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Autore: Nitrogen    03/04/2014    2 recensioni
Axelle Ferroux è una psicologa qualsiasi: ascolta le disconnesse confessioni delle persone che le chiedono aiuto, appunta su carta i loro pensieri e ne trae conclusioni nella speranza che il suo lavoro serva loro per vivere un'esistenza migliore.
Tra i suoi innumerevoli pazienti vi è Jonathan, un comunissimo diciassettenne che, con fatica, le rivela un frammento del suo passato.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Candida,
perché dopo aver sopportato per un anno la sottoscritta
dedicarle una one-shot è il minimo io possa fare.
 
 

 
 
 
Campana di vetro
____________________
 
 
 
 
 
«Vuoi parlarne?»
Sospiro prevenuto: non ho nessun problema a parlarne, solo detesto l’espressione di rammarico che noto continuamente sul loro volto quando rivelo questo insignificante dettaglio.
Ma lei lo sa, lei legge i miei movimenti, la mia postura e le mie azioni; sa che la pena è un sentimento che detesto e fa dunque il possibile per non mostrarlo.
«No, non voglio. Però posso, se vuole posso farlo.»
«Se ne parli non è per fare un favore a me, Jonathan, e inoltre non ti costringo a dir nulla contro la tua volontà.»
E punta i suoi occhi vitrei nei miei, che sfuggono al contatto non appena se ne rendono conto. L’ha fatto di nuovo, per quei pochi istanti che è riuscita a entrarmi dentro mi ha messo in agitazione.
Mi ha praticamente detto che sono libero di scegliere se parlarne o meno, eppure il suo sguardo sembra suggerirmi il contrario come le altre volte, come i precedenti due giovedì prima di questo. Decido di arrendermi sospirando di nuovo, lasciando che lei noti tutta la mia frustrazione nel dover stare in quella minuscola stanza troppo in ordine, seduto su una sedia che trovo scomoda perché il lettino mi mette ancora più ansia, e costretto a rispondere controvoglia alle sue infinite domande.
«Il divorzio dei miei genitori non ha avuto alcuna influenza sul mio attuale brutto carattere.», dichiaro prima che lei inizi a formulare ipotesi.
Lei, ovviamente, non è intenzionata a credermi; ciononostante annuisce e segna qualcosa sul taccuino che non mi è concesso vedere.
«Da quando i tuoi genitori sono divorziati, Jonathan?»
Devo aver contratto la mascella o spostato lo sguardo altrove perché Axelle[1] socchiude gli occhi per analizzare la mia reazione, evidentemente insolita.
Dico tutto di getto, allarmato: «In realtà non sono ancora divorziati. Sono… Sono solo separati da non so esattamente quando, ma so che nel 2010 hanno iniziato entrambi a dire “Ci siamo separati”. Mia madre adesso vive con me e mia sorella, mio padre invece con mia zia vedova da… Dio, non ne ho idea, non sono bravo a ricordare le date.»
«Non è importante, non crucciarti.», mi dice. «Cerca di rilassarti. Vuoi un bicchiere d’acqua?»
Annuisco, poi scuoto la testa.
Porto nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio e cerco di ricompormi: «Dicevo, i miei genitori sono separati. Potranno chiedere il divorzio dal prossimo anno.»
«E a te, l’avere genitori che non stanno più insieme, da fastidio?»
Scuoto di nuovo la testa e lei mi domanda il motivo. Mi prendo qualche attimo per pensare poiché mi rendo conto di quanto questa domanda possa influenzare la sua valutazione sul mio stato e non voglio mi creda più debole di quanto già non pensi.
«Jonathan?»
«I miei genitori litigavano spesso anche se facevano in modo di tenerlo nascosto a noi figli. Non andavano più d’accordo, non si amavano più, o forse era solo mia madre a non provare alcun sentimento per mio padre, non saprei con esattezza. Ma sono convinto di una cosa, dottoressa Ferroux[2]: se due persone non si amano, non dovrebbero stare insieme. È un suicidio.»
«Perché pensi questo?»
«Perché quando due persone non si amano, non fanno altro che distruggersi a vicenda.»
Axelle sembra essersi sorpresa poiché continua a guardarmi con quei suoi occhi vitrei senza spostare lo sguardo al taccuino. In realtà il suo volto è privo di espressione come sempre, eppure mi piace credere che per qualche attimo lei abbia smesso di trascrivere la mia testa su quei fogli perché catturata dalle mie parole.
«Erano frequenti i litigi?»
