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Autore: nainai    02/04/2014    3 recensioni
-Sai cos’è che c’è di male?- gli domandò appena. Stefan scosse la testa.- Fa male quando le ossa sporgono dalla carne. Non bisognerebbe mai essere esposti. E se hai un passato, sei sempre esposto.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Stefan Osdal, Steve Hewitt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Attenzione: il presente scritto ha per protagonisti persone vere e personaggi di pura fantasia. I fatti narrati sono frutto dell’immaginazione dell’autrice e non vi è alcun intento di verità o di verosimiglianza. Nessun diritto legalmente tutelato s’intende leso ed ogni diritto appartiene ai suoi propri titolari.
 
A Stefan Olsdal.
Con affetto, tanti auguri.
 
 
Role-playing Game
“Non preoccuparti, tesoro, è solo la fine del mondo”
 
(Unisex - Placebo)
 
-Sai cos’è un RPG?
Quando glielo aveva chiesto, lo aveva guardato. Fumava una sigaretta, l’aveva appena accesa e tirava, le labbra contratte attorno al cilindro scuro del filtro ed il rossetto, scolorito, che tingeva i bordi di un rosso quasi bordeaux. Il trucco gli si era disfatto sul viso, l’esibizione aveva cancellato la gran parte dell’ombretto argentato ed il mascara e la matita, sciolti, colavano creando impercettibili lacrime nere sul volto sudato. Le aveva cancellate pochi istanti prima con i palmi delle mani. Una traccia rimaneva orgogliosamente attaccata ai polpastrelli.
A vederlo sul palco aveva creduto fosse una donna. Una delle quattro: la sua band era interamente composta di donne fatta eccezione per lui, ma era facile non accorgersi della differenza, truccato come le altre tre e vestito in abiti così anonimi da essere assolutamente unisex.
In risposta alla domanda che lui gli aveva fatto, scosse la testa con lentezza. Ad essere onesti non sapeva neppure cosa esattamente gli avesse chiesto.
-E’ un acronimo.- chiarì l’altro sbuffando una nuvola densa. Il suo modo di fumare aveva qualcosa di osceno. Reggeva la sigaretta tra due dita, lo smalto nero era rovinato dall’impatto con le corde della chitarra. Tutto quel disordine, comunque, non sembrava preoccuparlo affatto. Lui non lo avrebbe sopportato.- Sta per “role-playing game”.- gli spiegò senza guardarlo.
Il suo sguardo vagava sulla sala del pub. A quell’ora c’era un sacco di gente, la stessa che pochi istanti prima stazionava sotto il palco con i nasi puntati all’insù verso la loro esibizione e le facce perplesse di chi si stesse chiedendo cosa ci facevano quattro ragazze come quelle in un postaccio simile.
Nessuno di loro si era accorto che lui non fosse una ragazza, ne era certo.
-Sono quei giochi cretini in cui fingi di essere un eroe di un altro mondo a caccia di un fantomatico oggetto magico in grado di sconfiggere il Male-Assoluto-Con-La-M-Maiuscola.
-…non fa per me.
Aveva riso. Era un suono grazioso. Ed il fatto che lo avesse classificato “grazioso” era disturbante. Stava pur sempre parlando di un altro maschio, pure più vecchio di lui anche se solo di due anni, e gli sembrava eccessivamente…lezioso…utilizzare certe parole. E a lui, poi, le checche non piacevano.
L’altro gli aveva riportato gli occhi addosso, un sorriso tanto malizioso quanto falso e doppio gli allargava la bocca. Faceva spavento. Ma ne era talmente ipnotizzato da non riuscire a smettere di ricambiare i suoi occhi.
-Per quel che mi riguarda, preferisco un altro tipo di…role-play. – aveva soffiato allusivo.
***
“Credo di essere gay”.
“Forte. Io sono bisessuale”.
Era il peggior scambio di battute che avesse mai avuto con qualcuno.
Si voltò su un fianco. Piano. Facendo attenzione a non disturbare l’altro.
Brian dormiva voltato verso di lui. Ogni ombra di rossetto era scomparsa del tutto dalle sue labbra – se premeva i polpastrelli contro la bocca sentiva sul palato il sapore stantio delle ultime tracce che aveva leccato via lui stesso – e l’ombretto era ridotto ad un’unica linea scura che si confondeva con la riga della matita nera. Un sorriso piccolissimo tirava la sua bocca mentre dormiva - aveva la bocca a forma di cuore… - un sorriso piccolo e genuino, che lo faceva sembrare una bambina addormentata, immersa in un sogno bellissimo.
Lui aveva ancora addosso il ricordo delle sue mani. Era una sensazione fisica, come se avessero lasciato un’invisibile impronta di pressione che tuttora spingeva tra le costole esposte, sulle braccia magre. Era dimagrito troppo, sua madre, prima che partisse, lo aveva guardato criticamente ed aveva scosso la testa. Ormai era un’abitudine a cui faceva poco caso, erano mesi che sua madre sembrava terribilmente preoccupata per qualcosa e quel qualcosa doveva inevitabilmente essere ricondotto a lui.
Non è che non fosse consapevole di stare cambiando. Lentamente. Non aveva smesso di essere il ragazzino studioso, diligente, educato, ubbidiente che i suoi genitori avevano allevato, ma aveva smesso di essere il ragazzino solare, dinamico, socievole che era stato fino a quel momento. Questo suo nuovo aspetto riflessivo, che lo portava ad allontanarsi impercettibilmente ma con costanza dai propri amici e dalle proprie abitudini, era la cosa che li rendeva più preoccupati. Ma era anche la cosa che gli aveva fatto maturare la decisione di andarsene.
Forse il Lussemburgo aveva iniziato a stargli stretto. Forse erano le compagnie che frequentava a non interessarlo più o forse aveva paura di essere se stesso in un ambiente che conosceva e che lo conosceva troppo bene. Lui voleva cambiare, ma sentiva che non era lì che poteva e doveva farlo.
La scelta di Londra, poi, era stata un po’ obbligata.
Guardò Brian. Sbatté le palpebre più volte, come se ci fosse qualcosa ad impedirgli di metterlo a fuoco correttamente. Realizzò che sembrava così tanto una donna da ritenere ridicola l’affermazione che aveva fatto la sera avanti sul proprio credere di essere gay.
...oh, cazzo.
Sbuffò una risata soffocata molto prima di rendersene conto. Serrò le labbra e spinse la mano contro la bocca nel tentativo di trattenere ogni rumore, ma l’aria fece un suono buffo sfiatando comunque e lui rise anche per quello, la faccia affondata nel cuscino, ed inevitabilmente Brian si svegliò.
Quando ruotò il viso nella sua direzione, si accorse di quegli occhi incredibili che lo puntavano con lo stesso identico sorriso di prima. Solo che ora non era piccolo, ma enorme, e rischiarava di luce ogni singolo angolo della stanza.
-Che c’è di così divertente?- chiese immancabilmente.
Non era arrabbiato; lui si rilassò appena nel constatarlo.
-Niente. Ricordavo il Lussemburgo.
-Ci sono modi infinitamente più interessanti di impegnare il tempo.- constatò Brian, scoccando fuori quella battuta con una sferzata di acidità improvvisa. Si rasserenò immediatamente dopo, voltandosi sulla schiena e stirando il corpo nudo sopra il lenzuolo. Sbadigliò.-Non mi hai detto cosa pensi della nostra musica.- gli disse.
-…non me lo hai chiesto.
-E’ il genere di cose che uno ritiene da sé, di dire!- esclamò lui divertito.
-Vero.- soffiò pianissimo, leggermente imbarazzato.
