In quel Giardino la fissavano le rose, come giudici implacabili guardavano. intrecci di cavi spezzati, la guardavano sul sentiero del non sole, sul sentiero la portavano.
"Come posso uscire?" chiese lei, piangendo lacrime di fiori.
"Mai" rispose lui, esso, il corvo, il morto. "Io ti ho presa e posseduta, sei persa, sei perduta. Esci da me, entra in me, legata, sei cucita alla mia mano."
Pianse rosso di porpora, lei mangiò i cocci del suo cuore.
Il garofano si strappò, il glicine impazzì, il gladiolo la ferì.
"Sei nel Giardino delle Rose, loro col tuo volto, tu legata a loro."
E non seppe come uscire dal cielo così rosso.
I sogni sono la realtà. La realtà è una prigione.
"Io camminai ad occhi cuciti per il Giardino."
I sogni sono una prigione.
"E come ne uscisti?"
Le rose sfiorirono.
"Non ne uscii mai. Non posso vedere. Io che non vedo non posso svegliarmi."
“C'è uno specchio, nel giardino.
Mi osserva.
Ha dei grandi occhi con cui scruta il mondo e l'avvenire.
Ho paura. Mi spaventa.
È incrinato.”
Camminò sul sentiero senza luce, il tramonto era bruciato già da ore. Era sola, sola tra le siepi, tra i rovi, tra le edere. Mentre camminava, piovevano pietre.
Ogni pietra che la colpiva lasciava un graffio sulla sua pelle; il sangue le sferzava il viso, le mani, le gambe, lasciava tracce di colpa e di morte.
“Perdono!”, gridò lei, serrandosi il petto e la gola, cercando un macigno che la seppellisse e la abbandonasse ai suoi peccati. “Salvatemi”, pregò, sussurrando, coprendosi il volto, cercando la via scarlatta che la portasse alla distruzione.
“Non v'è pace per noi, quaggiù”, sentì lui che bisbigliava, afferrandola, salvandola, dannandola.
E la ferì, guarendola.