«Litigavano circa ogni quattro o cinque giorni, spesso per cose futili, risolvibili con un po’ di calma in più, ma non l’hanno mai fatto di fronte a me o mia sorella. Mio padre metteva il broncio e mia madre diveniva di poche parole, ma qualunque cosa accadesse uscivamo sempre tutti e quattro insieme quando non si lavorava o non si andava scuola; per questo motivo, nessuno capiva la causa della separazione dei miei, all’inizio.» Gli angoli della mia bocca si inarcarono inconsciamente verso l’alto prima di continuare. «Come marito e moglie lasciano parecchio a desiderare, in privato, ma sono dei genitori fantastici e degli attori niente male.»
«Se non litigavano quando eravate presenti tu e tua sorella, come fai a dire lo facessero?», chiese poi lei, non senza una ragione. «Non può avertene parlato nessuno perché tenevano nascoste le loro discordanze ad amici e parenti, dunque mi lasci pensare sia un controsenso.»
«La mia casa ha due piani, dottoressa. Se io e mia sorella siamo al pian terreno, loro possono salire a quello superiore e viceversa. La differenza tra i due piani è sufficiente a non farsi sentire, ma se si è già a metà della rampa di scale qualcosa si può capire.»
«Quindi tu hai saputo delle loro discordanze in questo modo…» e annota quella conclusione prima di proseguire.
Annuisco distrattamente per confermare, capendo dal suo sguardo che non le basta un simile gesto come risposta. Senza che lei lo sappia impreco, poi sospiro maledicendo mia madre per aver scelto Axelle come mia psicologia e non qualcun altro: a lei importa davvero la mia saluta mentale, non è come tutti gli altri incontrati fin’ora.
«Non capisco cosa vuole sapere.», mento.
«Di cosa discutevano?»
«Di cose stupide e banali. Non amandosi litigavano per sciocchezze, l’ho già detto prima. Perché me lo fa ripetere?»
China il capo da un lato e sorride quasi impercettibilmente.
«Se fossero tanto stupide e banali come dici, mi avresti fatto un esempio perché ami perdere tempo raccontando cose che reputi futili per non esporti troppo.»
Dannata, non la sopporto.
«Anzi, rettifico: tu ami farmi perdere tempo raccontando cose che reputi futili per non esporti troppo e farmi capire cosa pensi. Temi così tanto io ti legga dentro che reagisci in modo innaturale, e io ti conosco, lo capisco. Puoi smetterla di dire menzogne, Jonathan, non ti serviranno a nulla. Oltretutto, conosco la tua situazione economica e dunque gradirei tu andassi via se non hai intenzione di collaborare con me: faresti solo sprecare soldi inutilmente a tua madre, e non mi sembra davvero il caso.»
Chiara e concisa, esaustiva e diretta. Inizia seriamente a concretizzarsi la mia taciuta idea che quella donna diventi in un futuro prossimo o lontano il mio peggior tormento.
«Dunque, Jonathan? Cosa vuoi fare?», chiede impaziente interrompendo il mio silenzio.
Strabuzzo gli occhi e affondo le dita nei manici in pelle della sedia, come se questo servisse a calmarmi, a far svanire quell’immagine di Axelle seduta di fronte a me, intenta a studiarmi con quel dannatissimo taccuino in una mano e la penna nell’altra. Se solo lei fosse come gli altri, che fanno il loro lavoro unicamente per i soldi, forse sarei davvero contento di perdere un’ora a settimana in una stanza tanto piccola.
«Spesso i miei genitori litigavano per questioni economiche.» inizio cercando di risultare  impassibile, «Mio padre non ha mai voluto mia madre lavorasse, ma di solito i soldi che lui le dava tutti i giorni per fare la spesa o altro di essenziale bastavano. I problemi sorgevano quando mia madre gli chiedeva altri soldi, per dei nuovi vestiti o visite mediche solitamente per noi figli: lui se ne usciva con “È necessario?” e iniziavano a litigare.»
«Come giudicheresti il comportamento di tuo padre?»
Scuoto le spalle e cerco di prendere tempo. Quando devo parlare della mia situazione familiare risulto sempre troppo schietto e senza filtri, e non sempre è bello ciò che dico. Provo a dirmi di essere il più delicato possibile, eppure il risultato è pessimo.
«Sono sicuro mi volesse bene, ma evidentemente non capiva o era troppo tirchio da fregarsene. Buon genitore, certo, però alla fine era mia madre che faceva tutto per noi, lui portava solo i soldi a casa e non ci ha mai chiesto se avessimo bisogno di qualcosa, se ci mancasse qualcosa. È come se desse tutto questo per scontato. Mia madre, dunque, doveva farsi in quattro e convincerlo a darle altri soldi dopo litigi interminabili, magari che proseguivano per giorni e giorni.»