Brian gli scoccò un’occhiata trasversale. Il suo sorriso aveva assunto nuovamente quella sfumatura maliziosa ed impudente che aveva visto il giorno prima, al locale. Non gli piacque.
-Non credo che arriveremo da nessuna parte.- lo sentì dichiarare con un’indifferenza mirabile. Ne rimase sorpreso: perché suonava con quella band se pensava questo? – Il motivo per cui ci chiamano a suonare nei locali ha poco a che fare con la musica e troppo con le cosce delle ragazze.
Non disse nulla, tanto più che non sembravano commenti per i quali l’altro si aspettasse una risposta da parte sua.
-E tu, Stefan?- gli chiese ancora Brian, voltandosi nuovamente sul fianco e poggiando la guancia contro la mano. I suoi occhi affondavano inesorabili come coltelli, erano grandi, luminosi, di un colore indecifrabile che in quel momento gli sembrava troppo azzurro per poter essere tollerato…- Non dicevi che suoni anche tu?
Tirò un respiro profondissimo, trattenendo il fiato subito dopo.
Suonava? Sì. Più o meno. Aveva iniziato a fare il giro di un po’ di gruppetti locali, per lo più rimpiazzando i componenti ufficiali che mancavano qualche appello. Si era fatto delle conoscenze che gli piacevano, aveva trovato un lavoretto in un negozio di dischi che gli permetteva di farsi passare qualche sfizio in più – i suoi si erano intestarditi sul fatto che dovesse accettare il loro aiuto almeno finché non avesse terminato gli studi e cominciato a cercare un lavoro vero. Londra era il posto giusto per lui e finora nulla gli aveva fatto credere che non fosse così.
Poi aveva incontrato Brian.
-Mi piacerebbe suonare con te.- disse, invece di rispondergli.
Il sorriso di Brian non vacillò.    Anzi. Stefan lo vide farsi più sicuro e meno falso. L’altro si sporse in avanti e posò le labbra sulle sue in un bacio casto, delicato come una carezza, che lo fece sospirare involontariamente di soddisfazione.
-Vedremo.- gli concesse brevemente.
Si voltò con un guizzo di reni. Il suo corpo si tese fuori dal materasso, descrivendo un arco sottile che strinse un nodo intorno alla gola di Stefan, rendendolo dolorosamente consapevole del fatto che non aveva pensato al dopo, a quando quel mattino Brian fosse uscito dal suo letto senza neppure una ragione valida per tornarci. Osservò la sua schiena, contando idealmente le vertebre sporgenti. Brian era un mucchio di ossa in evidenza con un viso da bambolina maledetta.
Lo guardò rivestirsi con gesti ordinati, lisciando inutilmente le pieghe degli abiti ormai stropicciati o tentando di dare un senso alla massa disordinatamente ricciuta dei capelli. Era anche un misto di grazia femminea e confusione adolescenziale, considerò brevemente.
Quando lo vide puntare alla scrivania sotto la finestra, aguzzò gli occhi per vederlo staccare un post-it giallo da una pila e scribacchiarci velocemente qualcosa sopra.
Tornò verso di lui, la penna ancora in mano che gli lanciò addosso con fare scherzoso.
-Ti ho lasciato il mio numero.- gli disse.- Chiamami, se ti va.
***
Per svariate settimane aveva evitato di farlo.
A ripensare lucidamente a tutta quella storia, si sentiva troppo stranito per poter assecondare la prospettiva di rivedere Brian. Loro due si erano già conosciuti quando entrambi frequentavano l’American School in Lussemburgo. Brian era molto diverso all’epoca e lui si era accorto della sua esistenza solo in virtù del fatto che era il bersaglio preferito dei bulli della scuola; gran parte della squadra di basket, in cui Stefan giocava, rientrava anche nel novero dei “bulli della scuola”. Brian allora era un ragazzino in sovrappeso, con i brufoli, che nessuna ragazza avrebbe guardato nemmeno di sbieco e che era già troppo effeminato per poter passare altrettanto inosservato alla cattiveria di certi adolescenti. Oltretutto, non sapeva stare zitto. Quando ti pestano fai bene a non contraddire il branco, Stef lo aveva sempre saputo – in modo istintivo, perché lui in mezzo ad un pestaggio non si era mai trovato, né da una parte né dall’altra – lui, invece, rispondeva, quando addirittura non li provocava coscientemente. Non sembrava un modo sano di fare.
Comunque, si era dimenticato di Brian Molko molto prima di decidere di trasferirsi a Londra. Soltanto una serie di circostanze li aveva fatti rincontrare e solo lo spirito di osservazione dell’altro aveva permesso che si riconoscessero. Stefan, se pure avesse ancora pensato a lui, non avrebbe potuto mai e poi mai riconoscerlo in quel ragazzo dall’aspetto ambiguo, bellissimo, e dall’atteggiamento altero, annoiato e arrogante. Se sotto quello strato di smalto tirato a nuovo si annidava ancora lo spettro dell’adolescenza appena subita, Brian aveva imparato molto bene a mascherare le cicatrici ed apparire splendente come un diamante grezzo.
Era stato questo a farlo cadere, ad irretirlo e fargli accettare con facilità l’invito ad una serata di musica in quel locale.
Il fatto che si fosse confidato con lui, ammettendo quella che era appena un’idea larvale che gli affollava la testa da tempo, era stato così strano ed assurdo che, dopo, a mente fredda, Stefan ne era stato spaventato. Aveva fatto sesso con Brian senza sapere nemmeno per quale ragione – sì, era bello e sì, lo voleva e gli era piaciuto – ma, cosa ancora peggiore, aveva ammesso con lui di essere gay. Lui non lo aveva mai detto a voce alta fino a quel momento.
Certo, c’erano già stati un paio di impacciati approcci con ragazzi che lo avevano attratto. Non era andato più in là del flirtarci - affinando le tecniche già provate con le ragazze al liceo e scoprendo che era perfino più semplice, più diretto ed immediato - e dello scambiarsi qualche bacio o un paio di carezze intime nascosti dietro la colonna di un muro.
Brian era stato, ufficialmente, il suo primo ragazzo.
Quando si era deciso a rivederlo lo aveva fatto solo perché consapevole che, da giorni, pensava insistentemente a lui.
-Ciao!- lo salutò Brian, già seduto ad uno dei tavolini del caffè a cui si erano dati appuntamento. Il suo sguardo attento, oggi di un verde smeraldo limpido come l’acqua, ruotò immediatamente sulla persona che accompagnava Stefan, studiandola con un’imitazione perfetta di un sorriso affabile ben impressa sul visino da ragazzina.-Tu devi essere Steve.- esordì allungando la mano attraverso il tavolo.
Steve, per la precisione, sembrava congelato su se stesso.
Stefan gli tirò di nascosto una gomitata nel fianco, invitandolo silenziosamente a reagire allo shock che sembrava avergli ucciso ogni capacità cerebrale.
Lo vide annaspare un momento, inebetito, nella sua direzione e poi rispondere meccanicamente, stringendo piano le dita dell’altro.
-Sì, infatti.- disse.- Ciao.
Stefan si sedette.
Steve era una scusa, tutto era una scusa. Lui voleva rivedere Brian ma non sapeva come giustificare quelle settimane di silenzio senza ricevere in cambio un secco “vaffanculo”. Gli era sembrato che tirare fuori la storia del “ho chiesto un po’ in giro e c’è un amico che potrebbe suonare la batteria con noi” reggesse. Aveva retto. Anche se non sapeva quanto Brian fosse sincero nel fingere di avergli creduto.
Steve gli si sedette accanto.
-Così fai il batterista.- attaccò Brian, banalmente.
-Sì. Stef mi ha detto che vorreste vedere se si riesce a mettere su un progetto nuovo… In realtà, io collaboro già con una band, più o meno stabilmente.
