.
Perciò
si poteva dire che per i criteri dell’epoca, ero bella. Di
certo non di fascino
comune, chiunque sapeva che avevo un carattere più che
ingarbugliato; e i più
mi definivano incomprensibile. Questa situazione per me era
tutt’altro che
piacevole. Lungo il petto una ferita addolorava il mio cuore. Ero il
lupo
travestito da agnello. Come un ritratto di chiaroscuri, le mie ombre
non
venivano apprezzate come la mia luminosità. Eppure, ero
assolutamente certa
dell’insegnamento che mi era stato impartito ma che andava
contro tutto ciò che
sibilava tra le labbra di chi aveva avuto l’occasione di
conoscermi: la perfezione non esiste.
Perché
in me veniva riposta questa speranza di impeccabilità che
veniva mutilata e
offesa in continuazione? Nessuno si era mai accorto che io dolevo
seriamente di
questo peso che mi cadeva sulle spalle, indesiderato.
Così,
dopo un improvviso quanto turbolento temporale durante la mia
sedicesima
primavera, a cui io ero rimasta appositamente
esposta per molto tempo, una devastante polmonite, invigorita
dall’ampio
squarcio della mia anima, aggravò sensibilmente la mia
salute. E dopo poco
tempo, mi era chiaro che su quel letto dove ero nata – dove
mia madre mi aveva
dato la luce – avrei finito di vivere.
E
poi, sarei morta. O almeno, questo era quello che mi auguravo in
segreto. Il
mio amor proprio, la mia autostima, il mio orgoglio – proprio
io che di quel
sentimento irragionevole ero la più vicina consanguinea, non
esistevano più
ormai da tempo. Ingoiati, svaniti, deceduti. E senza quelle cose che il
mio
smisurato ego considerava come aria per i suoi polmoni, mi rifiutavo di
tirare
avanti la mia carne e le mie ossa senza un briciolo di anima. Mi
rifiutavo di
sentirmi respinta. Anzi, segretamente
respinta. Perché sapevo che i miei genitori, i dipendenti
alla residenza
familiare, gli amici di famiglia, i conoscenti, chiunque fingeva
liberamente e
spudoratamente di amarmi, o almeno di provarci. E quando ero riuscita
finalmente a comprendere cosa effettivamente veniva tramato alle mie
spalle,
decisi di…suicidarmi.
E
quel temporale, che il mio fisico sensibile alle impetuosità
dei mutamenti
atmosferici non avrebbe mai potuto reggere, costituì per me
l’occasione di un
suicidio passivo da cogliere al volo.
Non
vedevo vie di scampo da ciò che mi appariva più
un soggiorno all’inferno che
una vita in un piccolo paradiso di qualche acro; solamente
quell’opzione di
privarmi da sola del mio respiro.
Niente
lame o armi da fuoco: non volevo assolutamente morire in un lago di
sangue e
non credevo di essere abbastanza coraggiosa da colpirmi in un organo
vitale,
almeno non con un coltello. E con una carabina da collezione di mio
padre
sarebbe stato troppo veloce e scontato. E anche lì sarei
rimasta immersa in una
pozza cremisi, anche se sicuramente non me ne sarei mai potuta
accorgere. Avevo
scartato in primis anche la tragica morte per annegamento e la teatrale
scena
di un fallito tentativo di volo dal punto più alto del
palazzo. Le messinscene
così artificiose non erano nel mio stile.
E
così, quando delle gocce
leggere come lacrime iniziarono a cadere dal cielo terso di marzo che
andava
velocemente scurendosi, diventando grigio e plumbeo, quando il vento
iniziò a
sibilare la sua turbolenta e incostante melodia nelle mie orecchie e
sotto
quella pesante coperta di nuvole iniziò un
gorgogliare lontano e ovattato, che somigliava al rumore
prodotto da uno
stomaco vuoto, restai immobile. Come paralizzata, i miei occhi scuri
fissavano la
tetra volta celeste, mentre i miei capelli si attaccavano alla mia
fronte e alle
mie guance e il mio pomposo vestito rosso si sgualciva. Lentamente, mi
sentii
avvampare; un calore improvviso mi avvolse, come se una stella troppo
vicina mi
irradiasse con la sua luce non permettendo alla pioggia di bagnarmi.
All’improvviso
percepii di essere debole, un brivido mi attraversò la
schiena e persi
conoscenza.