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Autore: Soe Mame    03/04/2014    1 recensioni
Sì, ci sarebbe riuscito.
Avrebbe svolto il suo ruolo in modo impeccabile, avrebbe onorato la parola data da Gakupo ai signori e non avrebbe mai più fatto alcun pensiero sulla signorina Len.
Sì, ci sarebbe riuscito, per tutti e sei i mesi.
Era spacciato.
Genere: Angst, Demenziale, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gakupo Kamui, Kaito Shion, Len Kagamine
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Auguri e figli maschi!

- Madre! Madre! -
Si fermò, con il fiatone, il cuore leggero che batteva forte.
Sua madre alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo. Un sorriso stanco apparve sulle sue labbra.
- Guardate! Come sto? -
Fece una piroetta, sentendo gli strati soffici della gonna alzarsi appena, per poi tornare ad accarezzare le gambe.
Il sorriso di sua madre si accentuò appena: - Sei bellissima, Len. -.

Quale coppia non sarebbe felice di un erede maschio?

"Con questo vestito, sono la più bella di tutte."
Con noncuranza, Len bevve il suo the, cercando di non lasciarsi sfuggire sorrisi soddisfatti nel notare le altre bambine ammirare il suo nuovo vestito.
Completamente bianco, con le maniche a sbuffo e la gonna vaporosa, con delle scarpette bianche in coordinato.
- Oh, Lady Len, sembrate un angelo! - sospirò la tata, intenerita.
Len abbassò lo sguardo, accennando ad un sorriso timido.
In cuor suo, non si sentiva affatto intimidita o imbarazzata - tutt'altro: le piacevano i complimenti, soprattutto se riguardavano la sua bellezza o i suoi vestiti. O entrambi.
Sentiva il cuore diventare più grande, più leggero, e battere più veloce, riempiendola d'orgoglio.
Udì la tata fare complimenti anche alle altre bambine. Ma era palese che stesse solo fingendo - i complimenti rivolti a lei erano senza dubbio i più sinceri.
- Allora, care. - la donna sorrise, benevola: - Cosa volete fare, da grandi? -
- Io voglio sposare un uomo bello e buono! - esclamò una bambina, con un gran sorriso.
- Io voglio diventare una brava mamma! - le fece eco un'altra, gli occhi che brillavano: - E una signora bella e rispettabile! -
- Io voglio avere i capelli lunghissimi! Così potrò acconciarli come voglio! - trillò una terza bambina, che le sembrava chiamarsi Caroline.
- Io sono già fidanzata! - s'intromise un'altra, gonfiando il petto, fiera.
Un "Oooh" ammirato si alzò dal tavolino rotondo, cosa che non fece altro che compiacerla visibilmente.
Len provò una punta d'invidia: quella ragazzina - qualunque fosse il suo nome, non ricordava - aveva le lentiggini, le guance troppo rotonde ed era più che sgraziata nei movimenti.
"Perché io non sono ancora stata promessa a nessuno?"
Socchiuse gli occhi, nascondendo le labbra e parte del viso dietro la tazzina da the, fingendo di bere.
- Come sei fortunata, Jolene! -
"Ah, Jolene." rimise la tazza sul piattino: "Non sperare mi ricordi il tuo nome.".
- Anch'io vorrei essere fidanzata... - piagnucolò la bambina al suo fianco.
- Su, su, Lady Florrie... - sorrise la tata: - Sicuramente anche voi vi fidanzerete. E sarà senz'altro con un uomo bello, gentile e ricco. -
- Lo credete davvero? - Florrie tirò sul col naso, come una bambina di due anni.
A differenza di Jolene, però, aveva un aspetto tenero. Forse avrebbe potuto ricordare il suo nome.
- Ma certo! - rispose la donna, facendo sorridere la più piccola.
- Beh... - esordì Len, pacata: - ... è ovvio che ci sposeremo tutte. Essere fidanzate o meno a quest'età è irrilevante. -
Percepì lo sguardo irritato di... aveva già dimenticato il suo nome. Jocelyn?
- Questo è certo, Lady Len. - sorrise la tata: - Voi cosa volete fare, da grande? -
- Quel che desidera qualsiasi brava signorina. - si tirò indietro una ciocca bionda, con fare vanitoso: - Sposare un uomo bello d'aspetto e d'animo, dal solido patrimonio e dargli tanti figli. -
Quel pensiero le fece battere il cuore ancora più forte.
Le sfuggì un sorriso, sentì le guance farsi più calde.
- Io ho già deciso! - trillò la prima bambina: - Voglio dodici figli! -
- Anch'io dodici! - esclamò quella al suo fianco: - Però dodici maschi e dodici femmine! -
- Come sei esagerata, Grace! - rise quella che doveva chiamarsi Caroline.
- Li farò! - disse Grace, la voce e lo sguardo decisi.
- Io non ne voglio tanti... - pigolò Florrie: - ... in famiglia siamo già in undici ed è faticoso stare dietro a tutti. Quindi mi accontenterò di dieci bambini. Sette maschi e tre femmine. -
- Io devo farne tanti. - fece Len, sorridendo all'idea: - Mia madre ha avuto soltanto me, quindi devo fare figli anche per lei! -
- Beh, le donne della vostra famiglia hanno mostrato di essere molto prolifiche. - sorrise la tata, mentre un paio di bambine squittivano: - Le vostre probabilità di avere molti figli sono davvero alte! -
Stavolta, Len era imbarazzata davvero.
Essere una moglie devota e una madre amorevole.
Era quello il sogno di ogni giovane e lei non faceva certo eccezione.
Voleva crescere in fretta, diventare la più bella tra le donne, così da essere chiesta in sposa da un uomo perfetto, abitare in una grande casa e avere intorno tanti figli e figlie.
Non aveva alcun problema per le doti, sapeva di essere ricca, avrebbe potuto fare tutte le figlie femmine che voleva - dato il fatto che, per quanto prolifiche, tutte le sue zie e sua madre stessa avevano partorito bambine, con il solo caso isolato di suo cugino Oliver.
"Voglio sposarmi con un abito giallo." aveva già deciso: "E voglio che anche mio marito sia vestito di giallo, il giorno del nostro matrimonio. E voglio tanti addobbi gialli. E tanti dolci alle banane. E i miei figli avranno culle gialle. I vestiti no. Quelli devono essere più vari, altrimenti sarebbero noiosi.".

- Avrò un fratellino! -
Len e le altre rimasero a bocca aperta; Caroline stava indicando loro sua madre, seduta sul divanetto assieme alle altre madri e alla tata, che discutevano di chissà cosa: una signora non bellissima ma di gradevole aspetto, senz'altro elegante, con una vistosa curva all'altezza della pancia.
- Che fortuna... - sussurrò Audie, lo sguardo fisso sulla donna.
- Anch'io voglio un fratellino! - esclamò Grace, portando una mano alla bocca: - Chissà se mia madre vuole farmene uno... -
- Io vorrei una sorellina! - fece Florrie.
- Quindi anche noi saremo così...? - le parole di Jocelyn attirarono l'attenzione su di lei.
Len sgranò gli occhi: "... è vero..." si portò una mano al ventre, piatto: "... anche a noi ci si gonfierà la pancia come alla mamma di Caroline?".
Coprì la mano con l'altra.
Sorrise, il cuore che le batteva forte: "Voglio diventare grande! Così potrò sposarmi! Chissà com'è avere un bambino nella pancia...".
Ci pensò un istante.
"... in effetti, da dove esce...?" aggrottò la fronte: "Forse tagliano la pancia?". Piegò appena la testa di lato: "Uhm... dovrò chiedere a mia madre.".
Lo fece, una volta tornata a casa.
Sua madre accennò ad un sorriso, le accarezzò la testa e le rispose: - Lo saprai quando sarai grande, Len. Ora non è necessario che tu lo sappia. -
Len gonfiò le guance, indispettita: odiava quella risposta. Quel "quando sarai grande" sembrava una scusa per non dirle niente - e non era la prima volta che lo sentiva, anzi.
- Ho sette anni! Sono grande! - protestò, il sorriso che non svaniva dal volto di sua madre.
- Te lo dirò quando ne avrai tredici. -
- Eh? Perché? Perché? Madre! Io sono grande già adesso! Sono adulta! -
- E' ora del bagno, Len. -
- No! Non voglio! Voglio andare a giocare con Florrie e le altre! -
- Avete giocato fino ad ora, Len. -
- Non è vero! - si fermò: - O meglio, sì, è vero. Ma voglio giocare ancora! -
Sua madre rise. Ossia, accennò ad una risata leggera, quasi impercettibile.
"Chissà come mai non ride come le altre mamme." pensò Len, perplessa: "Eppure lei è più bella di tutte loro..."
In quel momento, le venne in mente una domanda: - Madre... -
- Sì, Len? -
- Io sono bella? -
Lei la guardò, gli occhi appena più aperti del solito. Annuì, visibilmente confusa: - Certamente, Len. Si vede già da ora che diventerai una donna splendida. - - E allora... - non riusciva a capire: - ... perché bambine come Jocelyn sono già fidanzate mentre io no? -.
Sua madre non rispose.
Sembrava essersi bloccata, con quella stessa espressione.
Len sbattè le palpebre, in attesa.
Finalmente l'altra sembrò tornare in vita: - Non si chiama Jolene? -
- Quella là. -
- Che modi rudi, Len. -
- Allora? -
Sua madre sospirò, chiuse gli occhi, lentamente. Quando li riaprì, il suo sguardo era quasi vitreo: - Vedi, Len... tu puoi permetterti il meglio del meglio. Puoi farlo per la tua dote, ma anche per la tua bellezza. Quando sarai un po' più grande, saranno gli stessi giovani a farsi avanti. Solo allora vedremo chi di loro sarà più meritevole. -
Len piegò la testa di lato, poco convinta, un sopracciglio alzato.
Sua madre le accarezzò una guancia: - La piccola Lady Jolene non ha le tue stesse qualità. Probabilmente, i loro genitori hanno un qualche profondo legame di chissà quale tipo con la famiglia del futuro sposo. O forse temono che nessuno la vorrà. -
- Può succedere? - chiese Len, con una nota di timore: non era ovviamente il suo caso, ma l'idea di non essere voluta...
La donna annuì: - Capita alle donne più rozze o povere, quelle donne che non hanno proprio nulla da offrire. - di nuovo quel sorriso accennato: - Le donne che sono l'esatto contrario di ciò che sarai tu, Len. Tu non hai nulla da temere. -.
Messa sotto quella luce, la cosa aveva un suo senso.
Si sentì ancora più fiera di sé: "Non devo essere invidiosa dei fidanzati delle altre!" si disse, le labbra che si curvavano verso l'alto: "Dovrò aspettare, ma il mio sarà il migliore di tutti! E io sarò la sua degna sposa! Anzi..." ci ripensò: "... lui sarà il mio degno sposo!".