-Oh sì, ma tanto non è niente di serio.- sorrise Brian.- Vero, Stef?
Si era appropriato immediatamente di quel nomignolo. Una fitta prepotente colpì Stefan all’addome, facendogli mancare il respiro per qualche secondo.
-Noi due andavamo a scuola assieme, sai.- stava raccontando Brian. E, nella sua descrizione, dal suo tono, sembrava quasi vero, come se sul serio loro due fossero mai stati amici o anche solo compagni di scuola. – Quando ci siamo rivisti si è finito per parlare di tante di quelle cose! Abbiamo scoperto per caso che tutti e due avevamo iniziato a suonare.
-Forte.- borbottò Steve, che sembrava ancora leggermente a disagio.
Stefan non se la sentiva di biasimarlo, lui stava anche peggio. Qualcosa del modo di fare affettato e sornione di Brian lo stava indisponendo fortemente e gli stava facendo pensare che non era stata una buona idea.
-E’ stato da lì che è nata questa idea di suonare assieme. Sai, parli di musica e finisci quasi sempre per dirti “ehi! e se provassimo a fare qualcosa?!”.
-Sì. Già.- Steve annuì.
Stefan continuava a tacere e guardare Brian. All’improvviso si ritrovò i suoi occhi addosso, perfettamente incastrati nel suo sguardo. Rabbrividì istintivamente.
-E voi come vi siete conosciuti?
-Steve non è il mio ragazzo.
Si sentì idiota l’istante immediatamente successivo. Si era creato un tale perfetto silenzio che gli sembrò di essere improvvisamente piombato in un lago gelato e che l’acqua avesse creato una lastra impenetrabile di ghiaccio a separarlo dal resto del mondo. Gli occhi di Brian si erano fatti tondi ed espressivi come quelli di un gatto, mostravano uno stupore così genuino da essere quasi comico. Steve poteva solo immaginarselo, pietrificato al suo fianco e boccheggiante imbarazzo ed una buona dose di rabbia; trenta secondi ancora e gli avrebbe spaccato il naso con un pugno…
Fu Brian a salvarlo.
Scoppiò a ridere con tanta violenza da ridurre in frantumi quel solo istante di tensione statica. Lui rideva, gli occhi che lacrimavano, scrutandolo da sotto ciuffi ribelli di capelli scuri; al suo fianco Steve prese a borbottare qualcosa e Stefan si rese conto solo dopo qualche minuto che non erano parole, erano suoni gorgoglianti di risate trattenute, il batterista si schiacciava forsennatamente il dorso della mano contro il viso per non lasciarsi andare. Lui ruotò gli occhi dall’uno all’altro, sentendo già gli angoli della bocca tirarsi leggermente, e pochi secondi dopo erano in tre a ridere, senza ritegno e senza ragione, consapevoli del fatto che da lì in poi sarebbe stata tutta in discesa.
***
Un ragazzo si era avvicinato a Brian e ci aveva provato. Era la prassi. E come da prassi lo aveva preso per una donna.
Stefan, che era al bancone a prendere le birre in quel momento, si era bloccato lì, osservando la scena da lontano. Brian stava accanto ad una colonna e parlava con un’amica, il tizio era passato e gli aveva poggiato una mano sul sedere senza fare assolutamente nulla per dissimulare il gesto. Da quella distanza Stefan non poteva sentire neppure una parola di quello che aveva sussurrato all’orecchio dell’altro, ma aveva visto distintamente la schiena di Brian raddrizzarsi, in modo elegante e morbido, ed un sorriso enorme e velenoso ricoprire le sue labbra al lipgloss.
Non aveva sentito neppure la risposta di Brian, ma lo sguardo di liquido terrore con cui il tizio era fuggito era stato sufficiente.
Lo aveva raggiunto subito dopo, porgendogli la birra ed accogliendo il suo sorriso divertito con un’espressione che sapeva molto simile. Brian gli stava insegnando la malizia con la stessa facilità con cui sembrava averla imparata lui stesso, le sue battute allusive erano diventate il pane quotidiano di Stefan, i suoi modi, fatti si seduzione sfacciata, erano molto lontani da quelli dello svedese – né lui avrebbe mai potuto comportarsi allo stesso modo – ma i ragionamenti su cui Brian basava quegli atteggiamenti erano facili da capire e condividere. “È il sesso che muove il mondo, Stef”, gli diceva ridendo, “è con il sesso che si vincono le guerre. Dopotutto, gli uomini sono bestie e le bestie puntano alla sopravvivenza della specie”. Lui gli faceva notare come, in fondo, durante il loro primo incontro, si fosse lamentato del fatto che chiamassero la sua band a suonare nei pub solo per le cosce delle ragazze. Brian sgranava gli occhi, fingendosi stupito, e gli diceva che non era quello il problema, il problema era che non ci fosse nient’altro a parte le cosce.
Che servissero le cosce per arrivare su un palco, invece, costituiva solo un dato di fatto.
Brian lo stregava. Era rivestito di uno strato spesso di belle parole e comportamenti strafottenti, come se il mondo intero potesse passargli di fianco senza sfiorare un angolo della sua pelle nemmeno per sbaglio, ma con il tempo Stefan stava cominciando a scorgere gli spigoli innumerevoli che quella corazza aveva e che servivano più da armi che da roccaforti. Brian il mondo lo teneva a distanza e questo significava che non ne era affatto immune.
Non bastava a privarlo di fascino, anzi. Ogni qualità della sua personalità che scopriva, ogni sfaccettatura più complessa di quella maschera di porcellana mono-espressiva – l’aria da lolita, da puttana che si vende al miglior offerente – glielo rendeva ancora più prezioso. Era come avere a che fare con un puzzle e poter scoprire che c’era sempre un pezzo in più di tutti quelli che potevi mettere al loro posto.
Ormai dipendeva da lui come dall’aria che respirava, passava con Brian ogni istante che non dovesse occupare in altro modo ed il loro progetto musicale - che progrediva nonostante le dichiarazioni iniziali circa la sua mancanza di qualsivoglia impegno – era diventato la cosa più coinvolgente a cui avesse mai partecipato prima.
Brian quando parlava di musica si entusiasmava. Ci era voluto un po’ perché si sciogliesse, ma la comunanza istintiva di idee che avevano scoperto tra di loro in quel campo, lo aveva portato ad accantonare in fretta ogni riserva. Adesso Stefan sentiva di poter dire che quello era, forse, l’argomento con cui aveva più occasioni di vedere il vero Brian.
I suoi sorrisi lo sorprendevano ancora. Brian sorrideva un sacco ed aveva un sorriso diverso per ogni occasione o sensazione o pensiero che volesse esprimere. Stefan stava imparando a conoscerli tutti, ma gli unici sorrisi che sperava ogni volta di vedere erano quei sorrisi sinceri che lo facevano sembrare un bambino e gli restituivano un’innocenza così autentica e genuina nello sguardo da fargli battere il cuore all’impazzata.
…credeva di starsene innamorando.
Non riusciva a dirlo a voce alta. Tra loro due, dopo quel primo episodio, non c’era stato nient’altro. Brian aveva un mucchio di compagni di letto, nessuna fidanzata o fidanzato ufficiale, difficilmente si concedeva “un secondo giro” ed, in generale, viveva davvero il sesso come un mezzo e non uno scopo. Per certi versi, il fatto che non fossero finiti nuovamente a letto assieme costituiva un punto a favore di Stefan, perché significava che Brian gli portava rispetto come persona e non voleva che fosse l’occasionale occupazione di un paio di ore.