«E tu ascoltavi tutto in silenzio quando capitava li origliassi?»
«Non che potessi fare altrimenti essendo un bambino… E poi alla fine tutto andava per il meglio, bastava solo insistere. I problemi veri e propri iniziarono solo successivamente perché fino ad allora mia madre non aveva mostrato nessun segno di cedimento.», dico continuando a risultare atono e annoiato.
Ad ogni parola, Axelle sembra sempre più presa dal racconto, come se tutto ciò fosse una bella storia d’amore presa da chissà quale libro di favole. Cerco un suo silenzio che arriva, ed io proseguo non avendo la benché minima idea di dove e quando concludere la tragica narrazione. Ma dopotutto è questo che vuole da me, che io parli senza sosta fino a quando non troverà una falla nella mia vita che le faccia credere mi abbia cambiato radicalmente.
È il suo lavoro, forse dovrei solo rassegnarmi a questo suo compito.
«Non saprei darle una data esatta, ma dal 2008 o 2009 mio padre circa cinquantenne decise di punto in bianco di licenziarsi dal suo lavoro fisso di caporeparto di un’industria tessile perché non era quello che voleva nella vita.» Rido, inizialmente non me ne rendo nemmeno conto. «Ogni volta che ci penso, mi chiedo come mia madre abbia fatto a “sopravvivere” dopo aver avuto una notizia del genere e aver dunque perso l’unica sicurezza economica che aveva. Oh, e non dimentichiamo che dopo questo avvenimento mio padre cambiò totalmente con lei, dunque perse anche suo marito. Dottoressa, lei capisce la rabbia di mia madre? In quel matrimonio durato sedici anni nulla era mai andato per il verso giusto, ma in quel caso si toccò quasi il fondo.»
«Tu e tua sorella sapevate qualcosa di tutto ciò?»
«Se devo essere onesto non ricordo bene cosa ci venne detto. Avevo dodici o tredici anni, ero abbastanza grande da poterlo ricordare, eppure ho solo qualche frammento qua e là su questa cosa, forse perché non ho mai compreso del tutto la vicenda nemmeno io. Credo ci dissero che era stato licenziato, che c’era stato un disguido con il datore di lavoro o giù di lì e papà se ne dovette andare. “Povero papà”, sono sicuro volessero farci pensare qualcosa del genere. Con me non funzionò del tutto, c’erano troppe cose che non quadravano.» La fisso ininterrottamente per qualche istante, poi torno a osservare le mie mani distrutte e arrossate a causa del mio nervosismo, delle mie torture. «Nel giro di pochi mesi la mia situazione familiare cambiò radicalmente: mio padre era sempre a casa, invece mia madre la vedevo ogni giorno di meno perché accettava qualunque lavoro trovasse. Arrivò al punto di fare anche due o tre lavori contemporaneamente, tornando a stento solo per la cena. Insomma, era lei che portava i soldi a casa, avrebbe potuto gestire tutto da sola per la tenacia e resistenza che si ritrova. Eppure dava tutto quel che riusciva a racimolare a mio padre, e lui decideva come gestirli: una cifra ben precisa per la spesa, gli extra erano fuori discussione come prima e le toccava pregarlo per averli.»
«Perché credi tua madre li desse a lui?»
«Non lo so, forse perché tutto sommato continuava a fidarsi di un fallito come lui. Dovrebbe chiederglielo, sono certo che qualche seduta anche a lei non farebbe male.»
E rido, con l’amaro che si espande nella mia bocca torturata così come le unghie. Non ho problemi a parlare dei miei genitori, solo non l’ho mai fatto così apertamente con un’altra persona, con uno sconosciuto.
«Per quanto le cose andarono avanti in questo modo?», chiede improvvisamente dopo aver smesso di rimuginare sulle mie parole.
Inizio a riflettere, mi pongo domande sconnesse che mi fanno solo andare in tilt. Non conosco la risposta, anche se mi sforzo non riesco a farmene un’idea: il mio passato non è altro che un ammasso indistinto di ricordi spesso non sufficienti a ricostruire determinati avvenimenti, soprattutto i più spiacevoli; la mia testa va in confusione ogni volta che tento di rievocare qualcosa che al primo tentativo mi sfugge totalmente.
Scuoto la testa e penso lei voglia farmi la grazia di non insistere come suo solito. Ovviamente mi sbaglio.