- E' questa la cosa importante. - ricapitolò la tata, seria: - Il vostro onore è strettamente collegato alla vostra virtù. E la virtù di una giovane è strettamente collegata al suo corpo. -
Len - e, ne era sicura, anche le altre - arrossì nell'udire di nuovo quel riferimento al corpo. Era una discussione imbarazzante.
- Il corpo di una giovane sposa appartiene solo al suo sposo e a nessun altro, per nessuna ragione. - ripeté la donna, forse per metterle ancora più a disagio: - Una fanciulla che si lascia trascinare dalla lussuria è una donnaccia senza onore. Ormai state diventando grandi ed è bene che sappiate che, purtroppo, molti giovani sono senza scrupoli e non si fanno alcun problema nel compromettere anche la più rispettabile delle fanciulle, solo per capriccio. -
Il cuore le batteva forte, lo sentiva nelle orecchie, le guance andavano a fuoco. Faticava a guardare la tata.
- Non rimanete mai da sole con dei giovani. Assicuratevi sempre che ci sia qualcun altro o, se proprio non è evitabile, che egli sia un uomo serio e responsabile. Non cedete alle lusinghe che vi vengono fatte. Se hanno intenzioni serie, chiederanno la vostra mano. Difendete la vostra verginità e donatela solo al vostro sposo. Badate bene, non "fidanzato". "Sposo". E' un enorme disonore commettere atti impuri prima del matrimonio. E, anche quando vi donerete completamente a lui, sarà solo per procreare. Non lasciatevi sedurre dalla lussuria soltanto perché l'uomo con cui dividerete il letto sarà il vostro sposo. -.
Nessuna osò commentare.
La tata l'aveva ripetuto due volte di fila, forse per assicurarsi che capissero bene - o per vedere chi, tra loro, sarebbe stata la prima a morire d'imbarazzo.
"Il corpo di una donna è sacro, la sua purezza è la sua verginità." Len avvampò: "Le donne rispettabili non pensano a cose lussuriose. Le donne rispettabili sono angeli che pensano solo alle cose pure della vita, ossia la famiglia. Se devono donare la verginità, è per fare figli." ripeté, tra sé e sé, il cuore che esplodeva, la pelle che andava a fuoco.
Non riusciva ad alzare lo sguardo.
Aveva da poco compiuto dieci anni, stava cominciando ad abbandonare l'infanzia per diventare una donna e sapeva che quelli erano avvertimenti a cui avrebbe dovuto dare ascolto.
Soltanto, il pensare al... a tutto ciò che era legato alla sua verginità la metteva a disagio. Terribilmente a disagio.
"Un attimo..." quell'idea la colpì all'improvviso: "Ma, io, ora... pensando al fatto che non devo pensare a... sto pensando a..."
Si portò le mani alle guance, sentendole roventi: "N-no, i-io non sono... io sono una fanciulla rispettabile! Io non penso a questo genere di cose! No! Non lo sto affatto facendo!".

- Audie! Audie! Cos'è successo? -
Len e Grace la raggiunsero: aveva gli occhi sgranati, il colorito pallido, quasi avesse visto la cosa più agghiacciante del mondo.
- Ho... ho... - Audie si coprì gli occhi, si strinse nelle spalle: - ... ho visto un amico di mio fratello in camicia! -
Len si portò le mani alla bocca, sentì le guance riscaldarsi: - I-in camicia...? - farfugliò.
Audie annuì.
- Lo sa qualcuno? - pigolò Grace, il volto rosso.
Audie scosse la testa: - N-non mi hanno vista, c-credo... -
- Vai a confessarti, presto! - esclamò Grace, scuotendola per una spalla.
Audie annuì: - S-sì... Vado subito... -
Corse via, straordinariamente veloce.
Grace rimase a guardarla mentre spariva all'orizzonte, gli occhi lucidi.
Len era senza parole: "Che... che svergognato! Andarsene in giro in camicia pur sapendo che nella casa c'erano delle donne! Che grandissimo buzzurro! Il fratello di Audie dovrebbe rivedere le sue amicizie!" scosse la testa, cercando di scacciare dalla mente qualsiasi pensiero legato alle camicie: "Un uomo in camicia... in camicia! Povera Audie! E che sporco esibizionista lussurioso!".
Si ripromise di impedire al proprio marito di andare in giro in camicia. Avrebbe sempre dovuto portare almeno il panciotto o la giacca, non ci sarebbero state scuse.

C'era un regola silenziosa secondo cui, una volta sfuggiti allo sguardo degli altri, fosse possibile fare qualsiasi cosa senza essere giudicati, nella più completa libertà.
"Entro le mura domestiche", dicevano.
Per Len, il "luogo di libertà" era la sua camera.
Non era tanto il suo essere una delle più grandi dell'intera casa, né il suo essere tanto luminosa, bianca e giallo chiarissimo, né l'avere un letto grandissimo e morbido: ciò che rendeva quella stanza speciale era lo specchio.
Uno specchio alto circa un metro e mezzo, largo abbastanza da mostrare comodamente la sua figura esile; non aveva cornici, era un semplice rettangolo a pochi passi dalla finestra.
Len non tirava mai le tende, neppure quando pioveva o il cielo era coperto: voleva vedere i raggi di luna entrare nella camera, illuminarla, per poi infrangersi sulla superficie dello specchio. Anche quando era tutto nuvoloso, sperava sempre che qualche piccola luce potesse arrivare fin lì.
Quello era il suo momento preferito: il momento in cui poteva essere libera di dire e fare ciò che voleva, di parlar male di chi le stava antipatico, di parlar bene di chi trovava simpatico, di pavoneggiarsi, di indossare quei vestiti "troppo belli" che poteva mettere di rado per evitare di rovinarli, oppure di improvvisare dialoghi con la regina o con qualche gentiluomo.
Oppure poteva osare.
O meglio, controllare. Erano "controlli" quelli che faceva.
Non le veniva gran bene farli durante il bagno, con quell'irritante camiciola e le servitrici che le torturavano i capelli.
Quindi le capitava di controllare. Magari c'era la possibilità di diventare donna prima delle altre. Magari sarebbe potuta diventare come sua cugina Lily - di cinque anni più grande, che poteva vantare un bel seno della giusta misura, grande abbastanza da essere affascinante ma non tanto da essere volgare.
Del resto, anche sua madre aveva delle belle forme. Quindi aveva tutto il diritto di controllare di essere meno piatta del giorno prima.
A volte si azzardava a controllare anche ciò di cui avrebbe dovuto dimenticare l'esistenza.
Ma ogni parte di sé era sempre uguale.
- Madre! Quand'è che sarò come voi? -
- In che senso, Len? -
Arrossì. Si portò le mani al petto, sfiorando appena la stoffa del vestito, sperando che sua madre capisse.
Evidentemente sì, perché le sue guance si fecero appena più rosse, i suoi occhi più lucidi: - Beh... tra qualche anno, Len. Ci vorrà ancora un po'. Alcune diventano donne più tardi delle altre, sai? - le accarezzò il viso, con un sorriso accennato.
"Più tardi..." si era ripetuta Len, pensierosa: "... quanto più tardi...?".
Voleva partecipare ai balli degli adulti, indossare quei vestiti elaborati che aveva visto su tante signore, voleva sposarsi e avere figli. Finché fosse rimasta così minuta, non avrebbe potuto fare niente di tutto quello - o anche solo essere presa sul serio.
Ad esempio, quando parlava con la sarta, quest'ultima finiva sempre per farle un vestito molto più semplicistico di quello che lei aveva chiesto.
Oppure, quando chiedeva delle scarpe con il tacco, le rifilavano delle scarpette con un minuscolo tacco di due centimetri.
Aveva la vaga impressione che la considerassero ancora una bimba di quattro anni, anche se non lo era più da un bel pezzo.
Il fatto che il suo dottore fosse ancora un uomo ne era la conferma. Cominciava a trovare le visite davvero imbarazzanti e sconvenienti. Tanto più che, nell'ultimo periodo, si erano intensificate, quasi a volerle fare dispetto.
- Stai crescendo, Len. - le aveva spiegato sua madre: - Sei una fase delicata e lui è il dottore che ti ha sempre seguita. -
"Sto crescendo solo quando è conveniente a loro.".
Ancora, il suo precettore era un uomo.
D'accordo, era un signore attempato e noiosissimo, quindi non era sicura valesse. E poi, anche le altre bambine, tranne Florrie, avevano un precettore uomo. Quindi, forse, quello non valeva davvero.
- Madre! Madre! Portatemi a fare compere con voi! -
Negli ultimi mesi, era riuscita a convincere sua madre a portarla in paese a fare compere. O meglio, a farle da accompagnatrice, visto che era sua madre a comprare le cose interessanti.
Era così che Len aveva potuto vedere ciò che avrebbe dovuto indossare di lì a qualche tempo - si sperava il prima possibile.
"Come sono stretti..." notò, osservando dei corpetti dalla vita particolarmente sottile. Spostò lo sguardo su quelli accanto: "Ah, ecco, questi sono già più larghi...".
Continuò ad esplorare la merce, soffermandosi su ogni cosa nuova: "Le calze da adulta... come sono lunghe..." sorrise: "Chissà se diventerò così alta anch'io? Ah!" sgranò gli occhi: "Quelle sono giarrettiere? E quelli reggicalze?" giunse le mani, soddisfatta nel ricordarsi i nomi.
Una pila bianca, all'apparenza soffice, attirò il suo sguardo: "E quelli?" si avvicinò, incuriosita: "... mutandoni...?". Inarcò un sopracciglio.
Ce n'erano decisamente di ogni tipo: a poco più di metà coscia, al ginocchio, addirittura fino alla caviglia, con più o meno pizzo, bianchi tanto da accecare o di un rosa delicato e-
"Ma questi...?" rimase a bocca aperta, allibita: "... sono aperti...?"
- Cos'hai visto, Len? - la voce pacata di sua madre la scosse dai propri pensieri.
La guardò, probabilmente doveva avere un'espressione scioccata: - Madre... questa biancheria è aperta...? -
- Oh, sì. - sua madre non mostrò il benché minimo imbarazzo.
"Ma...! Sono mutandoni aperti! Hanno un taglio lungo tutto il cavallo! D'accordo che starebbero sotto strati di gonne, ma...!"
- E' per... - la donna abbassò ancora di più la voce, avvicinandosi al suo orecchio: - ... i bisogni fisiologici. Per fare in fretta. -
Len rabbrividì al solo pensiero: "D'accordo... però..." si allontanò da quei cosi più in fretta possibile: "... con quale coraggio una donna indosserebbe dei mutandoni aperti?" sentì le guance farsi più calde: "Se non ci fosse nulla, forse magari andrebbe probabilmente pure all'incirca bene, ma con tutte quelle cose che pendono...?".
Scosse la testa, scacciando quei pensieri impuri. Si passò le mani sulle guance, sperando che la proprietaria del negozio non si fosse accorta di niente.
Tornò a guardare le sottovesti, le calze, le giarrettiere e i reggicalze, ben più interessanti e nettamente meno disturbanti.

