A chi ama e non lo dice.
“A Pippi!” disse
Liam.
“A Pippi!” urlarono tutti gli altri.
“Oh, andiamo,
ancora quel nomignolo ridicolo!”
“Eri identica a Pippi Calzelunghe, Mary. Trecce,
capelli rossi e calze colorate”.
“Avevo 9 anni,
Louis!”
Lui mi abbracciò,
soffiando un “rimarrai sempre la nostra Pippi, anche
dall’altro lato dell’oceano” che mi scombinò la frangia e l’umore. Mi
rifugiai tra le pieghe della sua giacca di jeans. Mi sarebbe mancato il profumo
leggero del suo dopobarba e la sua idea di risolvere tutto con gli abbracci e
col the. Probabilmente anche le camicie a quadri di Liam, abbottonate fino al
colletto, il modo pacato di dire le cose e la capacità di…
“Lou, che
ha Niall?”
Il ragazzo biondo
in questione se ne stava seduto sul divano, facendo scorrere distrattamente le
dita lunghe sul collo della bottiglia di birra che aveva tra le mani,
stranamente ancora a metà. Aveva un’espressione apatica incastrata sul viso, in
netto contrasto col suo solito sorriso enorme e il continuo chiacchiericcio di
sempre. Niall era un tipo rumoroso, affetto da una strana forma di allegria
contagiosa, perennemente in attività.
“Ieri al Funky
una ragazza lo ha avvicinato” fece Liam, dietro alle spalle di Louis.
Alzai lo sguardo
dal tessuto celeste, senza perdere il contatto con Lou e lo guardai perplessa, “Beh,
che c’è di male?”.
“C’è che gli ha
ballato addosso tutta la sera e poi gli ha chiesto il numero di tuo fratello”.
Liam confermò le
parole di Louis annuendo, poi scoccò un’occhiata triste in direzione di Niall,
che non si era mosso di un centimetro per tutta la serata.
“Ha cominciato a
fare i soliti discorsi. Lo sai come fa quando va in paranoia: sono
brutto, ho i denti storti, sono troppo infantile. Il solito Niall”, concluse
Louis quasi infastidito da quanto la facesse tragica. Mi baciò la testa e si
allontanò per chiedere a Harry di passargli i pop corn.
I miei amici si erano presentati alle nove e un quarto del mio ultimo mercoledì
inglese, sfidando il diluvio di metà ottobre, per venire a salutarmi. La mia
stanza sembrava il luogo di una catastrofe naturale e un’esplosione atomica
insieme: c’erano vestiti ovunque, fotografie sparpagliate sulla scrivania, due
scatoloni chiusi con il nastro adesivo e un trolley azzurro accanto al letto,
uno zainetto e il portatile a terra, i biglietti e la convocazione nella
bacheca affianco alla porta.
“Perché te ne vai
in America? Le università inglesi non sono abbastanza all’altezza, per te?”. Harry
aveva dato di matto quando l’aveva saputo. Immagino che sia sempre un po’ cosi
in questi casi e quel troppo masticato “si comprende il valore
delle cose solo quando le si perde” forse un po’ di ragione ce l’abbia. Non
avevamo niente di speciale, in fondo. Come tutti i fratelli litigavamo una
volta al giorno, dal mattino fino alla sera. Per il telecomando, le chiavi
della macchina, le converse e per chi dovesse portare fuori la spazzatura. Ci
dividevano un anno e mezzo e un mare di interessi differenti, eppure avevamo
sempre diviso le capanne con le lenzuola e le sedie da piccoli, smezzavamo i
biscotti sul divano guardando i Simpsons, ce ne andavamo mezzi nudi per casa,
abituati l’uno all’altra, ci coprivamo a vicenda con la mamma e il papà,
conoscevamo a memoria i nomi di tutti i nostri cantanti preferiti, attori e
serie tv e anche quelli dei ragazzi e delle ragazze che ci piacevano. Avevamo
pressoché gli stessi amici, questi quatto soggetti ed Amber e Sun, la sua nuova ragazza, avevamo frequentato la stessa
scuola, lo stesso corso per il catechismo e per un po’ ci eravamo anche
iscritti a tennis insieme.
“Harry! Tua
sorella ha vinto una borsa di studio per una delle più prestigiose università
del mondo. Dovresti essere contento per lei, non farla sentire in colpa”.
E poi la sua porta sbattè.
La settimana
successiva mi ritrovai a sperare che Harry potesse perdonarmi un giorno, che
anche se mi evitava non mi odiasse, presi anche in considerazione l’idea di
rimanere. Fino a quando non si presentò in camera mia con la sua tazza per la
colazione e un pacco dei nostri biscotti preferiti.
“Per il the delle
cinque – si strinse nelle spalle – quelli mangiano solo hamburger” disse ed era
più di un’offerta di pace.
