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Autore: Mayuko    07/07/2008    1 recensioni
Io odio e amo. Ma come, dirai. Non lo so, ma sento che avviene e che questa è la mia tortura.
G.V. Catullo, Carm. 85
Genere: Romantico, Triste, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Nuovo personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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†. Suicide Girl

Ero morta. Fredda, inerme e pallida su quel letto sconosciuto, su quelle lenzuola così candide che sembravano brillare di riflesso a quella accecante luce bianca che invadeva la stanza, apparentemente uno spazio senza confini, come un foglio immacolato. Avevo le mani incrociate sullo stomaco e la mia presa era salda, indissolubile. Le dita erano rigide, private ormai della loro articolazione, livide, così come le mie labbra socchiuse e le mie palpebre, che non si sarebbero mai più sollevate e avrebbero celato il mondo ai miei occhi per l’eternità. I miei capelli lunghissimi sembravano aver perso la loro vitalità, e si spargevano spenti e opachi fra le pieghe del cuscino, andavano a nascondersi sotto la mia schiena o si infiltravano tra le pieghe della mia camicia da notte, carezzandomi il collo e il petto. Ero morta, lo vedevo chiaramente. Ed era questo, ciò che mi spaventava di più. Io, riuscivo a vedermi.

Non poteva essere un sogno – anzi, un incubo. Non poteva essere nulla che rientrasse nel campo dell’immaginazione o delle allucinazioni. Prima di vedermi, io lo sapevo. Sapevo perfettamente che stavo morendo. Ero in fin di vita ormai da tempo, e le mie giornate si consumavano sempre più tediose a letto, ma non in quello stesso letto in cui mi vedevo distesa, priva di respiro. Adesso.

Ero giovane. Un’adolescente; una di quelle ragazze dannatamente complicate a cui era davvero difficile strappare un sorriso. Un sorriso che una volta sfoggiato, semplice e spontaneo, ricordava quello di un bambino a cui si era appena fatto un regalo con il quale si era assolutamente certi di renderlo appagato.

I tratti del viso particolarmente puerili, le forme del corpo non sviluppate totalmente, la carnagione chiara ma non eccessivamente pallida, costellata di lentiggini quasi in ogni punto della sua estensione. Certe volte sapevo di essere estremamente permalosa, specialmente se si parlava della mia altezza, che – parere che avevo sempre sostenuto dai primi anni di vita, senza peraltro mai lasciarmi convincere del contrario – non mi rendeva assolutamente giustizia. E a parte la mia testardaggine, vi erano parecchi lati del mio carattere che non venivano considerati favorevoli per la mia posizione.

Ero la prima ed unica figlia di una coppia di nobili decaduti, arricchitisi grazie all’eredità paterna che spettava loro per diritto di successione – erano entrambi figli unici come la sottoscritta – e che quindi conducevano una vita tranquilla e campagnola nella più grande tenuta che la nostra Contea ospitasse ormai da generazioni. I miei genitori adoravano lo Yorkshire; consideravano i suoi paesaggi i più belli, maestosi e impervi di tutto il territorio. La maggior parte dell’anno nello Yorkshire pioveva; d’estate e in inverno assistevo a temporali burrascosi quasi tutti i giorni. L’autunno era la mia stagione preferita perlopiù per ragioni mondane, quali il mio anniversario di nascita – mi sono sempre rifiutata di chiamarlo compleanno – ma anche perché in quel periodo la pioggia era meno impetuosa, anche se spirava sempre un forte vento. La stagione più calda e meno allagata era la primavera, dove, essendo esposta al sole per gran parte delle mie giornate, le macchioline scure che ricoprivano il mio corpo erano ancora più evidenti, cosa che non mi faceva più di tanto piacere – non le trovavo molto, come dire, attraenti – ma di cui, alla fine, andavo segretamente vantandomi.