Non riusciva a dormire.
Si era rigirata nel letto probabilmente per ore, ma non era riuscita a prendere sonno.
Forse era colpa del cambio di stagione - del resto, non c'erano più le mezze stagioni ed era noto che si stava meglio quando si stava peggio.
O forse, semplicemente, quella mattina non avrebbe dovuto scacciare la signora Tod, venuta a svegliarla, per poi presentarsi sveglia dopo pranzo.
Tuttavia, agli attacchi di pigrizia non si poteva comandare e lei si era semplicemente lasciata cullare dal torpore delle coperte.
E ora ne stava pagando le conseguenze.
Con uno sbuffo irritato, si era alzata dal letto, per poi andare a fare una passeggiata per la casa.
Era già almeno la decima volta che si avventurava per la magione in piena notte, senza candele, per non farsi vedere; per non andare a sbattere, la luce che filtrava dalle finestre nel corridoio, per quanto debole, era abbastanza.
Tra l'altro, muovendosi rapidamente e approfittando degli angoli dell'edificio, era anche possibile non farsi vedere dai servitori di ronda; Len stessa ebbe modo di constatarlo quando, appiattita contro un angolo buio, passò inosservata agli occhi di un cameriere sulla trentina - di cui non riusciva a ricordare il nome.
Inoltre, come se già il tappeto non attutisse i passi da solo, Len era scalza.
Non le era mai piaciuto indossare calze, la notte. Così come odiava farsi le trecce o mettere la cuffietta.
Fino a qualche anno prima la obbligavano, poi aveva imparato a sorridere, annuire e sfilarsi tutto una volta rimasta sola.
Però indossava la vestaglia.
Non voleva che qualche servitore uomo, giovane, la vedesse con solo la camicia da notte. Sarebbe stato terribilmente sconveniente, oltre che imbarazzante.
Non era sicura che non sarebbe scappata in preda al panico, in maniera molto poco dignitosa.
Si stiracchiò, traendo un respiro profondo: la casa, di notte, aveva un certo fascino. C'era una tranquillità molto simile a quella della sua camera, sempre a quell'ora.
Certo, sarebbe volentieri rimasta a chiacchierare con se stessa, ma il cielo era piuttosto nuvoloso e lei era poco ispirata.
Di solito, le servivano almeno tre giri della casa per riuscire a prendere sonno.
"Non c'erano neppure le banane, in cucina..." sospirò, sconfortata: "... o meglio, sono sicura ci fossero. Però la signora Smith le ha nascoste per non farmele mangiare. Lo so." gonfiò le guance, indispettita: "Perché non vuole che mangi le banane? Non mi fanno male, neppure a quest'ora! La verità è che le vuole tutte per lei, lo s-"
Si bloccò.
Aveva sentito uno strano rumore, un tonfo sordo, poco più avanti.
Deglutì.
Si strinse nella vestaglia, iniziando a sentire uno strano freddo.
"... cos'era...?" forse sarebbe dovuta tornare indietro. Fare il giro. Chiamare qualcuno.
Un altro tonfo.
Trasalì.
"Cosa...?"
Le gambe si mossero da sole, in avanti. Era pronta a scappare o urlare, se necessario. O entrambe.
Rallentò il respiro, cercando di sentire più rumori, di individuare la provenienza di quel suono; cercò con lo sguardo una qualsiasi cosa fuori posto, fosse anche una persona.
Rabbrividì al pensiero.
Poi la vide: due camere più avanti, una porta era socchiusa.
Len esitò.
"Cosa faccio...?"
Ebbe appena il tempo di chiederselo: la curiosità ebbe la meglio, muovendo le sue gambe verso la porta semiaperta.
Un altro tonfo.
Decisamente, qualsiasi cosa fosse, proveniva da dietro quella porta.
"Uno spiraglio...?"
Uno spicchio largo appena quattro dita, ma abbastanza per poter sbirciare all'interno.
Esitò di nuovo, il cuore che le batteva forte contro il petto. Appoggiò una mano al muro, avvicinando il viso allo spiraglio.
Poi le sue orecchie captarono altri suoni: "Sono... voci?"
Ma erano strane.
Non sembrava stessero parlando.
I battiti stavano iniziando a coprire quelle voci.
Accostò il viso al legno e guardò dentro la camera.
C'era qualcuno lì dentro, sì.
Due persone, una sopra l'altra.
Sul letto.
Len si sentì andare a fuoco: "Ah... possibile che...?"
Un uomo, una donna.
Le voci appartenevano a loro.
Anche i tonfi li stavano causando loro.
Quasi distrattamente, Len notò dei vestiti sparpagliati sul pavimento, sulla sedia, sul comodino.
Le lenzuola erano state gettate in fondo al letto, riusciva a vedere ogni centimetro di pelle nuda dei due amanti.
Sarebbe dovuta scappare, lo sapeva.
Fuggire e dimenticare ciò che aveva visto, anzi, fuggire e andarsi immediatamente a confessare il giorno successivo.
Ma le sue gambe non si muovevano.
Il suo intero corpo si rifiutava di muoversi.
Gli occhi erano sgranati tanto da fare male, fissi sui corpi di quell'uomo e di quella donna, forse ipnotizzati.
C'era curiosità, una curiosità che la bloccava lì, ansiosa di vedere di più, di sapere di più; c'era la pudicizia, soffocata, che le aveva vagamente suggerito di scappare, che le aveva imporporato le guance e riscaldato il corpo più del dovuto.
Lo sguardo continuava a correre lungo quei profili: lungo i pettorali dell'uomo, il seno della donna, le loro labbra, le loro braccia, i loro fianchi e-
E-
E-
Il sangue si ghiacciò nelle vene.
Le gambe tremarono.
Quello sopra era un uomo. Quella sotto era una donna.
Gli uomini erano come lui. Le donne erano come lei.
Gli uomini avevano le spalle larghe, il petto forte; le donne avevano i fianchi rotondi, il petto morbido.
Lo sapeva, le forme si intravedevano da sotto gli abiti.
E allora perché...?
"... perché quella donna non è come me...?" indietreggiò, sentì qualcosa premerle contro la gola, stringerla in una morsa, soffocandola: "... perché quell'uomo è come me...?"
Sentì qualcosa contro la schiena.
Il muro.
Scosse la testa.
"No..."
Scosse la testa.
"No..."
Si portò le mani al petto.
"No..."
Le mani tremavano.
"Non..."
Le labbra erano congelate.
"Io sono..."
Un altro tonfo.
Strinse i denti, soffocò un urlo.
Voleva urlare.
Voleva urlare.
Voleva urlare.
Voleva urlare.
Voleva urlare.
Corse via, costrinse le sue gambe, fino a sentire dolore. Quando si accorse di essere arrivata alla propria camera, vi si gettò dentro, richiudendosi la porta alle spalle con violenza - voleva sentire il suono rimbombare per i corridoi, voleva sentirla spezzarsi, voleva sentire la maniglia saltare via, voleva sentire le schegge colpire i vetri del corridoio, riempire i tappeti.
Si strappò la vestaglia di dosso, si liberò della camicia da notte e della biancheria, afferrò i lati dello specchio, guardò il riflesso azzurro dei suoi occhi.
Erano completamente spalancati, quasi folli, i denti scoperti, il respiro troppo veloce - eppure, per quanto cercasse di prendere aria, si sentiva soffocare lo stesso.
Quei corpi tornarono davanti ai suoi occhi, nitidi, come se li stesse ancora guardando.
Il corpo sinuoso della donna, quel corpo che somigliava così tanto a quello di sua madre, di sua cugina Lily.
Il corpo massiccio dell'uomo, quel corpo che somigliava così tanto a quello di suo padre.
Il corpo di donna che avrebbe avuto, sì, l'avrebbe avuto, avrebbe avuto quelle forme morbide, i fianchi rotondi e il seno, era così, perché lei era una donna.
Passò una mano sul petto, piatto.
Scese lungo la pancia, fino alle gambe.
Quel corpo bianco nello specchio non era il corpo di una giovane donna.
Quel corpo bianco nello specchio era il suo.
I polpastrelli erano ghiacciati.
Gli occhi erano rossi.
Le guance erano bagnate.
Gridò.
Gridò con tutta l'aria che aveva nei polmoni, anche a costo di soffocarsi.
Si sentì bruciare.
- Madre... -
- Sì, Len? -
- Io sono bella? -
- Certamente, Len. Si vede già da ora che diventerai una donna splendida. -

Le gambe parvero cedere, si aggrappò allo specchio con entrambe le mani.
Riprese fiato, il respiro spezzato dai singhiozzi.
- Vedi, Len... tu puoi permetterti il meglio del meglio. Puoi farlo per la tua dote, ma anche per la tua bellezza. Quando sarai un po' più grande, saranno gli stessi giovani a farsi avanti. Solo allora vedremo chi di loro sarà più meritevole. -
Strinse i denti.
Guardò il ragazzo nello specchio, lo guardò con l'odio che non aveva mai davvero provato, quasi cercando di distruggerlo con gli occhi.
Serrò la presa sullo specchio.
- Lady Len Mirror. -
Un boato risuonò nella sua testa, nella stanza, una pioggia di vetri delicati che andavano in frantumi.
Il pavimento scintillava, ricoperto di diamanti di tante forme e dimensioni, che catturavano scorci di camera, di lei, moltiplicando quella singola immagine per mille, milioni.
Lo specchio era a terra, in una miriade di pezzi.
Len inspirò, cercò aria, non riuscì a trovarla.
Vide un occhio azzurro, in un frammento.
Lo calpestò, sentì le punte conficcarsi nella pianta del piede.
Premette, incurante del dolore.
Un altro occhio azzurro.
Un braccio.
Una gamba.
Una ciocca di capelli.
Il suo corpo in mille pezzi, in milioni di pezzi, sotto i suoi piedi.
Lo calpestò, sentì qualcosa di bagnato e viscido sotto i piedi. Non se ne curò.
Calpestò.
Calpestò.
Calpestò.
"Io..."
Calpestò.
Calpestò.
"Io..."
Sentì qualcosa premergli all'interno della gola, che cercava di uscire.
Non lo trattenne.
Sentì i polmoni riempirsi, le guance tirare, una risata che riempiva la camera.
Abbassò lo sguardo, incontrò i suoi occhi in due pezzi dello specchio. Li calpestò.
"Ogni cosa..." inspirò, espirò, inspirò: "... ogni cosa era falsa."
- SIGNORINA! -
La porta si spalancò. La voce della governante, agitata.
Len alzò lo sguardo, piano.
Si scostò le ciocche bionde da davanti agli occhi, sentiva le guance tirare ancora.
- ... signorina...? - l'espressione della donna era inquietata.
Len sentì il petto, le spalle scuotersi.
Una risata leggera.
- Sono una signorina...? - piegò appena la testa di lato, la voce usciva candida: - ... quindi anche il vostro corpo è come il mio...? -
La governante non rispose.
Era impallidita.
Len sorrise: - ... lo prendo per un no. -.
- Signorina, siete completamente svestita! - la donna raccolse la vestaglia da terra, con straordinaria velocità, la scosse per liberarla di eventuali frammenti di specchio e la avvolse attorno al suo corpo, costringendola a sedersi sul letto.
Con la coda dell'occhio, Len notò il maggiordomo sulla soglia della porta, un candelabro in mano, l'espressione sconvolta.
Gettò indietro la testa, sorrise: - Forse è il vostro corpo ad essere come il mio? -
Il maggiordomo sobbalzò, evitò di guardarla.
- Signorina, siete ferita! - la governante si era chinata sui suoi piedi: - Rimanete ferma sul letto, vado a prendere dei medicamenti! E una scopa! Bisogna togliere tutti questi- -
Len le sollevò la testa con il piede, incontrando il suo sguardo allibito.
Il suo sorriso si accentuò.
La voce uscì in un sussurro: - E' tutto finto. -.
- LEN! -
Vide sua madre precipitarsi da lei; suo padre rimase sulla soglia, con il maggiordomo, la signora Tod e un altro paio di servitori.
Lo stesso sguardo, sui volti di ciascuno di loro.
"Che carini. Sono tutti qui per me."
- Andate a prendere subito dei medicamenti! -
- Sì, signora! -
- Len! Len! - le prese il viso tra le mani, negli occhi il più puro terrore. Non aveva mai visto quello sguardo, su di lei: - Cos'è successo? Ti hanno aggredita? Len! -
- Non trovate sconveniente... - mormorò: - ... che una donna guardi un uomo nudo? -
- Cosa...? - sua madre si scostò, disorientata.
Len sorrise. Non sentiva più freddo, odio, agitazione. Era come se quella risata gli avesse strappato tutto.
- Non dovreste guardarmi, madre. -
Le mani di sua madre gli lasciarono il volto.
Quegli occhi si spalancarono: - Len... -
- Ditemi la verità. - piegò la testa di lato: - Io non sarò mai come voi, vero? -
Quelle labbra si schiusero: - Len... -
- Io non potrò mai sposarmi, vero? -
Le mani di sua madre tremarono: - Len... -
Len si portò una mano al ventre: - Io non potrò mai fare figli, vero? -
Sua madre era impallidita: - Len, noi... -
- Quindi, tutto... - lo sguardo andò al suo corpo riflesso in miriadi di frammenti: - ... era finto. -
Stavolta sua madre non riuscì a dire niente.
- Le vostre parole, ciò che mi è sempre stato detto, la mia stessa esistenza... - si alzò dal letto, passò un piede sopra un frammento: - ... ogni cosa era finta. -
- Len! - suo padre intervenne: - C'è un motivo se abbiamo fatto tutto questo! -
- Ma non mi dite... - calciò il pezzo di specchio, calpestandone un altro.
- L'abbiamo fatto per proteggerti! - la voce di sua madre, doveva star piangendo - o esserci vicina.
- Che cosa carina. - si chinò a terra.
Stava cominciando a trovare irritanti le loro voci, le loro presenze nella sua camera.
La sua camera.
Sua.
Sua.
L'irritazione si trasformò in repulsione.
- Volevamo che vivessi un'infanzia normale. - confessò sua madre: - Ti avremmo detto tutto quanto saresti stata abbastanza grande da capire. -
- Grazie del pensiero. - passò le dita su alcuni pezzi: - Ora fuori di qui. -
Silenzio.
- C-cosa...? - balbettò sua madre.
- Ho detto "Ora fuori di qui". - raccolse i pezzi.
- N-non starai- -
- FUORI DI QUI! -
Le scagliò contro i pezzi dello specchio, gettò a terra la vestaglia.
- FUORI DI QUI! FUORI DI QUI! FUORI DI QUI! -
Vide suo padre afferrare sua madre e trascinarla fuori.
Per un istante, incontrò quegli occhi azzurri, lucidi.
Ma non provò niente.
Non provò assolutamente niente.
Quando la porta si richiuse, lasciandolo solo, sentì solo pace.
Silenzio.
Il cuore batteva davvero forte.
Ma non riusciva a capire cosa stesse provando, o se stesse provando qualcosa.
Si lasciò cadere sul letto.
Gli girava la testa.
Sentiva i piedi pulsare.
Ma c'era silenzio.
"Nessuno deve entrare qui." guardò il soffitto bianco, immacolato: "Nessuno.".
Era tutto lì, per terra.
Il suo corpo, la sua anima, la sua esistenza, le sue convinzioni, i suoi sogni.
Era tutto per terra, in miriadi di frammenti impossibili da ricomporre.
Tuttavia, in fondo, non era un problema.
Era tutto finto.
"... credo mi servirà uno specchio nuovo.".
Adesso voleva davvero vedersi.