Che le cose stessero così, peraltro, glielo diceva tutto l’atteggiamento che l’altro aveva assunto con lui. Era capitato più di una volta che Brian gli chiedesse consiglio per qualcosa. All’inizio aveva accolto la cosa con stupore, ritenendo di essere la persona meno indicata per dare suggerimenti a chiunque su qualunque cosa, ma quando lo aveva visto insistere con l’ottusità fiduciosa che si ripone solo negli amici si era sentito orgoglioso ed aveva ceduto con facilità a quella sensazione, apprezzandone la consistenza e le implicazioni.
Brian, del resto, aveva legato in fretta anche con Steve e Stefan un po’ ci aveva sperato. Steve non era il tipo che si lasciava trascinare dai pregiudizi preconfezionati della gente ed, anche se le sue scelte di vita apparivano abbastanza convenzionali, prima di sputare sentenze dietro alle scelte degli altri si prendeva la briga di ascoltare. Lui e Brian avevano un rapporto molto diverso: se con Stefan c’era complicità e si era creato un rapporto estremamente intimo, coinvolgente e carico di aspettative, con Steve era tutto più piano e solido, più adulto e caratterizzato da uno scambio di opinioni vivace ma rispettoso.
Formavano un bel trio ed a tutti e tre piaceva quello che facevano assieme sul piano musicale.
-Tutto ok, Bri?- s’informò.
Per Brian era stato semplice imparare a chiamarlo “Stef” e lui ci aveva messo davvero poco a creare quel nomignolo un po’ infantile con cui appellarlo. La prima volta lo aveva fatto per sbaglio e senza pensarci e si era aspettato una reazione negativa. Ma Brian lo aveva sorpreso ancora una volta, recependo la cosa in modo assolutamente sereno.
Sedettero assieme ad uno dei tavoli. Il gestore del pub li aveva chiamati per parlare della possibilità che suonassero lì tra qualche sera e poi aveva offerto loro di restare a bere qualcosa.
Brian ruotò sulla sala uno sguardo vuoto e disinteressato, puntando poi gli occhi su di lui per metterlo a fuoco lentamente.
-Sì. Solite stronzate.- liquidò scrollando le mani in un gesto tragicamente femminile. Mandò giù un sorso lungo di birra e posò rumorosamente il boccale sul tavolo. Quando gli rialzò il viso addosso Stefan seppe che doveva dirgli qualcosa.- Ho scritto un paio di canzoni.- annunciò in tono volutamente indifferente.
Stefan, in compenso, sentì il cuore fare un leggero saltello nel petto, lasciandolo un secondo senza terreno sotto i piedi. Una canzone?! Una canzone loro?!
-Pensavo che magari potevamo provarle per l’esibizione.- suggerì ancora Brian.
-Mi sembra grandioso!- soffiò fuori Stefan, con un sorriso inebetito.
-Sì, beh, non è che siano niente di che, eh. Non cominciare ad esaltarti!
-E tu piantala di sminuire le cose per paura che non siano abbastanza!- rise Stefan, spintonandolo leggermente per una spalla. Brian incassò e ridacchiò appena, schernendosi e rifugiandosi nella birra subito dopo.- Allora avviso Steve che ci vediamo domani per iniziare a provare.
-Vorrei farle sentire prima a te.- chiese Brian.
Stefan per un momento si domandò se avesse capito bene. Lo sguardo di Brian, però, era terribilmente serio e questo era già insolito per lui, che preferiva di gran lunga nascondersi dietro un dito subito dopo ogni dichiarazione “compromettente” che gli sfuggiva. Stabilì che era meglio non dare troppo risalto a questa, di dichiarazione, ed annuì soltanto.
-O.k. Allora che faccio? Passo da te, domani?- suggerì semplicemente.
-Sì. Finisco di lavorare alle due, alle tre ho appuntamento con le ragazze per ufficializzare che mollo la band e poi possiamo trovarci in centro.- ricapitolò in un uniforme tono grigio e spento.
-Vuoi mollarle?- recepì Stefan, perplesso.
Brian scrollò le spalle. Non era intenzionato ad approfondire la cosa e la lasciò cadere con facilità.
Prima della fine della serata, Stefan lo vide sparire con una delle bariste. Aspettò che fosse l’ora di chiusura, poi salutò il proprietario e se ne tornò a casa propria.
***
Brian condivideva l’appartamento con due ragazzi che studiavano ancora alla Goldsmith. Glieli aveva presentati di sfuggita una mattina che era andato a prenderlo per scendere a fare un giro assieme in centro, loro stavano uscendo per andare al College ed avevano a stento registrato il suo nome e scambiato qualche parola di circostanza sulla soglia. Erano due tipi tragicamente ordinari e Stefan faceva fatica a ricordarsi i loro visi, anche perché non gli succedeva troppo spesso di trovarli in casa quando andava da Brian. Ipotizzava che lui scegliesse apposta gli orari per invitarlo, ma era una supposizione senza nessuna concretezza e senza nessuna ragione, l’altro non pareva particolarmente interessato a rendere i coinquilini partecipi della sua vita ma nemmeno a tenerli all’oscuro di qualcosa. Semplicemente, pensava Stefan, loro esistevano su un piano diverso, un piano che scorreva accanto a Brian esattamente come il resto del mondo di cui non si interessava.
La sua capacità di concedere alle cose e, ben peggiore, alle persone livelli di attenzione assolutamente differenti era quasi disturbante. Potevi stargli morendo di fianco, ma se non rientravi in un determinato circolo di individui non avrebbe fatto segno di accorgersene.
Eppure non era una persona fredda. Stefan aveva capito quanto ci tenesse Brian ad apparire un calcolatore, un egocentrico con la tendenza a massimizzare il profitto – probabilmente l’eredità più evidente degli insegnamenti paterni, da quello che ricordava suo padre era un banchiere – ma la verità era che pareva più un ostinato acrobata che corra su un filo sottilissimo a metri e metri dal suolo. Quando quel filo veniva a mancare sotto i piedi, Brian precipitava nelle proprie emozioni e manifestava un’empatia così spiccata per il resto dell’umanità da dargli le vertigini.
Quando quel pomeriggio, seduto sul letto nella sua camera, ascoltò le brevi canzoni che l’altro aveva abbozzato ebbe la conferma di questo e di un mucchio di altre supposizioni.
-Come l’hai intitolata?
-“Teenage Angst”.
-Preferisco l’altra.
-“36 Degrees”?- Non era felice della scelta. Si accese una sigaretta mettendo in quel gesto un po’ troppa attenzione al solo scopo di evitare i suoi occhi, puntati fermamente su di lui.- Io punterei su “Nancy Boy”.
-Punteresti per cosa?- sorrise Stefan, lasciandosi andare all’indietro con le spalle contro il muro.
Brian non rispose subito. Posò con calma la chitarra acustica accanto a sé, sistemandola contro la gamba della scrivania perché non cadesse, e poi sbuffò una nuvola di fumo densa che impregnò quasi completamente lo spazio angusto della stanza. Stefan si sollevò leggermente per aprire la finestra bassa, obliqua, che stava sopra il letto. La camera di Brian era nella mansarda dell’appartamento, c’era poca luce ma era un’idea così deliziosamente bohemien da sopperire abbondantemente a quel difetto.
-Hai…mai pensato che potremmo…- iniziò lentamente Brian, senza guardarlo direttamente. Si studiò le unghie, corrucciando la fronte e raccogliendo le idee, sembrava imbarazzato.- Hai mai voluto fare il musicista?
-No.- ammise Stefan.
Brian gli rialzò gli occhi in faccia.
-“No” come “No e non mi interessa”?- insistette.
-“No” come “No, pensavo che sarei finito a fare un lavoro ripetitivo e noioso”.
-Quindi, ti piacerebbe?
-…piacermi?