«Non devi dubitare così tanto dei tuoi ricordi.»
«Non dovrei? E se quello che pensassi non corrispondesse alla realtà? Se i miei ricordi non fossero veri perché quelli originali non mi piacciono? Lo so, l’ho letto: le persone possono creare dei falsi ricordi.»
Mi osserva sorpresa, forse perplessa dalle mie parole sature di futili paranoie. Sposta una ciocca scappata dalla coda ora davanti agli occhi e torna a mostrarsi impassibile, di nuovo.
«Se i tuoi ricordi sono stati modificati da te stesso come sistema di autodifesa o per qualunque altro motivo, non devi preoccupartene. Dimmi quello che pensi senza riflettere. Per quanto tempo è durata questa situazione?»
La psicologa decide di complicarmi ancora l’esistenza, e io non posso far altro che rispondere come lei vuole prima che passi nuovamente a ricordarmi quanti soldi riceve da mia madre per “il mio bene”, per tenermi con lei in quella piccola stanza.
«Non so darle una data.»
«Mi basta tu mi faccia capire a quale periodo della tua vita corrisponda.»
«Io… Credo tutto sia finito nell’arco di tempo che va dalla fine di giugno al 3 agosto.», dico come vuole lei, senza pensare.
«Spiegami perché proprio in quell’arco di tempo.»
«A Giugno conobbi una ragazzina di cui mi invaghii perdutamente, il 3 Agosto le diedi il mio primo bacio. E lo ricordo: quando la vidi per la prima volta i miei stavano ancora insieme, cenammo in un bel locale aperto da poco quella sera stessa; nel secondo caso, invece, raccontai di quanto accaduto solo a mia madre. Tutto il mio mondo è cambiato in un mese, assurdo.»
Accenna un sorriso compiaciuta, di conseguenza io mi acciglio.
«Ricordi qualche cambiamento o azione insolita nei tuoi genitori?»
Continuo a scuotere la testa: «Non lo so, gliel’ho già detto, non lo so. Ciononostante non lo escludo: un divorzio non si sceglie da una sera a una mattina.»
«Ma lo si dice al proprio marito o alla propria moglie in molto meno tempo.»
E capisco che i suoi occhi cercano assenso con una mia risposta che inizialmente non arriva. Farei di tutto per darle torto, ma di certo quel che dice non è sbagliato, anzi, ha appena fatto centro.
La guardo, per la prima volta in tre sedute lascio che i nostri occhi si incontrino per quello che è molto più di un semplice attimo. Vedo i suoi lineamenti divenire più morbidi, quasi assumere una leggera espressione di sofferenza; è come se le avessi appena aperto il cancello per entrare liberamente nella mia testa e Axelle stesse facendo un giro tra i miei ricordi, scoprendo tutto il dolore causato da quella separazione.
«Non vuoi parlarmene?», chiede distogliendo lei per prima lo sguardo.
«A patto che dopo questa seduta non se ne parli mai più.»
«Sai che non posso stare a questa condizione.»
«Allora mi illuda. Le permetto di mentirmi.»
Lei sorride, accontentandomi questa mia assurda richiesta: «Non riapriremo mai più questo argomento, Jonathan.»
Per quanto io sappia quella sia una menzogna, sentirle dire quelle parole mi tranquillizza e mi permette di rilassarmi. Devo solo raccontare quanto è accaduto, nient’altro.
Non dev’essere poi così difficile.
«Non ricordo la data precisa della rottura definitiva dei miei genitori, dunque penso sia stata una mattina qualunque di luglio, forse una domenica.», inizio cercando le parole giuste tra la confusione che ho nei miei ricordi, «Suppongo di essermi alzato dal letto ed essere sceso al piano terra in pigiama, come mio solito: in estate ero quasi sempre il primo a svegliarmi, quando mia madre non doveva lavorare. E come mio solito ho acceso il computer, ho messo le cuffie con la musica a volume molto alto e controllato quelle poche notifiche che poteva avere un tredicenne su Facebook. Non so più cosa posso aver fatto davanti a quell’affare, non ne ho memoria, ma di certo nulla di tanto rilevante da dover essere ricordato assolutamente. Quella mattina ero calmo, mi ero svegliato felice senza motivo e sorrisi vedendo arrivare Misha alle mie spalle. Sa, dottoressa, io e lei non andiamo spesso d’accordo.»
«Misha è il diminutivo che usi per chiamare tua sorella Michelle?»
Annuisco alla sua domanda, osservando come la sua penna graffi velocemente il foglio ormai pieno di scritte confusionarie. Sembrano rispecchiare esattamente quello che ho nella testa.