Quella mattina, gli raccontarono tutto.
Tutta la verità.
Gli raccontarono dei progetti dello zio Al, di come lui desiderasse vedere suo figlio Oliver nella Famiglia Reale e di come tutte loro, sorelle e cugine, dovessero sostenerlo sposando le persone giuste.
- Prima di te, ho avuto altre quattro figlie. - confessò sua madre, lo sguardo spento: - Ma le ho perse ancor prima che potessero vivere. Tu sei stata la prima a sopravvivere e... - la voce si ridusse ad un sussurro, fino a sparire completamente. I suoi occhi non erano mutati, quasi non se ne fosse accorta, quasi si fosse arresa fin dall'inizio all'idea di non riuscire a terminare la frase.
- Al ci ha concesso di tenerti. - intervenne suo padre: - Gli abbiamo giurato che ti avremmo cresciuta come una donna e che non avremmo mai rivelato la verità. Len di Mirror sarebbe stata una delle cugine femmine di Lord Oliver Dewsen. Gli abbiamo giurato che l'avremmo aiutato come tutte le altre e che non ci saremmo mai opposti a lui. Al ha accettato. -.
Len non aveva detto niente. Non aveva voglia di parlare.
- Quindi, Len... - sua madre era riuscita a recuperare l'uso della parola, la voce bassa: - ... anche se il tuo corpo non è quello di una donna, tu sei una donna. Per questo motivo, sarai trattata come tale e ci aspettiamo che ti comporti come tale. Non mi pare tu abbia avuto problemi, in questi anni. -
"No. Certo che no.".
Si portò una mano al ventre.
Abbassò lo sguardo, sulle sue dita.
"Quindi rimarranno per sempre così...".
- Len... - la voce di sua madre si era abbassata ancora di più. Poteva fingere di non averla sentita.
Ma si era davvero stancato di stare in quella stanza.
- Voglio uno specchio nuovo nella mia camera. -.
Sua madre e suo padre trasalirono, forse sorpresi.
Suo padre annuì: - Come desideri, Len. -
- E voglio che nessuno entri nella mia camera. -
- Cosa...? - sua madre si portò una mano alle labbra: - ... Len, non... -
- Possono entrare solo le mie cameriere. - la sua voce suonava terribilmente distante: - E solo per vestirmi o lavarmi. O per cambiare le lenzuola e pulire. Voglio che qualsiasi altra persona entri nella mia camera venga licenziata all'istante. -
Vide i loro occhi sgranarsi.
- Se una delle mie cameriere entrerà nella mia camera quando non dovrà, voglio che venga licenziata. Non m'importa da quanti anni lavora per noi. -
- Len, cosa- -
- D'accordo. - suo padre interruppe sua madre, lo sguardo serio: - Come desideri, Len. -
- Bene. - si alzò: - Con permesso. -
Non attese la loro risposta. Raggiunse la porta, zoppicando, più per l'ingombro delle fasciature ai piedi che per le ferite. Lasciò la stanza. Non avevano più niente da dirsi.

- Tra poche settimane compirò tredici anni! -
- Sì, signorina. - una cascata di acqua tiepida gli piovve sulla testa, incollandogli i capelli sul viso. Si passò le mani sugli occhi, per togliere quell'intruglio profumato con cui gli avevano torturato le ciocche.
- Desiderate fare un festa? -
- Niente di particolare. - Len si lasciò andare contro il bordo della vasca, con un sospiro: - Però dite alla signora Smith che voglio una torta di banane. -
- Come sempre, signorina. -
- Ovviamente. -.
Alzò lo sguardo: la domestica che gli stava preparando gli asciugamani, proprio d'innanzi ai suoi occhi, era la più giovane di quelle presenti nella camera, probabilmente aveva circa trent'anni.
Sorrise.
- Signorina Johnson... - sapeva che era zitella. Lo sapeva benissimo.
La donna gli rivolse la sua attenzione: - Sì, signorina? -
- Secondo voi, tredici anni è l'età in cui si inizia a diventare adulti? -
L'altra annuì: - Certo, signorina. -
Il suo sorriso si allargò.
Tirò su una gamba, facendola emergere dall'acqua: - Quindi, assistere al mio bagno sarà molto più interessante, vero? -
In un istante, il volto della donna s'imporporò, gli occhi si fecero perfettamente rotondi: - Signorina! -
- Siete davvero una donnaccia, signorina Johnson! - scoppiò a ridere, la mano a coprire la bocca, portando la caviglia sul ginocchio piegato dell'altra gamba.
- Cos'è questa volgarità, signorina? - tuonò la signora Tod: - Chiedete immediatamente scusa alla signorina Johnson! -
- E perché mai? - sfoggiò lo sguardo più innocente che conosceva, la voce vellutata: - Sto per diventare una vera donna, proprio come voi. Non è vero? -
Per qualche secondo, non arrivò alcuna risposta.
Poi entrambe le donne borbottarono qualcosa di simile a: - Sì, signorina. -.
Len sorrise.
Ripensando a qualche tempo prima, a quando aveva capito di non essere una leggiadra fanciulla, gli veniva da ridere.
Ricordava di aver pianto molto, fuori dagli sguardi degli altri, di essere rimasto freddo e silenzioso d'innanzi a tutti.
In seguito, gli era stato detto che era rimasto in quello stato per oltre sette mesi.
Poi aveva scoperto il lato positivo di tutta quella faccenda.
- Voglio questo vestito! -
- Ma, Len, ne hai già uno praticamente identico... -
- Voglio questo! -
- Len... -
- Ho detto che lo voglio! Lo voglio! Lo voglio! Perché mi fate questo, madre? Perché non volete accontentarmi per una cosa così piccola? -
Una delle tante "cose così piccole".
Chissà, forse i suoi genitori avevano i sensi di colpa, quindi esaudivano qualsiasi suo desiderio di avere qualcosa.
Ciò significava che, in cambio del fingersi una leggiadra fanciulla, lui avrebbe ottenuto qualsiasi cosa desiderasse.
Tra l'altro, non che per lui fosse difficile spacciarsi per una donna: amava i vestiti, amava spettegolare, amava il canto, la danza e suonare il pianoforte; a volte, per intere settimane, dimenticava persino di essere un maschio.
Quando se n'era reso conto, aveva provato un moto di disappunto.
Così, ogni notte, davanti al suo nuovo specchio - perfettamente identico al precedente -, rievocava l'intera giornata, come tenendo un piccolo diario, parlando con il suo riflesso.
Nudo.
Voleva che quel corpo - il suo corpo - s'incidesse nella sua mente, che divenisse il più vivido dei suoi ricordi.
Non aveva idea del perché lo facesse.
Per quanto sarebbe stato più semplice dimenticarsi di essere un maschio e continuare a vivere come una femmina, sentiva il bisogno di continuare a ricordarselo.

- E' strettissimo! -
- Deve essere stretto, signorina! -
- Allentatelo! -
- No, signorina. -
- ALLENTATELO, HO DETTO! -
Insieme ai tredici anni, finalmente, arrivarono anche i vestiti che più bramava: poteva iniziare ad indossare le giarrettiere e i reggicalze da adulta, i nuovi ventagli e ombrellini avevano pizzi più elaborati e...
- Ricordatevi di indossare questo. - si raccomandò la signora Tod: - Oppure verrà un brutto effetto, sul vestito. -
Len osservò le piccole coppe del corsetto, riempite alla bell'e meglio con delle imbottiture.
- Molte donne ricorrono a queste per sembrare più floride. - aveva detto la cameriera, con fare saggio.
- Senza vestito e con questo indosso sono davvero ridicola. - aveva risposto Len, le sopracciglia inarcate, fissando il suo riflesso con aria di sufficienza: sembrava una bambolina caduta in dei vestiti fin troppo grandi per lei.
In realtà, il corsetto era perfettamente della sua misura: soltanto, tra la base e i fianchi si creava un piccolo vuoto e vedere spuntare dalle coppe della stoffa piuttosto che della pelle era destabilizzante.
- Man mano metteremo imbottiture appena più grandi. - gli aveva spiegato sua madre, pacata, le guance rosse: - Molte donne non hanno curve accentuate, non c'è nulla di strano. -.
Sì, aveva notato che alcune ragazze erano piatte quasi quanto lui.
Ma svariate altre sue coetanee, chi più chi meno, stavano già iniziando a mostrare le donne che sarebbero diventate.
Queste ultime, in particolare, erano decisamente orgogliose di ciò che iniziava a spuntare, tanto da non vietarsi alcuna scollatura durante i balli.
I balli.
Finalmente, aveva potuto iniziare a partecipare anche a quelli - seppur di privati, di amici di famiglia, per feste non eccessivamente sontuose.
Una volta lì, le fanciulle di tredici o quattordici anni si mettevano in mostra il più possibile, non tanto per volontà di attirare qualcuno, quanto più per essere ammirate.
Tuttavia, c'erano anche le fanciulle più piatte, che preferivano dei castigati vestiti completamente coperti o delle scollature che a malapena scoprivano le clavicole. Len faceva parte di quest'ultima categoria.
E provava un certo piacere nel sentirsi ricoprire di complimenti - per il vestito, per la sua bellezza angelica -, anche se era privo di forme, mentre alcune fanciulle più prosperose erano quasi del tutto ignorate.
"Ovvio." sorrise, dietro il ventaglio aperto: "Sono così volgari...".
Lo sapeva benissimo.
Si era ritrovato svariate volte a fissare le altre ragazze - o meglio, le scollature delle altre ragazze -, fingendo di scrutarle dall'alto in basso, il volto quasi del tutto nascosto dal ventaglio. Ormai avrebbe saputo elencare ogni tipo di scollatura presente tra le invitate ad un ballo.
Non che fosse una cosa premeditata: semplicemente, una fanciulla con il petto semiscoperto gli si presentava, o gli passava accanto, e il suo sguardo andava verso il basso. Cose che capitavano.
Anche se, fino a quel momento, in quei casi, aveva provato solo un misto di curiosità e soddisfazione; una sera, durante un ballo, fu ad un passo dal collassare nel bel mezzo della sala: una donna dal viso gradevole aveva attirato svariati sguardi, vista la scollatura immensa del suo abito e, soprattutto, la vergognosa grandezza dei suoi seni, quasi del tutto in mostra.
- Davvero volgarissima! - sibilò una ragazza al suo fianco, gli occhi ridotti a fessure, sventolando il ventaglio.
- Sta mettendo a disagio tutti i presenti, perché non viene allontanata? - le fece eco un'altra, incenerendo la donna con lo sguardo.
Len non commentò.
Rimase immobile, il ventaglio aperto praticamente premuto contro il viso. Si sentiva andare a fuoco dall'interno. E la biancheria era diventata terribilmente stretta.
Non che non gli fosse mai successo; soltanto, non in pubblico, non d'innanzi ad una donna e non insieme a quella sensazione di caldo soffocante.
Ringraziò più volte il fatto di stare indossando una gonna ampia.
- Lady Len, vi sentite bene? -
Len trasalì, lo sguardo andò alle due ragazze lì vicino. Annuì in fretta, senza emettere un suono. E senza abbassare lo sguardo sulle loro scollature - sapeva che, nel caso, sarebbe stramazzato al suolo. O peggio.
Fu la serata più lunga della sua vita, e non in positivo.
Una volta a casa, nella sua camera, contrariamente a quanto aveva sperato, la biancheria non smise di essere stretta e il dolore tra le gambe non si attenuò affatto.
Vi pose rimedio da solo.
Nella sua camera, poteva fare ciò che voleva ed essere sempre nel giusto.