-Non è un quiz a premi!- sbottò l’altro leggermente alterato.- Rispondi e basta! Hai mai pensato che potessimo fare sul serio?- corresse il tiro.
-Vuoi fare sul serio?
-No.
Stefan strabuzzò gli occhi.
-Ma allora di cosa stiamo parlando?!
-Di eventualità.
-Credevo volessi fare l’attore.
-Sì, ed io credevo che Erik fosse etero, ma siccome era indubbiamente il suo cazzo quello che succhiavo ieri notte, devo rivedere le mie convinzioni al riguardo.
Stefan storse il naso, contrariato. Non gli piaceva quando Brian adottava quella modalità volgare e prosaica che gli si addiceva davvero poco. Sapeva che era voluta ed, in un certo qual senso, forzata, per la maggior parte del tempo l’educazione borghese e perbenista dell’altro aveva un netto sopravvento su ogni istinto di ribellione.
-O.k., cosa ti sta dando fastidio?- decise di cambiare tattica.
-Perché qualcosa dovrebbe darmi fastidio?- s’impuntò lui, arricciandosi sulla sedia.
-Perché ci stai girando attorno e sei offensivo senza motivo.
-Ti ho offeso?
-La pianti?!- sbuffò Stefan- Brian, vuoi provare a sfondare come musicista?- aggredì, sporgendosi verso di lui.
Brian non rispose affatto, questa volta; si tirò una ciocca di capelli sulla nuca, stendendo il riccio morbido che creava sulle sue spalle fino a renderlo lunghissimo. I suoi occhi, grigi nella penombra della stanza, si puntavano senza vederlo sul muro al lato della scrivania.
Stefan ripensò alle parole delle canzoni che lui gli aveva fatto sentire: tutte, indistintamente, parlavano di Brian. Parlavano del suo disagio, dei suoi trascorsi di ragazzino, gli facevano vedere quegli anni sotto un’ottica completamente diversa. Quando erano a scuola, lui vedeva Brian attraverso gli occhi del branco. Era un ragazzino grasso e brufoloso dai modi effeminati. Punto. Non aveva mai potuto immaginare…non aveva mai voluto immaginare che sotto quell’apparenza ci fosse qualcosa di così sorprendente, riflessioni tanto profonde raccontate con la rabbia di chi è stato zitto anche troppo a lungo. Si sbagliava, Brian non aveva mai davvero parlato a nessuno di loro, in un certo qual senso aveva taciuto davvero davanti alla cattiveria degli altri e continuava a tacere.
Non sapeva per quale ragione “cantare” quelle stesse cose potesse essere più accettabile.
-Steve conosce un paio di tizi che si occupano di musica a livello professionale.- disse. L’attenzione dell’altro si concentrò immediatamente su di lui, famelica. Finse di non accorgersene.- Io direi di lavorarci su un po’, vedere se riusciamo a far funzionare questi pezzi dal vivo e poi…magari ne parliamo con lui e vediamo se si riesce a combinare qualcosa.
-Sì, però cambiamoci nome, ti prego!- rise Brian.
Rise davvero, non un’imitazione falsa di un sorriso plastificato, ma una risata genuina, semplice, che strappò un sorriso soddisfatto anche a lui. In qualche modo, il fatto che l’altro non si fosse nuovamente chiuso a riccio bastava già.
-A me “Ashtray Hearth” piace!- protestò vivacemente.
Magari, rifletté, non era nemmeno un discorso di “cantare” determinate cose, ma solo che era arrivato il momento anche per Brian di darsi un pubblico e vomitargli addosso tutto quello che avrebbe sempre voluto dire.
***
Avevano fatto sesso di nuovo, ma erano entrambi ubriachi e Stefan non era certo nemmeno di averlo voluto. Voleva ricordarsi di quando faceva sesso con Brian, voleva ricordare il suo sapore o l’odore della sua pelle, ricordare la sensazione che provava nell’imprimersi a fondo nel suo corpo o nel lasciare che fosse Brian - irruento come non lo avresti mai detto a vederlo così, piccolo e mingherlino – a spingere dentro di lui come se quel momento dovesse prolungarsi in eterno.
Invece, la maggior parte delle volte in cui succedeva erano entrambi ad un passo dall’incoscienza e lui sospettava che non fosse casuale, che Brian lo facesse apposta ad andare con lui solo quando per tutti e due la cosa assumeva la connotazione di un semplice gioco, una stupidata da liquidare al mattino con una scrollata di spalle ed una risata.
Lui aveva smesso di riderci su. Non lo aveva mai trovato troppo divertente – non nel modo in cui lo trovava divertente Brian, come se fosse uno scherzo ben riuscito da raccontare agli amici del pub – e adesso cominciava anche a fare male.
Quel “gioco” tra loro era iniziato per caso, la sera del concerto in cui avevano presentato i pezzi nuovi. Brian era euforico per l’effetto che le canzoni avevano fatto alla gente venuta a sentirli; dopo lo show, invece di fare come sempre e gettarsi nella mischia a caccia di avventure, lo aveva raggiunto nello spazio dietro il palco che utilizzavano come camerino e gli era, praticamente, saltato in braccio. Stefan lo aveva afferrato per puro miracolo, impedendo con manovre rocambolesche che finissero a terra mentre Brian incollava la bocca sulla sua fino a togliere il respiro ad entrambi. Non era stato un bacio appassionato. Non nel senso convenzionale del termine, sembrava più l’entusiasmo di un bambino e, quando gli si era staccato di dosso, Brian rideva come se, semplicemente, non fosse più in grado di smettere.
Stefan lo aveva imitato, stupidamente, senza preoccuparsi di nulla se non di sorridere a quel sorriso enorme, genuino, che tirava le labbra truccate di rosso sbiadito. E lo aveva tenuto stretto a sé, assaporando lentamente il gusto proibito del suo corpo troppo magro, spigoloso, che lo pungeva da ogni parte.
-E’ stata la cosa più incredibile dell’Universo!- erano state le prime parole di senso compiuto che il brunetto era riuscito a pronunciare.
Stefan annuiva soltanto, senza riuscire davvero a capire cosa ci fosse di così incredibile ed insieme trovando incredibile Brian stesso, il suo sguardo brillante, il sudore che gli incollava i capelli ed i vestiti addosso. Lui si era staccato quel tanto che bastava a scostare dal viso le ciocche troppo lunghe che gli finivano negli occhi, voltandosi attorno con frenesia in cerca del terzo componente della loro microscopica ensemble. Quando lo aveva individuato – Steve stava arrivando in quell’istante dal palco, sfoggiando un gratificante sorriso soddisfatto – gli era corso incontro per buttare le braccia al collo anche a lui, gridando impazzito. Il batterista lo aveva sorretto, sorpreso dal gesto almeno quanto Stefan che, geloso, li osservava da lontano pregando silenziosamente che l’altro non intendesse replicare anche il bacio.
-Bri, che accidenti…?!- aveva borbottato il più grande, leggermente a disagio.
-Siamo fantastici!- aveva strillato lui direttamente al suo orecchio, e Steve si era lasciato scappare una bestemmia e lo aveva rimesso a terra.
Brian volteggiava nella stanza come una ballerina impazzita, facendoli ridere senza che questo riuscisse minimamente a scalfire la sua felicità o a farlo dubitare per un solo istante di sé e di quello che faceva. Stefan aveva realizzato in quel momento quanto Brian si fidasse di entrambi, di lui e di Steve, tanto da abbandonare l’impassibile maschera di indifferenza verso sé e l’Universo e mostrare sprazzi di sentimenti autentici con cui fare i conti. Era bellissimo fare i conti con Brian.