Mi mancherai
terribilmente anche tu, Harry.
Passammo tutta la
settimana a parlare, più di quanto non avessimo fatto in 19 anni di convivenza.
Guardavamo continuamente film e passavamo la notte nel suo letto, che era il
più grande, a guardare vecchie fotografie e ridere di noi.
Harry mi aveva perdonata e stava facendo in modo che partissi senza sentirmi in
colpa, stava cercando di liberarmi dalla malinconia e il rimpianto che
probabilmente mi avrebbero riportata lì dopo un paio di mesi.
Forse potevo fare
qualcosa anche io per i miei amici.
Mi avvicinai al biondo, accovacciandomi sulle ginocchia e poggiai le mani sulle
sue gambe.
“Niall, mi dai
una mano con la valigia? Non si chiude”.
Mi rivolse uno
sguardo vacuo, prima di mettermi a fuoco e sorrise, alzandosi. Lasciò la
bottiglia sul tavolino e mi seguì su per le scale, fino in camera mia. Tirò sui
gomiti le maniche del maglione bianco, avvicinandosi al trolley.
“Lascia perdere
la valigia” dissi, chiudendomi la porta alle spalle. Niall si voltò perplesso,
guardandomi senza capire.
“Senti, Nì, lo sai che ti voglio bene, vero?”
Annuì, “anche io
te ne voglio, Mary”.
La solita
sensazione di calore si depositò sul fondo dello stomaco e ai margini delle
guance, la ignorai.
“Liam me l’ha
detto” ammisi, senza girarci troppo attorno, “di ieri”.
La sua
espressione si incupì, si toccò i gomiti scoperti, a disagio, mormorando un
“Liam non sta mai zitto”.
“Ascolta, tu...”
“No – mi
interruppe, innervosendosi – non cominciare anche tu, per favore. La conosco la
storiella della bellezza soggettiva e della prossima volta sarà quella buona,
me l’hanno già raccontata un miliardo di volte, ok? La valigia è pronta,
possiamo anche andarcene di la, è la tua festa. Domani parti, questa cosa non
ti riguarda”.
Il suo tono era
freddo e deluso, non assomigliava nemmeno un po’ al calore della sua voce, al
timbro allegro del mio amico sempre solare. Mi si strinse cosi tanto il cuore,
per un attimo mi raggelai sul posto, incapace di muovermi o dire una parola.
Lui si avvicinò alla porta, intenzionato a sparire di nuovo in salotto.
“No, Niall, aspetta.
Ti prego”, gli afferrai il polso destro, fermandolo.
“Cos’altro c’è?”
chiese, con lo stesso tono tagliente di poco prima.
Fece male in un
punto indefinito, gli occhi cominciarono a pizzicarmi. Feci due passi in avanti
e gli avvolsi le braccia al collo, non sapendo che altro fare.
Perché le persone
si sentivano in diritto di ferire una persona come lui? Perché non riuscivano a
capire quanto potenziale avesse e perché nessuno si fermava mai a guardare
quanto meravigliose le cose sembrassero accanto a lui?
“Scusa” mormorai, allontanandomi un po’, “nessuna storiella, promesso. Mi
dispiace vederti cosi Niall, mi dispiace perché ti voglio bene. Perché sei mio
amico e sei una delle persone più belle che abbia mai incontrato. Vuoi bene ai
ragazzi, vuoi bene alla tua famiglia e, per qualche assurdo motivo, anche a me.
Sei la persona più sincera e dolce che esista”
Mi guardava negli occhi, ora, perfettamente immobile.
“Le persone
spesso non capiscono. Non ti conoscono. Loro non passano del tempo con te, non
ti vedono, Niall. Ti guardano senza vederti. Pensano di potersi basare su una
prima impressione, su un’occhiata di sbieco per poterti considerare di serie b
e passare agli altri. Non dare loro questo potere, non lasciare che siano le
persone a dire chi sei. Solo perché non piaci a qualcuno non significa che tu
non sia abbastanza perché qualcuno ti ami. Tu, i ragazzi, avete vent’anni,
siete perfetti. E tu… dio, hai gli occhi più belli del mondo!”.
Scosse la testa.
Gli presi la mano e lo trascinai davanti allo specchio. “Guardati, Niall.
Assomigli al principe azzurro che tutte le ragazze sognano. Sei bellissimo -
continuai, anche se sapevo di essere arrossita - ma soprattutto sei bello qui”
dissi, appoggiandogli una mano sul petto, all’altezza del cuore. Percepivo il
calore della sua pelle e il suo battito frenetico, mentre due grandi lacrime
cominciarono a scivolargli sulle guance. Pianse in silenzio, senza singhiozzi,
senza respiri affettati, guardando la nostra immagine riflessa nello specchio.