- Madre! -
- Sì, Len? - la donna alzò lo sguardo dalla lettera che stava scrivendo.
Len sentì le guance farsi più calde: - Ecco, volevo farvi una domanda. -
- Dimmi pure. -
"Meglio essere diretta."
- Che cos'è l'amore? -
Sua madre sobbalzò, gli occhi sgranati: - Prego? -
Len deglutì, le guance sempre più calde: - E' che l'ho letto spesso nei libri... - spiegò, lo sguardo vagò altrove, nello studio: - ... e ho sentito spesso alcune ragazze parlarne... -.
Sentì un sospiro. Tornò a guardare sua madre: la sua espressione era tornata quella di sempre.
- Credo tu debba iniziare a frequentare ragazze più grandi. - disse, forse più a se stessa che a lui. Tornò a rivolgerglisi: - Vedi, Len, l'amore è... come posso spiegartelo... - ci pensò un istante. Poi sembrò trovare le parole: - L'amore è una scusa. -
Len spalancò gli occhi, colto alla sprovvista: - Una scusa? - ripeté, in un sussurro.
Sua madre annuì: - L'amore è quella scusa che viene usata per giustificare qualsiasi comportamento, soprattutto quelli più scellerati. Sono i poveri a parlare di "amore", dicono di sposare una persona che "amano", quando in realtà sono solo mossi dal desiderio e dalla curiosità, oltre che dall'idiozia. Del resto, se sono ancora poveri, è evidente che non siano in grado di gestire le proprie finanze. Loro non sposano certo qualcuno che possa aiutarli, loro sposano qualcuno che "amano"... ma non è altro che una scusa per mascherare la loro incapacità e il desiderio che provano per la loro "sposa". - un sospiro: - Davvero volgari. -.
Len sbattè le palpebre, confuso: - Ma... io ho letto di emozioni felici. - ricordò: - E anche alcune ragazze, quando dicono di essere "innamorate", sembrano davvero felici! Sono tutte rosse, hanno gli occhi lucidi, sembrano come perse in un sogno... -
La mano di sua madre sulla testa, gentile.
Il sorriso sulle sue labbra era appena accennato: - Quelle sono infatuazioni, Len. Ciò succede quando qualcuno è attratto da qualcun altro. Può succedere che, in questo caso, possa scattare una proposta di matrimonio, sì. Ma, almeno, che non la si mascheri da "amore". - scosse la testa: - L'amore non esiste. E' solo una scusa. E le infatuazioni hanno breve durata. Sono come fiamme: ardono, riscaldano ma, prima o poi, finiscono con lo spegnersi. Si può vivere una felicità momentanea, se questo può far piacere. Ma credere a quelle cose che scrivono sui libri è davvero da bambine. -.
- Capisco... - abbassò lo sguardo, dispiaciuto: aveva davvero creduto alla possibilità di poter provare le stesse emozioni delle protagoniste dei libri, di incontrare qualcuno che gli professasse "amore" e che chiedesse la sua mano.
"Forse dovrei davvero crescere." si congedò da sua madre: "Del resto, è quello che ho sempre voluto...".
Quando tornò nella propria camera, si guardò allo specchio.
"Ho quasi quattordici anni..." piegò appena la testa di lato, scrutando il proprio riflesso: "... e sono rimasta identica.".
Doveva davvero crescere. Sì.
"Crescerò. E poi..."
Guardò la sua mano sinistra.
Bianca, le dita affusolate.
La portò al viso, posò le labbra sull'anulare.
"E poi...".

- Sarei davvero felice se tu cantassi al mio matrimonio. -
Len sbattè le palpebre. Gli sfuggì una risata leggera: - Sarò lieta di accettare, allora! -
- Ottimo! - Lily si portò una mano al petto, quasi stesse sospirando di sollievo: - Hai una delle voci più belle che conosca, dovevo assolutamente averti come cantante al mio matrimonio! -
- Anche tu sai cantare molto bene! - le ricordò Len: - Potremmo cantare insieme! -
- Se me lo concederanno... - ridacchiò Lily: - E poi, la tua voce è più chiara della mia. Suona decisamente meglio, ad una cerimonia simile. -
- Mi stai lusingando troppo... - "Continua."
- Oh, affatto! - l'altra sventolò una mano, come a scacciare quelle parole: - Mi raccomando, voglio una bella canzone! -
- Ovviamente! - sorrise: - Ah, quando hai detto che è, la cerimonia...? -
- Tranquilla, ho già spedito tutti gli inviti. - fu la risposta di Lily, sulle labbra uno strano ghigno: - Non ti costringerò a ricordare una data e un orario precisi, cuginetta mia adorata. -
- Come sei gentile, cuginetta mia adorata. -
Trattenne un sospiro di sollievo: almeno non aveva la responsabilità di doversi ricordare una cosa del genere. Se se lo fosse dimenticato, avrebbe sempre potuto incolpare qualcuno - tipo le poste.
- Hai già deciso cosa indosserai? - domandò, guardando la cugina.
Il sorriso di Lily perse la sua sfumatura maliziosa, diventando più gentile: - E' un segreto. Solo la sposa e le sue cameriere possono saperlo. -
"Uffa..." gonfiò le guance, con disappunto.
All'altra sfuggì una risata leggera.
La vide posare il viso sul palmo, il gomito contro il piccolo tavolino su cui stavano prendendo il the: - E tu, Len? Cosa indosserai? -
Con tutta la calma del mondo, Len riprese la sua tazzina e bevve un piccolo sorso.
Il pathos era importante.
Posò la tazzina sul piatto.
- Un vestito giallo. -
- Perché ti faccio queste domande? -
Ridacchiarono entrambi.
Len trasse un profondo respiro. Forse era il momento di farle quella domanda.
- Com'è il tuo futuro sposo? -
A giudicare da come la sua espressione non si fosse minimamente intaccata, Lily doveva aver previsto quelle parole: - E' un brav'uomo. - rispose, pacata.
Posò sul tavolo anche l'altro gomito, spostò il mento sull'intreccio delle dita: - E' abbastanza gradevole d'aspetto e la sua attività va piuttosto bene. Non ho di che lamentarmi. -
Len annuì, quasi distrattamente.
Sentiva il cuore colpire il torace con violenza.
- Quindi, c'è la possibilità che tu parta per... -
- Osaka? Sì, anche se non in tempi brevi. -
Len abbassò lo sguardo, cominciava a sentire una strana agitazione.
- Anche tu dovrai iniziare a studiare il giapponese, ne, Len-chan? -
Gli sfuggì una risata. Aveva una pronuncia buffa.
- Sì... dovrei. - sorrise: - Anche se non in tempi brevi. - ripetè.
- Ah, mi dispiace che il mio sensei se ne sia partito per l'America... - sbuffò Lily: - Spero davvero tu riesca a trovare qualcuno di adeguato... -
- Chissà... -
Non ne era così entusiasta, in verità.
Non per la lingua di per sé.
Era...
- Lily... - alzò lo sguardo, incontrando lo sguardo attento dell'altra: - ... puoi promettermi una cosa? -
- Dipende da cosa tu vuoi che io prometta. -
Inspirò. Il cuore faceva male.
- Promettimi che farai di tutto per stare bene. -.
Silenzio.
L'espressione di Lily era sempre la stessa; soltanto i suoi occhi mostrarono una strana scintilla, non avrebbe saputo dire di che tipo.
Qualche secondo dopo, vide le sue labbra incresparsi appena: - Non sono così debole, sai? -
Tornò dritta sulla sedia, negli occhi uno strano sguardo divertito: - Non ho bisogno di promettertelo. Non ho alcuna intenzione di lasciarti il mio sposo e il mio posto, cuginetta mia adorata. -
Len sorrise. Sentiva gli occhi bruciare.
- Il contratto prevede che, "qualora Lady Lily perda la vita, suo marito debba prendere in sposa Lady Len Mirror." -
- Perché? -
- Il futuro marito di Lily ha contatti economici con il Giappone. Tu non puoi sposarti, Len, quindi l'unico modo per tenere saldo il legame economico con il Giappone è darti direttamente in sposa al marito di Lily. -
- E lui ha accettato? -
- Sì. -
- E sa- -
- Sì. -
- Capisco... -.

Alla fine del mese successivo, Lily si sarebbe sposata.
E lui avrebbe cantato per lei, per il suo sposo.
Il suo sposo. Di Lily. E di Lily soltanto.
"Io non sono un rimpiazzo..."
Guardò il proprio riflesso.
"Io non voglio essere un rimpiazzo..."
Strinse la mano sinistra.
"Sono felice per Lily. Lo sono. Sono felice che lei si sposi."
Lei.
"Starà con una persona che guarderà solo lei. Solo lei. Per sempre."
E mai lui.
"Anch'io avrò una persona che guarderà solo me. Solo me. Per sempre. Vero?".

- Oggi andiamo a trovare Miriam e la sua bambina. -
- Mia cugina Miriam ha avuto una bambina...? - fece Len, perplesso.
- Sì. Due settimane fa. - sua madre si portò una mano alla guancia: - Te l'avevo anche detto... -
- Temo di non ricordare... - tornò a dedicarsi al libro che stava leggendo.
- ... dovresti andare a prepararti, Len. -
- Non ho voglia di venire. -
- Eh? Ma è la figlia di Miriam! E' la figlia di tua cugina! -
- Ne ho altre trentadue, di cugine. -
- Len... - un sospiro rassegnato: - ... ti prego, non fare i capricci. -
- Non sto facendo i capricci. - alzò le spalle: - Semplicemente, non ho voglia di incontrare una persona di cui non ricordo neppure il viso. Fine. -.
Un paio d'ore dopo era a casa di Miriam.
Ancora non capiva come si fosse fatto convincere.
Non era il solo giunto a far visita: c'erano anche un paio di ragazze che forse erano sue cugine, più almeno altre sette giovani che dovevano essere amiche di sua cugina.
Tre di loro erano incinte.
- Com'è stato il parto? -
- Come si comporta, la notte? -
- E tuo marito cosa dice? -
- Le darete una sorellina, vero? -
Tutte stavano intorno alla neonata e alla madre.
E facevano domande.
Tante domande.
Si portò una mano alla pancia.
Lasciò la stanza, senza neanche essere notato.
Voleva tornare a casa.
- Penso proprio che presto riuscirò ad accasare mia figlia! -
- Finalmente! Non sapete quanto ho dovuto penare io per accasare la mia primogenita! Per fortuna, con la seconda è stato molto più facile! -
Le voci delle loro madri. Stavano chiacchierando proprio nella stanza accanto.
- Io sono riuscita facilmente a trovare ottimi partiti per tutte e tre le mie piccole. -
- Eh, quando si hanno contatti come i vostri, contessa... -
- E voi, duchessa? -
Sua madre rispose dopo qualche secondo, la voce apparentemente stanca, come sempre: - Stiamo valutando le proposte. -
Len socchiuse gli occhi.
- Beh, certo, voi potete permettervelo. -
- Dite la verità, state aspettando che sia uno dei principi a chiedere in moglie vostra figlia, vero? -
- Non dirò nulla. - una pausa: - Saprete tutto quando Len si sposerà. -
"Ossia mai.".
- Quel che desidera qualsiasi brava signorina: sposare un uomo bello d'aspetto e d'animo, dal solido patrimonio e dargli tanti figli. -
Nessuno deve sapere che sei un maschio.
Non puoi sposarti.
Sei un maschio.
Non puoi generare figli.
Sei una donna.
Non puoi sposarti, non puoi fare figli.
Non avrai mai niente.
Sei inutile.

