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Autore: SinisterKid    04/04/2014    1 recensioni
“Cosa credi, che per me sia più facile sopportare ciò che ha fatto solo perché sono circondato da persone che mi impediscono di pensarci? Vedo la famiglia che avremmo potuto essere, Natasha, e perdo la voglia di vivere. Ogni notte divento come paralizzato e stringo con tutte le mie forze il suo cuscino. Ogni notte provo a soffocarmi con quel cuscino, sai? Ogni singola notte, provo a farla finita. Ci avrei provato anche oggi se non fossi venuto qui … cos’è che mi ferma? Lui, Natasha, lui. Lui e la bambina che avremmo dovuto adottare insieme”, disse Phil tirando fuori quel poco che gli era rimasto della sua forza d’animo. “Non farti abbattere dal dolore, Nat. Sii tu ad abbatterlo, sii la donna che tutti temono. Sii la donna di cui Clint era tanto orgoglioso”.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Didn't I, my dear?

But it was not your fault but mine
And it was your heart on the line
I really fucked up this time
Didn’t I, my dear?
Didn’t I, my dear?


La pioggia cadeva lentamente sulle strade come lacrime sulla guancia di un uomo. Centinaia di ombrelli riversati sui marciapiedi si affrettavano a trovare riparo all’interno degli edifici circostanti e il plumbeo cielo tuonava minaccioso. I tergicristallo delle decine e decine di macchine impelagate nel traffico mattutino si spostavano da destra a sinistra per pulire i parabrezza e migliorare la visuale dei guidatori. Clint seguiva il ritmo del loro movimento meccanico con la testa e cercava di imprimere nella mente le espressioni che la sua vista eccezionale gli consentiva di vedere dall’alto della sua finestra.
Per la maggior parte, vide espressioni finte, di plastica. All’esterno, non c’era persona che non sembrasse serena o felice o occupata da qualcosa di grande interesse, ma guardando dritto nelle loro iridi, Clint aveva capito come stavano realmente le cose. Il più luminoso e splendente dei sorrisi era accompagnato dagli occhi più malinconici che si potessero incrociare e la fronte più contratta da mille e mille importantissimi affari era accompagnata dalla mente più solitaria e disinteressata che potesse esistere.
La gente non faceva altro che girare inutilmente in tondo in quel grande palcoscenico chiamato vita e più Clint osservava il loro spettacolo, più aveva voglia di andare via.
Sigillò le finestre e le celò dietro una sottile e candida tenda. Uscì dalla camera da letto e fece lo stesso con le restanti imposte e la porta d’ingresso della casa. Non sapeva bene il motivo per cui lo stesse facendo, ma sapeva che andava fatto. Forse voleva allontanare quegli attori da quattro soldi che popolavano la città, forse voleva emarginarsi, forse non voleva che nessuno gli impedisse di compiere ciò che aveva programmato. Prese il cellulare e, con apparente lucidità, compose velocemente un sms. Non appena finì di scriverlo, indugiò sul display scheggiato del suo telefono e sentì gli occhi bruciare e un groppo salire velocemente alla gola. Cancellò e riscrisse il testo per più di due volte e solo alla terza decise di spedirlo.
Lo fece ad occhi chiusi, tremando, e si chiese perché, dopo centinaia e centinaia di missioni, quel piccolo e comune gesto gli fosse costato una fatica incomprensibilmente enorme. La risposta a quella domanda tanto stupida era sepolta dentro di lui, ma Clint non aveva il coraggio di scavare a fondo per andare a prenderla. Lo aveva fatto, basta. Non importa per quale ragione. Gettò un’occhiata al loro – suo e di Phil – appartamento e si compiacque di quanto sembrasse una vera e propria casa. Una casa accogliente, sorridente, disordinata, con le pareti macchiate dalle impronte delle loro mani e i divani invasi da diversi telecomandi e cuscini. Una casa in cui regnava il tipico caos che solo una famiglia può creare.
Oh, famiglia. Oh, casa. Che dolci suoni. Clint li aveva inseguiti per tutta la vita e ora che li aveva finalmente in pugno, che gli appartenevano, stava per lasciarli. Non riusciva a pensare di essere sul punto di compiere un errore, era convinto che andarsene fosse la miglior cosa per tutti, soprattutto per Phil.
Phil che gli aveva aperto gli occhi, che gli aveva fatto scoprire le mille e mille meraviglie di questo mondo. Phil che nella sua infinita dolcezza e bontà lo aveva preso per mano e riportato in vita dagli abissi nei quali era precipitato. Era così buio lì sotto, così freddo e angustiante. Il suo sorriso gli aveva fatto da guida, era stato la calda luce che, nei giorni peggiori, lo aveva riscaldato come il fuoco scoppiettante e familiare del camino della propria casa.