Mi abbracciò e mi sentii vacillare, come davanti alla porta chiusa di Harry.
Stavo facendo la
scelta giusta? Volevo davvero andare via?
La luce gialla
della scrivania faceva delle strane ombre sul suo viso, sembrava
improvvisamente stanco, un bambino che aveva pianto troppo. Gli asciugai il
viso con la manica della felpa, tirata fino a coprire le dita.
“Anche tu sognavi
il principe azzurro?” mormorò, mentre passavo il lembo di stoffa su entrambe le
guance. Annuii.
“E lo hai trovato?” domandò.
Sospirai,
parlando con il tono che si usa di solito con i bambini. “Credo di no.
Ma, hey!, sono Pippi Calzelunghe, no? Navigo con
i pirati e colleziono forzieri d’oro, mica aspetto i principi, io!”
Niall rise e mi
lasciò un bacio umido sulla guancia. Si avvicinò nuovamente alla porta e prima
di aprirla si voltò di nuovo a guardarmi. “Mi mancherai, Mary. Quand’è che sei
cresciuta cosi tanto?”
Per un attimo mi
persi a pensare che a volte le persone non si accorgono di quello che capita
sotto il loro naso, troppo occupate a cercare altri grandi orizzonti. Gli sorrisi
e con una leggera spinta lo precedetti giù per le scale.
Probabilmente una fotografia non avrebbe reso giustizia alle espressioni che
avevamo nemmeno un’ora dopo. Zayn era ubriaco e diceva cose senza senso che
facevano morire dalle risate Louis ogni cinque minuti, distraendolo dalla
partita alla play con Niall che, ripresosi, lo stava vergognosamente
battendo. Liam, Harry e Amber fecero una lista di cose che dovevo
assolutamente portare loro dagli States e
ripetettero le loro raccomandazioni almeno quattro volte. Dopo il quinto
brindisi, a Pippi, al futuro, a Niall che ha
smesso di frignare, alla nuova tinta di Amber e alle mutande a cuoricini di Harry,
eravamo decisamente troppo brilli per rimanere svegli ancora per molto.
Avevo chiesto ai
ragazzi di non venire all’aeroporto, per evitare quelle patetiche scena da film
in cui tutti piangono e si scambiano pacche sulle spalle e fazzolettini per
consolarsi. Cosi mi strinsero a turno, dieci minuti ciascuno, Amber pianse,
Zayn pure ma la colpa era di tutta la vodka che aveva nel sangue – l’alcool lo
rendeva particolarmente sentimentale - e Niall mi ringraziò ancora.
“Mi raccomando. Tieni Skype acceso e mandami le foto
della festa di Boomer, la settimana prossima, che
Harry sicuro si dimentica”
“Non credo di andarci”. Tastò il giubbino alla ricerca del suo berretto grigio.
"Perché?”
“Beh, non ho nessuno con cui andare. E’ una specie di festa a tema, a coppie e
io, sai, se ci fossi stata tu magari…”.
Il cappello scivolò da una tasca aperta e cadde a terra. Lo raccolsi e invece
di porgerglielo mi sporsi per infilarlo sui capelli biondi, avvicinandomi al
suo orecchio per non farmi sentire dagli altri.
“Non dirlo ad
Amber, d’accordo? Ma diciamo che se tu la invitassi, lei… sarebbe molto
contenta, ok?” gli feci l’occhiolino, allontanandomi. Lui scoppiò a ridere e mi
baciò le guance.
Harry chiuse la porta e sospirò, guardandomi come faceva sempre quando prendevo
una delle sue felpe senza permesso.
“Pensavo glielo avresti detto, sai? Quando siete andati di sopra. Avrebbe
trovato il modo di farla funzionare, lo sai com’è.”
“E’ meglio cosi, Har. Starà bene con Amber.”
“Sarebbe stato
meglio con te e lo sai anche tu. Ma hai deciso di fare questa cosa, di rendere
tutti felici anche senza di te, come se avessi una cazzo di malattia e non
tornassi più”. Si sedette sul divano, battendo i pugni sulle cosce.
“Dobbiamo
litigare anche stasera?” mi sedetti anche io, poco distante, guardandolo.
Lui sospirò e
scosse la testa. “Hai ragione. Ci sono le repliche di The Big Bang Theory a quest’ora. Prendi il plaid” disse, scostando il
cuscino che ci divideva. Raccolsi la coperta dalla poltrona e mi sistemai tra
le sue braccia.
Mi mancherai anche tu, Harry.
E' un'OS senza alcuna pretesa, a partire dalla banalità dei nomi (vedi Amber)
fino al modo in cui si è strutturata.
Mi
andava di postarla soltanto perché mi ricorda qualcosa di me e non sapevo come
tirarlo fuori. Quindi, niente. Quest'è.