Gli occhi azzurri nello specchio si fecero sfocati, le guance bagnate.
Ogni cosa sarebbe rimasta esattamente com'era.
La sua pancia e il suo petto sarebbero stati piatti per sempre.
I suoi fianchi sarebbero stati dritti per sempre.
Nessuna biancheria e nessun lenzuolo macchiati di sangue.
Sarebbe rimasto tutto esattamente com'era sempre stato.
"Perché non sono nata donna?"

- Gli ufficiali! Gli ufficiali! -
- Stanno arrivando gli ufficiali! -
Len si voltò di scatto, correndo sotto il primo portico disponibile, assieme alle cameriere che l'avevano accompagnata fino a Londra e svariate altre ragazze nei paraggi.
- Non sapevo che oggi sarebbero passati gli ufficiali! - pigolò una ragazza, visibilmente euforica.
- Neanch'io... - fece Len, gli occhi sgranati, il cuore che batteva forte.
Gli era capitato di vedere dei soldati, ovviamente.
Soltanto, vederseli sfilare davanti, a distanza tanto ravvicinata, era un altro conto.
Erano davvero alti, con la giacca rossa, i pantaloni bianchi e il cappello nero, marciavano in righe perfette - forse avevano perso un'ora solo per calcolare al centimetro la distanza di ciascuno di loro dal proprio vicino; le espressioni decise, le armi imbracciate, tutti incredibilmente giovani, più della metà terribilmente avvenenti.
Non era necessario essere compressi tra un numero imprecisato di fanciulle come lui per percepire un'ondata di batticuori, rossori e urla disumane che non potevano giungere da bocche femminili - non potevano, vero? Vero? Vero?
- Sono stupendi! -
- Sono bellissimi! -
- Sono dei scesi in terra! -
Len deglutì.
Sì, molti erano davvero belli.
Non gli sarebbe affatto dispiaciuto riuscire a parlare con uno di lor-
Una pioggia di fazzoletti cadde casualmente in prossimità degli ufficiali, oscurando per un istante il suo campo visivo. Con un moto di stizza, Len si affrettò a cercare il suo, di fazzoletto, salvo ricordarsi che...
"... non l'ho preso. Ho dimenticato il mio fazzoletto. Sono venuta a Londra e ho dimenticato il mio fazzoletto-ops-mi-è-caduto-grazie-gentile-signore- potrei-sapere-il-vostro-nome-?!".
Inspirò a fondo, mentre gli ufficiali rompevano le righe e venivano dolcemente assaltati da una valanga di gonne e sottogonne - nello stesso istante: "Calma, Len. Non tutto è perduto!"
Si tirò indietro i capelli, gonfiò il petto e rimase sul portico, la testa un po' alzata, gli occhi socchiusi con fare sicuramente molto sensuale ma non volgare, le labbra appena schiuse - dopo averci passato la lingua, per renderle lucidissime come neanche i pavimenti di casa sua.
Porse una mano alle servitrici, senza neppure guardarle: - Ventaglio. -
E il ventaglio arrivò subito.
Lo aprì e si sventolò, con ostentata nonchalance.
Già sentiva degli sguardi su di sé.
"Sono troppo bella. Lo so."
Ovvio che rimanere isolato da tutte le altre l'avrebbe fatto risaltare.
Lasciò che lo sguardo, da sotto le ciglia, vagasse sugli ufficiali, sulle loro giacche rosse; c'era una cosa di cui si poteva sempre star certi, osservando un soldato: sotto le divise c'erano dei fisici scolpiti.
Nascose le labbra dietro il ventaglio.
"Che fanciulline patetiche." ridacchiò, gettando uno sguardo alle giovani che si accalcavano: "Se vi mostrate tanto disponibili, vi useranno soltanto.".
Si lasciò andare contro una delle colonne del portico, affrettandosi a spostare lo sguardo ogni qualvolta uno degli ufficiali cercava di incrociare i suoi occhi.
Si sentiva osservato. E la cosa gli piaceva parecchio.
Sventolò il ventaglio per un altro po', beandosi di tutte quelle attenzioni - decisamente, erano più incuriositi da quella fanciulla silenziosa e in disparte, piuttosto che da un'informe massa urlante, dove tutti i volti si sovrapponevano e sfuggivano alla memoria in un secondo.
Non che fosse l'unica fanciulla sul portico, in realtà: le più timide non avevano osato farsi avanti; solo, erano palesemente oscurate da lui.
- D'accordo... - mormorò, ad un certo punto: - ... direi che può bastare. - chiuse il ventaglio, per poi rivolgersi alle sue cameriere.
- Voi due... - le indicò con il ventaglio: - Andate a fare spese da quella parte. - mostrò loro la direzione da cui erano venute: - Voi due... - si rivolse alle rimanenti: - Venite con me. - disse, semplicemente: - Proseguiamo con i nostri giri. -.
Aveva fatto pochi metri che notò, con la coda dell'occhio, un paio di uomini avvicinare le due domestiche aveva allontanato.
Gli sfuggì un sorriso soddisfatto.
"Chiederanno a loro e cercheranno di farsi presentare." riaprì il ventaglio, per poi sventolarsi: "Esattamente come previsto.".
Ridacchiò: "Ormai sto decisamente capendo come funziona la mente maschile!".
Il sorriso si congelò.
Si fermò.
Si voltò verso gli ufficiali che si era lasciato alle spalle, piano.
La folla di ragazze, allegre, gli occhi che brillavano.
Gli uomini in divisa, circondati da quelle ragazze.
Forse avrebbero giocato con loro, forse le avrebbero ignorate, forse le trovavano una scocciatura, forse avrebbero sposato qualcuna.
Il cuore sussultò con violenza.
"Io..."
- Tutto bene, signorina? Siete pallida... -
- ... sì. Va tutto bene. -
"... io dovrei essere... tra loro...?"
Strinse la stoffa del suo vestito, all'altezza del cuore.
Aveva freddo.
Terribilmente freddo.
"... io dovrei indossare quella giacca rossa... io dovrei essere tra quelle righe..."
Le gambe stavano tremando.
"Dovrei... essere tra loro..."
Non parlava della folla urlante.
Lo specchio gli aveva sempre mostrato il corpo di un ragazzo.
E, per quanto desiderasse, gli avrebbe mostrato sempre quello.
Sempre la stessa cosa.
"Io... dovrei...".

- Signorina! -
A Len quasi prese un colpo.
"C'era bisogno di urlare in quel modo, all'improvviso...?"
- Cosa... - gli occhi della signora Tod erano sbarrati, quasi avesse visto la cosa più spaventosa sulla faccia della Terra: - ... cosa avete...? - gli accarezzò la testa, il viso terreo: - ... i vostri capelli... -
- Li ho tagliati. - rispose Len, pacato. Tutta quell'agitazione gli sembrava fin troppo eccessiva.
- Ma... ma... - sentì la mano della donna accarezzargli i capelli: - I vostri bellissimi capelli... ora sono così... -
- Suvvia, non sono così corti! - scrutò il proprio riflesso: le ciocche bionde, ora, si limitavano ad accarezzargli le coppe del corsetto, senza più sfiorargli i fianchi come fino al giorno prima.
- Vado subito ad avvisare vostra madre! -
Neanche il tempo di fermarla che la signora Tod era già schizzata via dalla camera, lasciandolo da solo in balìa del corsetto mezzo slacciato.
"Esagerata..." sospirò, strofinandosi le mani sulle spalle - iniziava a sentire un po' freddo.
Quando la cameriera tornò, assieme a sua madre, dovette assistere di nuovo alla medesima scena.
- Perché l'hai fatto, Len? - fece sua madre, il tono severo.
Len piegò appena la testa di lato: - Volevo cambiare. -
- ... cambiare...? -
- Sì. -
- Oh, sciocchezze. - sua madre alzò gli occhi al soffitto: - Beh, sarà solo per poco. I capelli ricresceranno. -.
Fu come una coltellata al cuore.
Len deglutì, sentì gli occhi farsi ogni istante più sgranati, le labbra si schiusero.
"Allora... continuerò a tagliarli. Ogni volta. Ad una lunghezza diversa. Anche se ricresceranno. Sempre.".
Sempre.
Di nuovo.
Perché tutto sembrava rimanere sempre uguale?
- Sembra proprio che la signorina Len non diventerà troppo alta. - aveva detto il dottore che lo visitava: - Deve aver preso dal vostro ramo, Vostra Grazia. -.
Non che gli sembrasse di essere cresciuto, in quegli anni.
Anche se i vestiti di quando era piccolo ormai gli andavano stretti, questo era vero.
Chissà se i vestiti che indossava in quel momento, un giorno, gli sarebbero andati altrettanto stretti...
- Signorina! -
- Mh? -
- Cosa... cosa state facendo...? Quel libro è costosissimo! -
- E con ciò? -
- Lo state imbrattando! -
- No, sto colorando gli spazi delle lettere. -
- Chiamerò subito vostra madre! E anche vostro padre! Cosa sono questi comportamenti da bambina? -
I libri, per quante volte li leggesse, rimanevano sempre uguali.
Bianchi, con le lettere stampate, a volte qualche disegno.
Aveva deciso di colorarli. Di disegnarli. Di renderli diversi.
I suoi genitori l'avevano sgridato.
Aveva continuato.
Gli avevano anche dato degli schiaffi, proibito di uscire, tolto dall'armadio i suoi vestiti preferiti.
Ma lui continuava.
Alla fine, si erano arresi.
E aveva riavuto indietro tutto.
"Come se non vi conoscessi...".
- Crescerà... - sentì dire da suo padre, una sera.
- Pare rimarrà piccola... - sospirò sua madre.
- Intendevo mentalmente. -
- Anch'io. -
Anche fisicamente, però.
Non sarebbe diventato alto come gli ufficiali.
Forse anche il suo corpo sarebbe rimasto morbido come quello di una donna.
Era strano pensarci, guardandosi allo specchio, accarezzando la propria pelle: poteva spacciarsi per una donna molto, molto, molto piatta, glielo permettevano i suoi tratti delicati, le sue movenze, ogni cosa; bastava scendere, però, per trovare la prova del contrario.
Passò un dito sulla pancia, da fianco a fianco: una linea invisibile che separava la tenerezza della maternità dalla follia della lussuria.
Era bizzarro pensare che quelle cose fossero tanto vicine.
"Se non posso fare figli, allora, perché dovrei preoccuparmi di essere virtuosa?".
Non che a quattordici anni potesse pensare davvero di attirare gli sguardi degli uomini - non dei suoi coetanei, quelli erano ridicoli, sotto ogni punto di vista: o erano spocchiosi, o erano bambini, o erano brutti, o erano poveri. Sembrava non ci fosse via di mezzo.
Tuttavia, per quando sarebbe stato un po' più grande...
"Grande...".

- Cos'è? -
- Un vecchio pupazzo, signorina. Abbiamo ripulito la soffitta e la cantina, stiamo buttando via le cose più- -
- Lo voglio. -
- Prego? -
Len tese la mano verso il servitore: - Voglio quel pupazzo. Datemelo. -.
Lesse la perplessità negli occhi dell'uomo, ma il pupazzo gli venne consegnato.
Len lo portò nella propria camera, insieme al set da cucito.
Sembrava terribilmente fragile, pronto a rompersi al minimo tocco più pesante.
Lo rammendò facendo attenzione, riattaccando gli arti che pendevano, trattenuti solo da un paio di vecchi punti; gli ridiede un volto, il precedente era scomparso, lasciando la faccia liscia; aggiunse qualche particolare - un collarino, ad esempio.
Qualche ora dopo, ammirò il pupazzo finito: era nero, ma l'aveva riparato con un filo rosso, la rosa sul suo collarino era blu.
Sorrise e lo abbracciò.
Era davvero morbido.
"Sei cambiato." lo accarezzò tra le orecchie da animale: "Fai vedere a tutti il tuo nuovo aspetto!".
Non gli importava niente che i suoi genitori e i domestici lo guardassero con aria interrogativa.
Quel pupazzo era bellissimo.
Gli era bastato intravederlo tra tutte le vecchie cose ammassate per sentire il desiderio di sistemarlo.
Non sapeva perché.
Però, ora che l'aveva fatto, si sentiva felice.
Allora, forse anche il pupazzo era felice.