«Spesso i fratelli non vanno d’accordo, non è una cosa insolita.», dice subito dopo, quasi come se avesse ricordato qualche aneddoto sulla sua infanzia.
«Sì, ne sono consapevole, ma quella mattina sembrava ci volessimo bene più del solito. Era strano per me, vedermi acconsentire alla sua richiesta di giocare insieme al computer non era una cosa che facevo spesso. Sono sempre stato molto solitario, per qualunque cosa.»
«Tua madre mi ha detto l’esatto contrario, invece.»
«Mia madre mi ha sempre considerato troppo normale per andare da uno psicologo, eppure ne avevo bisogno eccome. Le ricordo, dottoressa, che se siamo qui non è perché mi ci ha costretto lei. Posso continuare adesso?»
Axelle annuisce e io proseguo, più irritato di prima: ne ho abbastanza per oggi, voglio solo andarmene a casa e buttarmi sul letto.
«Dicevo: eravamo stranamente felici. Ma d’improvviso si sentirono delle grida, e io subito capii cosa stava accadendo. Mia sorella mi chiese se fossero i nostri genitori. “No, tranquilla. Sono i vicini”, il che era probabile poiché loro litigavano spesso. Mi credette subito, Misha ha sempre creduto a qualunque cosa le dicessi, e per sicurezza le diedi le mie cuffie per farle ascoltare musica.»
«Senti sulle tue spalle il dovere di proteggerla perché sei suo fratello maggiore?», chiede sollevando per un istante la testa dal taccuino.
Io scuoto la testa. «No, assolutamente. Avere tredici mesi di differenza è come essere gemelli… Volevo solo proteggerla come credo lei avrebbe protetto me, e quella mi sembrava la cosa migliore da fare: lei non sapeva nulla, non sapeva delle divergenze tra mio padre e mia madre.»
«E tu non hai mai cercato di spiegarle la situazione?»
«Ho sempre pensato lei non fosse pronta per una simile notizia. Non che sia stupida o altro, ma non volevo soffrisse tanto quanto me. Io ho ascoltato ogni litigio nascosto da qualche parte, ho tenuto ogni pensiero, dubbio o timore per me, ho lasciato che i miei pianti si facessero vedere solo dal buio della mia stanza e a volte da qualche fidato amico. Ho avuto un anno per arrendermi all’eventualità loro si separassero, per abituarmi a quelle leggere discrepanze nel loro rapporto che credevano io non avessi notato, come Misha. Ma lei era ingenua e credeva a un “Vado a lavoro, faccio più tardi” di mia madre, non si domandava nessun perché.»
«Cosa che invece tu facevi più e più volte.»
«Esattamente.» Rompo accidentalmente uno dei lacci multicolore che ho intorno ai polsi e continuo, non riuscendo più a controllare la mia rabbia. Ho perso un desiderio. «Per un anno intero ho fatto in modo Misha vivesse in una campana di vetro, al sicuro da qualunque tipo di problema che avrebbe potuto anche solo farla dispiacere. L’ho tenuta lontana da quei litigi, lontana dai motivi per cui litigavano, le ho mentito sul motivo per cui mamma e papà non si parlavano per giorni interi, e questi ultimi hanno mandato a puttane tutti i miei sforzi nel giro di un minuto, quella mattina. Urlavano troppo, la musica non bastava a nasconderle quanto di brutto stava accadendo al piano superiore. Se fosse stato solo questo avrei trovato un modo per tranquillizzarla, per dirle che avrebbero presto fatto pace. Ma mio padre scese di corsa le scale con il cellulare di mia madre in mano, gridando a squarcia gola cose orribili su di lei: io avevo già sentito altre volte quelle accuse di tradimento e di “sfascia famiglie”, ormai non mi facevano più male; ma per mia sorella erano nuove, impensabili, e dopo pochi secondi scoppiò a piangere davanti a noi. Non mi importava stessero per lasciarsi, chi avesse torto o ragione, quel che mi fece male in quel momento fu il loro egoismo nel continuare a litigare anche davanti a loro figlia, in lacrime. Non sa, dottoressa, quanto male mi ha fatto vederla in quello stato, non può immaginarlo. Avevo visto quella campana di vetro in cui l’avevo tenuta al sicuro scheggiarsi sempre più dopo ogni parola, e irrimediabilmente frantumarsi in mille pezzi alla fine della loro sfuriata. Mi sono sentito impotente, inutile, incapace anche di proteggere l’ultima persona che avrei voluto veder piangere, ed è la sensazione peggiore che io abbia mai provato in vita mia.» 
 