Era bellissimo anche lasciarsi andare con lui. Dimenticare per un momento che la prudenza – e la saggezza – suggerivano distanze di comodo. Brian aveva il fascino delle sirene e lo scoglio da cui lanciava reti alle sue prede era ben nascosto e davvero insidioso; Stefan, con tutta l’ingenuità che lo contraddistingueva in quel periodo, era comunque ben consapevole di questo, ma era una consapevolezza che faceva in fretta a mettere da parte.
E quando quella notte lui aveva deciso di baciarlo ancora, più tardi, quando erano rimasti solo loro due e l’oste con un paio di camerieri brilli quanto loro ed uno Steve, ubriaco fradicio, che cantava stonato, abbarbicato sulla piattaforma della batteria, Stefan aveva deciso di ricambiarlo, e poi di ridere assieme a lui all’eco sguaiata che l’oste ed i camerieri facevano a Steve, ed infine di seguirlo quando Brian, sussurrando direttamente al suo orecchio, gli aveva chiesto se gli andava di accompagnarlo a casa.
Non se lo era più levato dalla pelle.
Potevano passare settimane intere senza che lui e Brian si cercassero per fare sesso. In realtà, erano diventati di una fisicità quasi morbosa, che muoveva con assoluta nonchalance dall’innocenza di un abbraccio confortante ai preliminari umidi da scambiarsi nascosti nel bagno di un locale. Stefan viveva giorni interi con la sensazione che Brian fosse solo un prolungamento del suo stesso corpo, dormiva con lui, con lui mangiava e beveva e si muoveva in giro per la città o non si muoveva affatto, chiuso in una stanza o in un pub come se non esistesse niente al di fuori che potesse rivestire interesse per loro due.
Se Steve si accorgeva di come il loro rapporto si stesse trasformando, non faceva comunque nulla che potesse interferire ed, anzi, Brian gli aveva detto più di una volta che non era soddisfatto del modo in cui il batterista si manteneva al margine del loro gruppo. Stefan aveva intuito che dietro quell’affermazione si nascondeva più che altro il fastidio che Brian provava nell’essere messo da parte per altro – Steve continuava a suonare con la sua vecchia band e sembrava convinto che fosse quella la sua strada – ma si guardava dal commentare le lamentele dell’altro con qualcosa di diverso da una serena scrollata di spalle.
A lui andava bene così e la musica continuava a costituire un sottofondo ad una vita ordinaria in cui Brian rappresentava, in ogni suo aspetto, l’evento straordinario in grado di sconvolgere ogni cosa. Stefan era ancora in attesa di quella catartica apocalisse che l’altro sembrava annunciare a gran voce e, nel frattempo, scopriva come l’eccezionalità possa diventare routine anche se si traveste in un carnevale farsesco.
Lui aveva imparato da poco a rivestire se stesso, ammantandosi della medesima ambiguità sfacciata dell’altro ed, insieme, ritrovandosi in quel ruolo con una serenità maggiore, maggiore divertimento e molta meno acredine di quanta Brian, in verità, nascondeva. Tutto questo, però, non bastava a cancellare del tutto l’irragionevole sensazione di “mancanza” che lui gli lasciava.
Avrebbe voluto poter rispondere a chi glielo chiedeva che sì, loro due stavano assieme. Ma non si azzardava a farlo. Non ne avevano nemmeno parlato e Stefan non aveva idea di come Brian potesse prendere una simile rivendicazione. Aveva paura allo stesso modo della sua rabbia o del suo scherno, non ci teneva ad incrinare nulla nel loro rapporto, neppure quell’instabilità scivolosa su cui si fondava. Fingeva di prendere le cose con la medesima noncuranza distratta di Brian e provava fitte pungenti di gelosia ogni volta che lo vedeva scegliere qualcun altro per sparire assieme a lui o a lei.
Quel giorno, comunque, il cerchio aveva preso a girare dalla parte sbagliata.
Stefan si svegliò con la sensazione di qualcosa di pastoso e chimico in bocca. Si ricordò solo dopo qualche minuto delle “pilloline magiche” di quel tizio. Un tizio ordinario, dall’apparenza banale, un amico di Steve. Steve aveva detto a lui e Brian di stargli lontani, “non è raccomandabile”, aveva detto, uno di quelli che spacciano merda della peggior specie. Ma era stata un’idea di Brian, comunque. Si stava annoiando – Stefan sospettava fosse più che altro un attacco di panico mal mascherato, Brian aveva passato l’intera serata, prima dello spettacolo, a torturarsi le unghie fino a lasciare segni di graffi sui polpastrelli ed il palmo delle mani, si chiedeva ancora come fosse riuscito a suonare – e voleva provare qualcosa di nuovo. Il tizio ordinario aveva detto “o.k.” e poi “non c’è problema”. Aveva perfino sorriso e detto che per lui era gratis.
Stefan voleva andarsene, ma Brian, che civettava con il tipo senza alcun pudore, lo aveva trattenuto per un braccio e preteso che inghiottisse anche lui una di quelle dannate pillole. Gli si era seduto in braccio quando aveva detto di no, e avercelo addosso aveva sempre l’effetto di abbattere le sue barriere. Brian rideva e gli si strusciava contro mentre cercava a forza di spingergli in bocca la pasticca di LSD, alla fine aveva ceduto per il solo gusto di mordere le sue dita, trattenerle tra i denti, delicatamente, e succhiarle un po’, in un invito che lui aveva colto immediatamente.
Si erano ritrovati a baciarsi sul divano, la testa leggera già dopo pochi minuti che quello schifo entrava in circolo. Se Stefan avesse dovuto dire come erano riusciti ad arrivare a casa – se fossero saliti su un taxi o si fossero fatti accompagnare da qualcuno – non ne sarebbe stato in grado. Non ricordava nulla. Dal momento in cui quella merda aveva fatto effetto aveva un buco di ore che terminava con la sensazione chimica in bocca ed il peso del braccio di Brian sulle costole.
Si spostò appena, cercando per quanto possibile di non svegliarlo e fissando poi, con apprensione, il suo viso. La sensazione di malessere generale che avvertiva lo portava a preoccuparsi molto più delle condizioni dell’altro che delle proprie.
Brian gli dormiva contro il fianco, completamente nudo e raggomitolato su se stesso in una posizione che, con quel braccio attorno al suo petto, doveva risultargli immensamente scomoda. Il trucco era completamente impiastricciato, macchie disordinate di mascara e matita segnavano il suo viso regalandogli occhiaie talmente scure da apparire evidenti perfino nel sonno. Stefan gli accarezzò la guancia, sentendolo mugolare infastidito sotto il suo tocco. Tirò via la mano prontamente.
A quel punto pensò di rimettersi a dormire, magari la sensazione fastidiosa che aveva sul palato sarebbe svanita da sé, chiuse gli occhi ma solo per pensare, storditamente, che quel mattino avevano un appuntamento con un tizio che si era proposto qualche sera prima per fargli da manager.
Spalancò gli occhi contro il soffitto, voltandosi ansiosamente in direzione del comodino per accertare che erano le nove e mezza del mattino. Si sollevò a sedere, il braccio di Brian gli ricadde inerte in grembo e lui brontolò ancora, sollevando la testa in un groviglio arruffato di capelli e fissandolo malevolo da sotto le palpebre pesanti.
-Stef, che cazzo hai stamattina?!- ringhiò astiosamente.
Quando si raccolse su se stesso per accucciarsi ancora, lontano da lui, lo svedese provò di nuovo quella spiacevole sensazione di abbandono, ma la ignorò.
-Bri, dobbiamo alzarci. Faremo tardi…
-Tardi per cosa? Non me ne fotte un cazzo di fare tardi! – borbottò lui ottusamente.