- Vi piace cavalcare, Lady Len? -
Len scosse la testa.
- In realtà... - confessò, seguendo la figlia della contessa a cui sua madre era andata a far visita: - ... non ho mai provato. -
- Allora questo potrebbe essere un buon momento per iniziare. - gli fece notare la ragazza - di cui proprio non riusciva a ricordare il nome, forse Edith, o qualcosa del genere.
Quando arrivarono alle stalle, Len dovette tapparsi il naso per la puzza.
- Con tutto il rispetto, credo non sia qualcosa che faccia per me. - alzò appena l'orlo della gonna, terrorizzato all'idea che potesse sporcarsi di qualsiasi roba indefinita ci fosse a terra.
Lady Edith, vestita da cavallerizza, con tanto di pantaloni - "Come fa ad indossare quei cosi...?" -, si era già diretta verso quello che ipotizzò essere il suo cavallo privato.
"Che puzza..." premette anche l'altra mano contro il naso, rinunciando a tenere la gonna sollevata.
- Con permesso, milady. - praticamente fuggì dalle stalle, inspirando una boccata d'aria fresca non appena si ritrovò all'esterno.
Non ricordava che l'aria fosse così profumata e bella da sentire nei polmoni.
Sentì, in lontananza, la risata di Lady Edith - forse per una battuta dello stalliere, forse stava ridendo di lui, non ne aveva idea e non gli importava.
"Come fa a stare in mezzo a quel fetore...?" si chiese, allibito, passandosi una mano sul viso.
Qualche minuto dopo, rimase fermo sotto il suo ombrellino, ad osservare Lady Edith cavalcare per i prati.
... e basta.
Cavalcava e basta.
"Fa tutto il cavallo, cosa ci trova di così appassionante...?" sbadigliò, coprendosi la bocca con una mano: "Se non altro, potete star certa che non tornerò. Credo che qualsiasi altro vostro invito coinciderà con un mio violento attacco di mal di pancia.".
Non che sarebbe stato difficile, se avesse rievocato il ricordo di quella puzza di sterco e fieno ammuffito.
Un nitrito nelle vicinanze lo riportò alla realtà: un giovane, probabilmente il fratello di Lady Edith, aveva a sua volta preso un cavallo.
Soltanto che quel cavallo era almeno il doppio di quello della sorella.
Nero, gigantesco, in completa opposizione alla sottospecie di pony marroncino che correva per i prati.
- Cosa c'è, signorina? - domandò la signora Audley, il tono divertito.
Probabilmente pensava stesse guardando il figlio della contessa.
Non era brutto, ma non era neppure questo trionfo di bellezza.
- Milady fa tanto l'arrogante... - sospirò: - ... ma, alla fin fine, riesce a cavalcare soltanto un ronzino. Fosse andata a cavalcare con quello... - accennò al cavallo nero con lo sguardo: - ... allora sarebbe stato diverso. -.
Gli piaceva, quel cavallo nero.
Gli trasmetteva una sensazione di forza e fierezza.
Sentì la domestica ridere.
Si voltò verso di lei, trovandola con lo sguardo divertito, le labbra ancora incurvate verso l'alto: - Ma cosa dite, signorina? - fece: - Quello è uno stallone, solo un uomo può cavalcarlo! I cavalli per le donne sono come quello che sta cavalcando milady! -
- Ah... -
Quindi c'erano cavalli per uomini e cavalli per donne.
I cavalli per uomini erano come quello nero. Quelli per le donne erano come quel pony marroncino.
Abbassò lo sguardo.
In fondo al cuore, gli sarebbe piaciuto salire sul cavallo nero.
Avrebbe potuto.
Lui sarebbe potuto salire sul cavallo nero.
Avrebbe potuto.
Gli uomini sono forti. Mandano avanti tutto e proteggono le proprie mogli e i propri figli.
Il tuo corpo è fragile.
Il tuo corpo potrebbe essere scambiato per quello di una donna.
La tua mente è quella di una donna.
Nei fatti, il tuo corpo è quello di un uomo.
Sei un uomo.
Non puoi sposarti, non puoi avere una moglie che ti dia figli.
Non puoi arruolarti, non puoi proteggere niente e nessuno.
Non avrai mai niente.
Sei inutile.

Passò una mano sugli occhi, lo specchio sparì per un istante, per poi riapparire davanti a lui.
Era un uomo, ma non gli era concesso fare ciò che facevano gli uomini.
Non si sarebbe mai potuto presentare come uomo.
Non avrebbe mai avuto il corpo sviluppato di un soldato, né anche solo la forza dei servitori che vedeva girare per la sua casa, o di suo padre.
Il suo corpo sarebbe rimasto piccolo e fragile.
Sarebbe rimasto tutto esattamente com'era sempre stato.
"Perché non sono nata da un'altra parte?"

- State benissimo, signorina! - sorrise il dottore, mentre Len si rivestiva, le guance che andavano a fuoco.
Un medico uomo.
Ogni visita gli faceva provare sempre la stessa irritazione, sempre quell'irrefrenabile voglia di andarsi a nascondere dietro il primo posto - o persona - disponibile o imprimere sul volto dell'uomo tutte e cinque le dita di una mano, magari traforandogli i timpani con uno strillo.
"Perché il fatto che io non mi possa sposare fa sì che io venga sempre umiliata in questo modo?"
Gli rivolse un'occhiata di puro disprezzo e si avviò all'ingresso della stanza, sentiva lo sguardo di sua madre puntato contro. Quando aprì la porta, trovò suo padre in piedi nel corridoio.
- Hai salutato, Len? - gli chiese, il tono gentile.
Len sbattè le palpebre. Era sicuro di avere un'espressione terribilmente annoiata.
Sibilò, senza neppure voltarsi: - A mai più rivederci, dottore. -.
- Len! - sua madre, allibita. Come se non avesse mai rivolto simili parole al medico.
Si allontanò, sentendo suo padre entrare nella stanza adibita ad ambulatorio improvvisato.
"State benissimo, signorina!" cinguettò nella sua mente, distorcendo la voce del dottore: "State crescendo davvero benissimo! Siete sanissima, non avete alcun problema!" si fermò: "Imbecille.".
Si tirò indietro le ciocche dei capelli sfuggite alla crocchia: "Mi aprite le gambe e avete la faccia tosta di chiamarmi signorina. Sto sempre crescendo benissimo, però poi non mi dite che rimarrò piccola. La prossima volta mi direte che sarò senz'altro prosperosa come mia cugina Lily?".
Un parlottio.
Proveniva dalla stanza che aveva appena lasciato. Si voltò a guardarne la porta.
"... imbecil-"
- ... problema grave... -
"... problema grave...?"
Quelle parole avevano colpito le sue orecchie, come risvegliandolo.
Si avvicinò alla porta, abbassandosi all'altezza della serratura.
"Parlano di qualcosa che riguarda me...?"
Perché non avrebbero dovuto, visto che era stato lì fino a pochi minuti prima e il medico era stato chiamato appositamente per visitare lui?
- Cosa... consigliate... far sì... Len... -
"Sì, decisamente, parlano di me."
Premette l'orecchio contro il legno della porta, rallentando il respiro, per non lasciare che i suoni vi finissero mescolati. Chiuse gli occhi, concentrandosi sulle voci delle tre persone nella stanza.
Sentì un sospiro. Non capì di chi.
- E' normale che succedano cose simili, Vostra Grazia. - il dottore: - Non l'avevate messo in conto? -
- Speravamo che l'educazione ricevuta avrebbe soffocato questi... - suo padre s'interruppe. La parola successiva fu bisbigliata, ma Len riuscì a captarla comunque: - ... bisogni. -.
"Bisogni...?" sbattè le palpebre, confuso.
- Ci chiedevamo quale potesse essere la soluzione. - la voce di sua madre, spezzata. Non sembrava stesse piangendo, forse era... imbarazzata?
- Vostre Grazie... - il medico sospirò. Forse anche il sospiro precedente era il suo.
- Secondo voi... - suo padre intervenne di colpo, il tono appena più alto, facendolo trasalire: - ... se prendessimo una ragazza soltanto come...? -
"Come...?"
- Se posso permettermi, Vostra Grazia. - di nuovo il dottore: - Prendergli una ragazza per fargli sfogare i suoi bisogni sarebbe doppiamente rischioso. -
Len avvampò.
"Cosa...?"
Deglutì, cercando di sentire il resto della conversazione, tentando disperatamente di ignorare i boati del suo cuore nelle orecchie.
- Per prima cosa, significherebbe rivelare la vera natura di vostro figlio ad un'altra persona. E cosa vi garantisce che questa persona non usi questo segreto per ricattarvi? -
- Nessuno ci ricatta. - sua madre. Un sibilo tagliente.
- Ovviamente, Vostra Grazia. - il tono del medico si era fatto più gentile, forse aveva intuito: - Ma pensateci: forse la ragazza potrebbe lasciarselo scappare con una persona che ritiene amica, con un famigliare. E se fosse una di queste persone a diffondere la notizia? O se fosse la stessa ragazza, di nascosto, ad informare qualcun altro, magari la stampa, in modo da far crollare l'intero casato Dewsen? -
Calò il silenzio.
Len strinse i pugni.
Sentiva la mente del tutto svuotata.
Sperò che qualcuno parlasse.
Finalmente, il dottore spezzò il silenzio: - Il secondo problema è quello più ovvio: la ragazza potrebbe rimanere incinta. -
- Ma non è detto che una gravidanza arrivi fino alla fine. - sua madre. Di nuovo quel tono glaciale.
- Certo. - ancora il medico: - Ma cosa vieta alla ragazza di dirvi di voler andare a far visita a qualche parente, scappare e partorire? Potrebbe nascondere il bambino. Potrebbe non informarvi della sua esistenza, affidarlo a qualcuno e rivelare la verità a questo qualcuno. -
- Avete mai pensato di fare il romanziere? - sua madre rise. Ma non era una risata bella sentire.
- No, Vostra Grazia... -
- Ottimo. Perché non avreste avuto un gran successo. -
- Irene... -
- Mi permetto di farvi notare tutti i problemi che potrebbero insorgere nel caso decidiate di prendere un'amante per vostro figlio. -
- Vi prego di perdonare mia moglie. -
- Come supponevo, un'amante è fuori questione. - sua madre non sembrava minimamente toccata. Anche se pochi minuti prima, forse, stava morendo d'imbarazzo: - Tuttavia, il problema rimane. Ed è un problema grave. Ho visto... - la sua voce tremò. Ah, eccolo, l'imbarazzo. Era tornato: - ... ho visto Len guardare troppo a lungo le cameriere più giovani e non necessariamente in viso. L'ho vista rivolgere sguardi poco pudici verso le ragazze ai balli. Mi è stato riferito che, durante il bagno, stuzzica le inservienti. -
"Ma, in questa casa, un'intera confezione di affari propri no, eh?"
Sentiva le guance bollenti.
In effetti, gli era capitato di fissare la parte superiore dei grembiuli bianchi delle servitrici più giovani. Erano gradevoli da vedere. Ed era piacevole immaginare cosa potesse creare quelle forme arrotondate.
Lo faceva anche con gli uomini, in verità.
Evidentemente, sua madre non ci aveva fatto caso.
"Ma quindi mia madre ha guardato a sua volta le cameriere, per sapere cosa io stessi guardando...?"
- Fra pochi mesi compirà quindici anni... - la voce del medico lo strappò dai propri pensieri: - E' normale che faccia queste cose. -
- Non dovrebbe esserlo, per Len. - osservò sua madre: - Lei non dovrebbe guardare le donne. Lei non dovrebbe neppure lanciare di quelle occhiate, né provocare durante il bagno. Dovrebbe essere una ragazza pudica e virtuosa! -
"Per questo mi fate visitare da un uomo, madre...?"
- E poi... - sua madre fece una pausa: - ... cosa succederebbe, se... - un'altra pausa: - ... se decidesse di... - la voce si fece un sussurro: - ... sedurre qualche cameriera...? -
- Ma le cameriere più giovani pensano che Len sia la loro padroncina! -
- Ciò non impedisce loro di obbedire a qualsiasi ordine Len impartisca loro. - sua madre sospirò: - In quel caso, scoprirebbero la verità. E saremmo al punto di partenza. -
Len sbattè le palpebre, piano: "... sapete che non ci avevo pensato, madre? Grazie del suggerimento!". Sorrise, divertito. Forse avrebbe potuto farci un pensiero.
- A questo, si aggiunge un altro problema. - stavolta era stato suo padre a parlare: - Un problema ben più evidente che, con il trascorrere del tempo, sarà sotto gli occhi di tutti. -
"Eh...?"
- Per quanto ancora potremo spacciare Len per una ragazza? - la voce di suo padre si era alzata di nuovo: - Saranno gli stessi tratti del suo viso a tradirlo! Le spalle! La voce! Per quanto si possano nascondere i fianchi e il busto, per quanto si possa imitare un corpo femminile, non si può impedire ai suoi tratti di farsi più duri, né alla sua voce di abbassarsi! -
Un sospiro. Probabilmente, era stato suo padre.
Il cuore battè ancora più forte.
Non gli piaceva.
Non gli piaceva.
Non gli piaceva.
- Mi chiedevo se... - la voce di suo padre era diventata un sussurro. Premette l'orecchio contro la porta con maggior forza, trattenne il respiro.
- ... se non dovessimo... intervenire. -
"Intervenire?"
- Intervenire, Vostra Grazia? -
Una pausa.
- ... come fanno ad alcuni cantanti. Hanno la voce bianca e il loro aspetto non è virile. Alcuni di loro, anzi, sembrano quasi delle vere donne. Inoltre, questo dovrebbe anche spegnere qualsiasi suo desiderio. -.
Sgranò gli occhi.
Fecero male.
Schiuse le labbra.
Il sangue si gelò nelle vene.
Il cuore batteva troppo forte.
Pompava ghiaccio.
Qualcosa gli strinse la gola, mozzandogli il respiro.
Le mani tremarono.
Le gambe erano troppo deboli.
"No..."
I piedi erano conficcati nel pavimento.
Il suo viso non voleva staccarsi dalla porta.
Stava soffocando.
"No... non..."
Qualcosa scivolò lungo le guance roventi.
Una mano si schiaffò sulla bocca, contro la sua volontà, soffocando un gemito.
La labbra erano ghiacciate.
La mano tremava.
"No... vi prego, non... vi prego... vi prego... vi prego..." strinse i denti, fino a sentire fitte di dolore: "Vi supplico... vi... no..."
Premette la mano contro la bocca, ancora di più.
L'altra stringeva la stoffa del vestito, all'altezza del cuore, per impedirgli di distruggergli il petto.
Ogni battito era una coltellata di ghiaccio.
"Vi prego... vi..."
- Temo che ora sia un po' tardi, Vostra Grazia. -
La voce del dottore.
"Vi prego, vi prego..."
- Per quanto vostro figlio non sia ancora un uomo, lo sviluppo è già iniziato. Per questo motivo, posso dirvi con una certa sicurezza che, così come la sua corporatura promette di rimanere piccola, Len non svilupperà tratti marcatamente maschili. E' praticamente certo che manterrà il suo aspetto androgino anche da adulto. -
"Vi prego..."
- Capisco... - il sospiro di suo padre: - Dite che è inutile? -
- Sì, mio signore. -
- Allora non sottoporrò Len ad una cosa del genere. -
Le gambe cedettero.
Len cadde in ginocchio sul pavimento, il corpo che tornava a scaldarsi, l'aria che riempieva i polmoni, le lacrime che non smettevano di cadere.
"Ah..." si strinse nelle spalle, deglutì, finalmente la gola era libera: "... ah... sono... non mi faranno niente... va tutto bene... ah...".
Si alzò.
Andò nella sua camera.
"Rimarrò così..."
Si liberò dei vestiti.
"Non mi faranno niente, rimarrò così..."
Riuscì ad allentare il corsetto, sfilandoselo.
"Non mi faranno niente, vado bene così..."
Si guardò allo specchio.
Il suo corpo.
Sarebbe rimasto così.
Integro.
Non l'avrebbero toccato.
Andava bene così.
Andava bene così.
Andava bene così.
"Se solo fossi nata donna..."
Andava bene così.
Andava bene così.
"Se solo fossi nata altrove..."
Andava bene così.
"Non mi toccheranno..." incrociò le braccia al petto: "Non mi faranno niente... rimarrò così... così..."
Guardò quegli occhi azzurri nello specchio, spalancati, spaventati.
"Anche se non sono... anche se non sono come sarei dovuta essere... anche se non sono come vogliono loro... io..."
Allungò la mano.
Sfiorò le dita del suo riflesso.
"Io... vado bene così... vero...?"
Toccò quei polpastrelli riflessi.
"Anche se non sono come dovrei... anche se non sono come vogliono... non mi toccherranno... non mi..."
Il cuore fece male.
Le labbra si schiusero.
"Io... volevano... sono così sbagliata da volermi...?"
Una fitta violenta.
"Non vado bene... quindi... volevano... mutilarmi...?"
Mutilarlo.
Ferirlo.
Farlo a pezzi.
Distruggerlo.
In frammenti.
Tanti.
Impossibili da rimettere insieme.
Affilati.
Sparsi ovunque.
"Perché...?"
Portò le mani al viso.
"Perché io...?"
Sfiorò le guance.
"Perché...?"
Gli occhi erano troppo grandi.
Non
potrò
mai
avere
niente