 
 
[1]  Nota: “Axelle” è da leggersi come in francese, dunque non pronunciando la [e] finale.
[2]  Nota: “Ferroux”, cognome francese. Il dittongo [ou] va letto [ò], più o meno.


 


──Note dell'autore──
Non so perché, ma un giorno ho pensato che mi sarebbe piaciuto scrivere di un personaggio non troppo fuori di testa in seduta con il suo psicologo. Dopo quattro mesi, questo ne è il risultato, e se non vi piace pazienza.
Che la psicologa fosse francese non so da dove mi sia uscito fuori (contando soprattutto che non sono una patita della Francia) e probabilmente sarà l'ultimo personaggio di quella nazione che creerò: Axelle ha cambiato nome tre volte (inizialmente era Amelie, poi Farrah, a metà scrittura semplicemente Elle) poiché la mia cultura in fatto di nomi non si espande ai nomi tipici del posto.
In compenso, Jonathan è come se si fosse scritto da solo: stranamente, ho pensato a quel nome e mi è piaciuto subito per lui.
Gli unici problemi sono sorti solo con il racconto di Jonathan poiché non ero sicura scrivere di queste cose fosse possibile, per me, non pensavo l'avrei portata a termine questa one-shot.
Sono soddisfatta del risultato, e spero che lo stesso sia per voi che avete letto il mio lavoro.


「Nitrogen」
   
 
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