-Brian, quel tizio ci aveva assicurato che poteva trovarci un ingaggio, ricordi? Uno vero, intendo.
-A te, invece, non fotte un cazzo di avere un ingaggio vero.- lo rintuzzò Brian aspro, sollevando il lenzuolo per nascondercisi sotto.- Ricordi?!- gli fece eco, cattivo – Da grande vuoi finire a vendere merdosi prodotti finanziari alla gente, proprio come quello stronzo di tuo padre prima di te. Fare i soldi, mettere su famiglia e far contenta la tua vecchia con una graziosa orda di piccoli e pulciosi mocciosi con la tua stessa faccia del cazzo.
Stefan non gli badò. Quando era di cattivo umore, Brian attaccava a trecentosessanta gradi. Il suo cinismo poteva raggiungere vette inenarrabili e colpire tutto e tutti senza preoccuparsi delle conseguenze. Anche se quello che usciva con più lividi da simili sfoghi ingiustificati era Brian stesso, la cosa non sembrava preoccuparlo abbastanza o, forse, quando si lasciava andare al pessimismo più nero non era semplicemente in grado di evitarsi di accompagnarlo a simili sentenze di condanna pronunciate a voce alta, stentorea, perché tutti potessero sapere esattamente cosa pensava di sé, degli altri e del mondo intero.
Lui, adesso, rise. Volutamente leggero, mentre si alzava dal letto e prendeva a vestirsi, costringendosi a muoversi con cautela ma con sicurezza nonostante sentisse ancora la testa leggera e le braccia e le gambe, in compenso, gli facessero male come se qualcuno lo avesse preso a pugni.
-Non penso di poterti impalmare e mettere “incinto”.- rispose allegramente.- E dubito, quindi, che mia madre o mio padre avranno mai i loro nipotini pulciosi da far scorazzare in giardino. Senza contare che non ho dato neppure un esame in tutto il semestre e perderò senz’altro l’anno.
Vide un occhio, ceruleo e rotondo, perfettamente sveglio, fare capolino da sotto l’angolo del lenzuolo. Le dita di Brian, con lo smalto nero scheggiato, trattenevano gli angoli bianchi di stoffa strettamente asserragliati attorno al viso ma quell’unico occhio aveva un atteggiamento conciliante ed appariva interrogativo, pieno di aspettativa. Si sforzò di non prestargli eccessiva attenzione per paura che tornasse a rintanarsi assieme all’altro occhio. Sedette sul bordo del materasso e, pantaloni ancora slacciati, cominciò ad infilare le scarpe.
-Mi sposeresti davvero, se fossi una donna?- sentì chiedere alla sua schiena.
-Chi non lo farebbe?- ritorse colloquiale.
Quella di Brian non era una manifestazione d’affetto e lo sapeva bene. Quando faceva domande simili - e le faceva spesso – era solo perché aveva bisogno di accertarsi che davvero qualcuno, chiunque, potesse sentire il desiderio di condividere la sua compagnia, potesse trovarlo necessario o anche solo interessante e volesse spartire con lui un pezzo di vita.
L’occhio sparì sotto il lenzuolo. Stefan infilò la maglietta e, quando tirò fuori la testa dall’altro lato, Brian era in piedi, nudo, e raccattava svogliatamente i propri vestiti in giro per la stanza.
-Ce la fai ad andare a casa a struccarti e raggiungerci in tempo?- s’informò Stefan pratico, mentre intascava le chiavi dell’appartamento e si tirava dritto.
Lui si limitò a stringersi nelle spalle in segno di assenso e lo svedese se lo fece bastare.
-Prendo Steve e ci vediamo in centro.- annunciò.
-‘k.
Si erano trovati solo davanti alla scrivania del tipo. Lui stava riempiendo la testa di tutti e tre di parole e sorrisi, Stefan aveva smesso di ascoltarlo da un certo punto in poi ed aveva passato il tempo a studiare il profilo di Brian, pulito dal trucco ed apparentemente concentratissimo su quanto gli veniva detto. Quando erano usciti, dopo aver firmato un foglio con clausole talmente piccole da sembrare macchie, Steve era scappato via subito e Brian aveva chiesto a Stefan se gli andava di accompagnarlo a lavoro.
Davanti al fast food in cui lavorava, il brunetto si era fermato, mani in tasca e faccia neutra, fissando l’ingresso del locale con un’espressione che Stefan credeva impossibile da decifrare.
-Un giorno voglio dimenticarmi di questo posto.- aveva detto Brian piattamente, senza nessuna partecipazione. E Stef aveva annuito senza sapere che fare. Brian non lo guardava, continuava a fissare il locale senza guardarlo davvero se non in una dimensione onirica e distante in cui, probabilmente, non era nemmeno un fast food, ma un porcile da cui andava e veniva una processione di maiali vestiti che si scambiava piacevolezze a voce alta, grugnendo alte risate come se tutto quello fosse sul serio divertente.- Non sarà mai accaduto.
-Non c’è nulla di male… - provò a dire Stefan, conciliante.
Brian lo guardò, mettendolo a fuoco con difficoltà. La bravata della sera prima aveva lasciato traccia su di lui conferendogli un pallore livido, innaturale, che rendeva i suoi occhi ancora più brillanti. Il cielo di Londra si era scurito fino a farli diventare grigi, ma pagliuzze di verde scintillante si accendevano sul fondo liquido di quel colore.
-Sai cos’è che c’è di male?- gli domandò appena. Stefan scosse la testa.- Fa male quando le ossa sporgono dalla carne. Non bisognerebbe mai essere esposti. E se hai un passato, sei sempre esposto.
***
La cocaina gli piaceva un sacco. Brian amava quella quasi quanto amava il trucco eccessivo, i complimenti pesanti, i vestiti da donna o le battute volgari.
Non era stato sempre così. Stefan faceva fatica a ricordarsi quando era stato diverso, ma c’era stato un periodo in cui era stato diverso.
Probabilmente prima che Steve se ne andasse. Sicuramente prima che firmassero il contratto con quelli della EMI.
Avevano firmato un cazzo di contratto con un’etichetta alternative di una major come la Virgin! Avrebbero dovuto essere fottutamente eccitati all’idea di iniziare a registrare un disco vero, in un vero studio di registrazione, con dei veri produttori. A Brian, però, sembrava importare meno di niente.
La cocaina. Quella sì che era diventata in fretta una cosa di cui preoccuparsi. E se non era cocaina andava bene anche erba o ecstasy. L’ecstasy era divertente, perché ti faceva sballare giusto quanto bastava a non sentirti troppo a disagio, come un po’ di bicchieri prima di una serata, ti scioglievi e via la tensione. A Brian serviva a tenere sotto controllo gli attacchi di ansia, quelli di cui non parlava a nessuno – nemmeno a Stef – e che lo facevano reagire istericamente a qualsiasi cosa e gli toglievano il sonno per settimane intere.
Da quando Steve li aveva mollati era andata sempre peggio, comunque.
Quello stronzo che aveva in mano il loro contratto se ne fotteva. Assecondava Brian in qualunque cazzata, diceva a Stefan che l’importante era che mantenesse la calma, che fosse giustamente euforico, moderatamente fuori controllo. Il resto, i giornalisti lo avrebbero etichettato come stronzate da rockstar ed i fan sarebbero impazziti pensando che fosse incredibilmente trasgressivo.
Per quel che riguardava lo svedese, gli dava fastidio. Non lo trovava né divertente quanto Brian sembrava consideralo, né utile in qualche modo. Era solo deleterio, e quando faceva tanto da assecondare l’altro e lasciarsi andare anche lui a consumare quello schifo, dopo stava talmente male che si riprometteva di piantarla lì e subito.
Poi non lo faceva.