"Era tutto finto..."
Donna
inutile

"Io volevo solo..."
Uomo
inutile

"Volevo..."
Sempre
"Volevo soltanto..."
Ogni
cosa
rimarrà
uguale

"Io..."
Tu
rimarrai
sempre
uguale

"Io..."
Non
avrai
mai
nulla

"NON M'IMPORTA ESSERE UN UOMO O UNA DONNA!"
Le ginocchia e i pugni si schiantarono contro il pavimento.
"Voglio solo essere"
felice
"me."

Si lasciò cadere.
Sul pavimento lucido di quella casa tutta uguale, dai mobili tutti uguali, dai corridoi tutti uguali e dalle scale tutte uguali.
La casa che non sarebbe mai cambiata.
La casa di cui lei era la perfetta signora.
Eternamente immobile.
Che, immobile, vedeva vivere i suoi abitanti, a volte riflettendone la felicità, la tristezza, le emozioni.
Si limitava a guardarli, come loro guardavano lui.
Li guardava, immobile, come uno specchio.
La sua vita, i suoi sogni, le altre persone non erano altro che riflessi nello specchio.
Solo immagini che apparivano e svanivano, senza lasciare traccia visibile ad occhi esterni.
Lo specchio teneva quelle immagini dentro di sé, rivedeva quei riflessi.
Erano felici. Erano tristi.
Erano la sua vita.
Che si era frantumata in miliardi di pezzi.

Ne sentiva l'eco.
Risuonava piano nel suo petto.
Guardò il suo riflesso nello specchio.
Incontrò il suo stesso sguardo.
Sembrava stanco.
"Se mi uccidessi, diventerebbe più facile?".

Perché era successo tutto quello?
"Perché proprio io...?"
Perché non poteva avere ciò che desiderava davvero?
"Non è stata colpa mia..."
Perché gli altri l'avevano ingannato e distrutto?
"Perché...?"
Chiuse gli occhi.
"Le persone fanno le cose per stare bene."
Sentiva a malapena il freddo del pavimento.
"Le persone cercano la felicità. Non fanno cose che li fanno stare male. Quindi..."
Riaprì gli occhi.
"... quello che loro mi hanno fatto l'hanno fatto per essere felici...?"
Ricordò la storia dello zio Al.
Sì.
L'avevano fatto per il bene di qualcuno.
"Se sono felici, vuol dire che a loro piace tutto questo. Quindi, per loro, tutto questo è divertente.".
Ora aveva capito davvero.
"... quindi è questo che significa divertente...?".
Sorrise.
"Anch'io voglio divertirmi.".






Note:
* All'epoca, gli uomini portavano la camicia a diretto contatto con la pelle: di conseguenza, vedere un uomo con indosso solo la camicia era quasi equiparabile al vederlo in biancheria.
* Le donne (soprattutto inglesi) non facevano il bagno nude, ma s'immergevano nella vasca indossando una lunga camicia di stoffa leggera, la camiciola - perché non stava bene che una donna guardasse o toccasse il proprio corpo nudo. Di conseguenza, per pulirsi, si metteva l'eventuale sapone sulla stoffa e si sfregava la pelle con quella, a mo' di spugna - oppure si sfregava sulla pelle e basta, sempre stile spugna, ma senza sapone.
* Il discorso sull'amore che la signora Mirror fa a Len, per quanto estremizzato, non è poi così lontano dalla reale visione che molti nobili avevano dei "matrimoni per sentimento".
* Gli impulsi sessuali, per gli uomini, erano bisogni. Le donne, invece, non avevano impulsi sessuali. *Fine della questione.* Ovviamente era ciò che si riteneva "rispettabile" all'epoca.
* "Ne sentiva l'eco. Risuonava piano nel suo petto. [...] "Se mi uccidessi, diventerebbe più facile?"": Lovelessxxx, la strofa di Len.
[Un'eco risuona dolcemente nel petto / Se finissi con l'uccidere / diventerebbe più facile?]
(In realtà, nel testo non specifica "uccidersi", tuttavia ho visto svariate traduzioni porre la strofa in quel modo e ne ho approfittato. Allo stesso modo, ho preferito mettere "piano" piuttosto che "dolcemente".)




Ebbene sì: sono appena finiti i flashback... e tornano i flashback! *O* (E stavolta non ci sono alternanze col presente.)
Non avrete mica pensato che tutte le spiegazioni giungessero con una pacata chiacchierata amichevole? U.U
E, sì, questo, nelle mie idee, sarebbe dovuto essere il penultimo capitolo. Ovviamente, come avevo già preannunciato, è finito con lo scindersi in quat- TRE capitoli. °A°"
Quindi, sì, per i prossimi quat- TRE capitoli, il POV passa a Len - con annesse tutte le spiegazioni varie ed eventuali.

Alla fine, anche la seconda plurinominata dopo Gumi, Lily, ha fatto la sua apparizione. *O*
Non di meno, ha fatto la sua apparizione pure una citazione diretta da Lovelessxxx. Sì, giusto perché la storia è ispirata a quella, ci sono tutti questi riferimenti tanto diretti... *coff*
Se qualcuno avesse notato somiglianze tra video e storia nella scena di Len che passeggia nei corridoi bui, sbircia attraverso lo spiraglio di una porta socchiusa e vede cose... sì, anche quella è un'altra simil-citazione. *Soltanto che, qui, Len non vede Kaito e Gakupo.*
A tal proposito...
... confesso che questo è stato il capitolo per me più difficile da scrivere, in assoluto. .___.
Non scrivo spesso cose del genere (anzi), quindi non ne sono molto pratica. Spero di essere riuscita a rendere i contrasti e le emozioni di Len. .___.

Inoltre, mi pare che questo sia anche il capitolo (finora) più lungo. °^°
Scusatemi.

Se così fosse, ciò è in parte un bene (?): la prossima settimana non aggiornerò, quindi ci sta un capitolo più corposo del solito! *O* *Eh?*
Sto davvero avvisando di un ritardo nel postaggio? *Qual bizzarra sensazione... sono eoni che non faceva una cosa simile...*

Spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Per qualsiasi consiglio o critica, dite pure. ^^
  
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