Perciò si poteva dire che per i criteri dell’epoca, ero bella. Di certo non di fascino comune, chiunque sapeva che avevo un carattere più che ingarbugliato; e i più mi definivano incomprensibile. Questa situazione per me era tutt’altro che piacevole. Lungo il petto una ferita addolorava il mio cuore. Ero il lupo travestito da agnello. Come un ritratto di chiaroscuri, le mie ombre non venivano apprezzate come la mia luminosità. Eppure, ero assolutamente certa dell’insegnamento che mi era stato impartito ma che andava contro tutto ciò che sibilava tra le labbra di chi aveva avuto l’occasione di conoscermi: la perfezione non esiste.

Perché in me veniva riposta questa speranza di impeccabilità che veniva mutilata e offesa in continuazione? Nessuno si era mai accorto che io dolevo seriamente di questo peso che mi cadeva sulle spalle, indesiderato.

Così, dopo un improvviso quanto turbolento temporale durante la mia sedicesima primavera, a cui io ero rimasta appositamente esposta per molto tempo, una devastante polmonite, invigorita dall’ampio squarcio della mia anima, aggravò sensibilmente la mia salute. E dopo poco tempo, mi era chiaro che su quel letto dove ero nata – dove mia madre mi aveva dato la luce – avrei finito di vivere.

E poi, sarei morta. O almeno, questo era quello che mi auguravo in segreto. Il mio amor proprio, la mia autostima, il mio orgoglio – proprio io che di quel sentimento irragionevole ero la più vicina consanguinea, non esistevano più ormai da tempo. Ingoiati, svaniti, deceduti. E senza quelle cose che il mio smisurato ego considerava come aria per i suoi polmoni, mi rifiutavo di tirare avanti la mia carne e le mie ossa senza un briciolo di anima. Mi rifiutavo di sentirmi respinta. Anzi, segretamente respinta. Perché sapevo che i miei genitori, i dipendenti alla residenza familiare, gli amici di famiglia, i conoscenti, chiunque fingeva liberamente e spudoratamente di amarmi, o almeno di provarci. E quando ero riuscita finalmente a comprendere cosa effettivamente veniva tramato alle mie spalle, decisi di…suicidarmi.

E quel temporale, che il mio fisico sensibile alle impetuosità dei mutamenti atmosferici non avrebbe mai potuto reggere, costituì per me l’occasione di un suicidio passivo da cogliere al volo.

Non vedevo vie di scampo da ciò che mi appariva più un soggiorno all’inferno che una vita in un piccolo paradiso di qualche acro; solamente quell’opzione di privarmi da sola del mio respiro.

Niente lame o armi da fuoco: non volevo assolutamente morire in un lago di sangue e non credevo di essere abbastanza coraggiosa da colpirmi in un organo vitale, almeno non con un coltello. E con una carabina da collezione di mio padre sarebbe stato troppo veloce e scontato. E anche lì sarei rimasta immersa in una pozza cremisi, anche se sicuramente non me ne sarei mai potuta accorgere. Avevo scartato in primis anche la tragica morte per annegamento e la teatrale scena di un fallito tentativo di volo dal punto più alto del palazzo. Le messinscene così artificiose non erano nel mio stile.

E così, quando delle gocce leggere come lacrime iniziarono a cadere dal cielo terso di marzo che andava velocemente scurendosi, diventando grigio e plumbeo, quando il vento iniziò a sibilare la sua turbolenta e incostante melodia nelle mie orecchie e sotto quella pesante coperta di nuvole iniziò un gorgogliare lontano e ovattato, che somigliava al rumore prodotto da uno stomaco vuoto, restai immobile. Come paralizzata, i miei occhi scuri fissavano la tetra volta celeste, mentre i miei capelli si attaccavano alla mia fronte e alle mie guance e il mio pomposo vestito rosso si sgualciva. Lentamente, mi sentii avvampare; un calore improvviso mi avvolse, come se una stella troppo vicina mi irradiasse con la sua luce non permettendo alla pioggia di bagnarmi. All’improvviso percepii di essere debole, un brivido mi attraversò la schiena e persi conoscenza.

  
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