Brian era trascinante. Il fatto che fosse solo uno spettro di quello stesso ragazzo bellissimo, ambiguo e cattivo che aveva incrociato la prima volta non bastava a togliergli nulla dello schermo di fascinoso carisma che portava cucito addosso. Ovunque andasse la gente lo amava, o lo odiava, ma nessuno gli restava indifferente e lui era costretto a dividerlo con sempre più persone.
Non erano ancora nessuno se non il giocattolo nuovo della propria casa discografica, ma già ruotavano attorno ad artisti di fama ed in mezzo a loro Brian si atteggiava con un misto di irriverente sfacciataggine, di impulsiva adorazione e di megalomania impudente. Un cocktail pericoloso che qualcuno, prima o poi, avrebbe inevitabilmente voluto assaggiare.
Lui, Stefan, non aveva diritti di sorta. Non poteva certo dire a Brian “questo sì, questo no” e quelle poche volte che ci aveva provato – esasperato, arrabbiato, egoista per una volta tanto – era stato aggredito con tanta ferocia da aver deciso che non ne valeva la pena. Rischiava solo di perderlo e non voleva che accadesse.
Per cui non fu stupito affatto quando il suo meraviglioso pavone dalla coda sgargiante riuscì ad attirare la propria vittima. Ingollò a fatica la battuta che il loro manager si concesse sul fatto che dare il culo a quello lì avrebbe significato cambiare tutto e sorrise, dello stesso sorriso falso che Brian sfoggiava ogni secondo, ad un altrettanto sorridente David Bowie, abbarbicato con un braccio attorno alle spalle troppo fottutamente magre del suo cantante.
***
 
“Prometti di trattarmi bene ed io ti tratterò bene, lo giuro”
 
(Unisex – Placebo)
 
Lo vede da lontano mentre se ne sta disteso a pancia all’aria, gli occhiali da sole sul naso. Sembra un moccioso in vacanza con gli amici, un ragazzino di quelli arroganti, che “se la tirano”, costume aderente firmato, occhiali da diva, faccino annoiato… Sbuffa un sorriso molto prima di accorgersene. Cammina a passo lento in direzione del lettino a bordo piscina e si piazza proprio davanti al sole, gettando su di lui una lunga ombra allampanata.
Lo vede storcere il naso in modo automatico. Solleva gli occhiali con due dita, appoggiandoli alla fronte, e gli scocca un’occhiata irritata.
-Stef, vai all’Inferno in quell’angolo laggiù, grazie.- lo invita aspro.
Lo svedese non fa una piega e non accenna a muoversi.
-Ho fatto un sogno stanotte.
-Sì, beh, a volte capita. Prova a parlarne con la mia psichiatra, magari ha qualche sonnifero da consigliarti.
-Ho sognato di noi.
-Oh, siamo in fase romantica, ma che carino!- scocca sarcastico.- Stefan, il sole!
-Ti ricordi quando mi hai fatto sentire “36 Degrees”?
-…no.
-Oh sì, che te lo ricordi! Hai sempre detestato quella canzone.- ride il bassista.
-Io non ho…! Oh, Cielo! ma che ti piglia stamattina?!
Si tira nervosamente a sedere, lasciando cadere le gambe giù dal lettino ed incrociando pazientemente le braccia al petto. Stefan ne approfitta per sistemarsi a sedere nello spazio lasciato libero.
-Prego, accomodati pure, sono così felice di vederti!- lo deride prontamente Brian.
-Brian, piantala.- lo zittisce Stefan affatto preoccupato.- Dovresti averlo capito che certi trucchi non funzionano più.
-Ci spero sempre.- sospira lui, arrendevole.- Sentiamo, hai sognato di me che ti facevo sentire “36 Degrees”.- riassume pazientemente.- Spero che tu ti renda conto che a stento ricordo di averla scritta, quella canzone.
-Non mi hai mai detto a cosa si riferiva.
-…ricordo a stento di averla scritta?- prova a ripetere Brian, sollevando le sopracciglia in un’espressione che spera eloquente.
Ma no, Stefan non intende assecondarlo quella mattina.
-Ogni tua canzone parla di qualcosa che ti riguarda. L’ho capito completamente solo dopo un po’.
-Non sono tutte mie.- gli rammenta spiccio.
-Sì, ma io parlo delle tue. Davvero non lo ricordi?
Brian sospira pesantemente, solleva lo schienale del lettino e ci si lascia cadere con le spalle, scrutandolo a lungo.
-Davvero vuoi saperlo?- indaga.
-Forse.
-Parlava di un ragazzo per cui avevo una cotta spaventosa al liceo.- ammette Brian in tono piano.- Non se n’è mai accorto, ma nella mia testa era tutta un’altra storia. È stato solo quando sono andato via, sono andato a Londra, che ho capito davvero che quella storia non era mai esistita. E poi, boh…ad un certo punto potevo dirlo a tutto il mondo e non sarebbe cambiato nulla perché ero ancora vivo.
-Chi era?
-Non ne ricordo nemmeno il nome. Banale, no?
-Sì.- ammette Stefan con semplicità.
-Ma perché me lo chiedi adesso?
-Perché ho fatto un sogno.- scrolla le spalle Stefan.
-Sai che la donna che faceva le pulizie in ufficio da mio padre diceva sempre che se sogni di qualcuno gli allunghi la vita?!- ricorda Brian all’improvviso, rivestendo quella notizia di un’eccitazione eccessiva.- Mia madre, quando io e Barry ripetevamo certe cose, ci diceva che erano stupide superstizioni e che avremmo dovuto confessarci anche solo per averle dato ascolto.
-E “Unisex” di cosa parla?- chiede invece Stefan, senza nessun legame con il discorso dell’altro.
Lo spiazza, ma sapeva che sarebbe successo. Brian lo fissa con sguardo sottile, soppesandolo.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora, da quando erano due ragazzini che ipotizzavano in una mansarda la possibilità di diventare musicisti. Non ci avevano creduto, nessuno dei due. Per un verso o per l’altro, Stefan sapeva che ne avevano parlato senza pensare che potesse accadere.
Ora, alle loro spalle, c’è il profilo massiccio ed un po’ anonimo di un albergo extralusso posizionato da qualche parte sull’equatore, un cameriere, in livrea nonostante il caldo asfissiante, serve cocktail in bicchieri di cristallo a bordo piscina e ragazze bellissime, con costumi microscopici, cercano inutilmente di attirare la loro attenzione.
-Perché dovrei dirtelo?- lo sente domandare, sornione come non lo vedeva da tempo.
Ricambia il suo sorriso.
-Non puoi mica promettere a tutti di affrontare assieme la fine del mondo.- afferma volutamente pretenzioso.
Brian ride, in modo genuino, e la malizia che gli rivolge non è affatto cattiva ma solo l’eco di un gioco che condividono da troppo tempo, ormai.
-Tesoro,- lo chiama, ironico e scanzonato, sublime nel suo essere allusivo ed insinuante - solo a te potrei dire di stare tranquillo mentre succede.
-Ti sbagli, Brian,- lo corregge Stefan tranquillamente.- potresti dirlo a chiunque.
 
“Role-playing Game”
MEM – 2012
 
Nota di fine storia della Nai:
 
Questa roba, come attesta la datazione, esiste da un botto di tempo ma l’ho sempre considerata troppo inconcludente per postarla.
Così ho deciso che poteva arrogantemente attribuirsi il compito di fungere da regalo – ritardatario – per il compleanno di Stef, che ha compiuto i suoi primi, gloriosi 40 anni il 31.03.2014.
Augurandogli di compierne otto volte tanti e di farlo vivendo una vita stupenda e ricca di felicità e soddisfazioni, vi saluto. Spero vi siate divertit.
MEM
  
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