Casa. Phil aveva un volto da chiamare casa.
Quell’uomo gli aveva rovinato la vita nel miglior modo possibile, lo aveva fatto sentire vivo. E per lui, Clint pensava di poter fare tutto. Per lui pensava di poter sollevare il mondo, di rubare ogni bellezza, ogni meraviglia, e donargliela come segno del suo spropositato amore e della sua immensa gratitudine.
Era possibile essere tanto grati e innamorati di qualcuno? Sì, lo era eccome: per Phil Coulson, Clint avrebbe addirittura dato la vita senza pensarci due volte.
Ed ecco, infatti, cosa era determinato a fare.
Perché Clint cosa avrebbe potuto dare ad un uomo tanto grandioso e unico come Phil? Come avrebbe potuto renderlo felice? Lui, lui di quale razza d’amore avrebbe potuto riempirlo? Lui che non aveva altro che la sua confusione e le sue cicatrici, la sua rabbia e la sua frustrazione e il suo lerciume da cane randagio. Lui che si era illuso di poter cambiare in meglio per il suo grande amore, ma che alla fine era rimasto lo stesso uomo che non sarebbe mai stato abbastanza per Phil.
Clint guardò i documenti che avrebbero dovuto firmare insieme quella sera. Dopo vari controlli, i servizi sociali avevano deciso che entrambi fossero idonei per adottare un bambino e Phil non stava più nella pelle all’idea di diventare genitore. Se avessero firmato entrambi i moduli per l’adozione, dopo qualche settimana sarebbero diventati a tutti gli effetti i padri della piccola Darcy Lewis, una neonata di quattro mesi dai grandi occhi azzurri, abbandonata in un bagno pubblico da una coppia di tossicodipendenti un mese dopo la sua nascita.
Clint aveva provato, davvero, ad essere entusiasta per quella novità, ad essere elettrizzato all’idea di tenere una piccina tra le braccia e coccolarla e amarla per sempre. Ci aveva provato tanto, davvero, ma la depressione non gli aveva dato scampo. Lo aveva prosciugato prima della sua forza e poi della sua anima, lasciandolo con uno scheletro da sopportare e trascinare ovunque. Tutto aveva perso senso, ogni singolo giorno era uguale all’altro e ogni singolo giorno Clint si chiudeva sempre più in se stesso. Intorno a sé, aveva costruito una prigione inaccessibile a chiunque – compreso Phil – e tanto fortificata da essere indistruttibile. Clint Barton non esisteva più, si era totalmente annullato come persona, e bramava il giorno in cui avrebbe emesso il suo ultimo respiro e tolto il disturbo una volta per tutte.
Phil meritava il meglio, dannazione, e anche la piccola e sconosciuta Darcy lo meritava.
Clint tornò nella loro camera da letto – dove ormai passava gran parte delle giornate – e chiuse a chiave la porta dall’interno. Individuò vicino al comodino la sua faretra colma di frecce inutilizzate da mesi e ne prese una a caso. Spense la luce, immergendosi nell’oscurità totale, e si sdraiò a letto. Non riusciva a smettere di tremare, la consapevolezza di ciò che stava per fare lo aggredì all’improvviso come un nemico che pugnala alle spalle. Per un attimo, nel momento in cui gli vennero in mente la sua Nat e il suo Phil, gli mancò il coraggio di farlo. Pensò a come avrebbero potuto reagire, a quanto il suo affrettato addio avrebbe potuto ferirli e al modo in cui questa tragedia li avrebbe segnati per sempre.
Avrebbero sentito la sua mancanza dopo la sua morte? Ovvio. Ma Clint sapeva che sarebbero riusciti ad andare avanti e che il posto che stava per lasciare sarebbe stato occupato da persone decisamente migliori di lui. Chissà, magari Phil avrebbe coronato il suo sogno d’amore con quella celeberrima violoncellista mentre invece Nat …
Nat avrebbe lavorato da sola dopo la sua scomparsa, Clint lo sapeva bene. Non avrebbe accettato nessun altro stolto o nessun altro Vendicatore al suo fianco: Occhio di Falco per la Vedova Nera era il miglior compagno che si potesse avere e avrebbe smesso di lavorare per lo S.H.I.E.L.D. piuttosto di essere affiancata da qualcun altro. Il suo rigido e fermo cuore aveva sopportato di tutto in passato, ogni tipo di perdita e sofferenza, e ne era sempre uscito a testa alta, vincente, compromesso però da tante piccole fratture. Ora come ora, perdere Clint avrebbe provocato la frattura più grande, quella definitiva e devastante. Perché lui, a differenza degli altri, portati via dal destino, aveva scelto di sua spontanea volontà come e quando morire. E questa non sarebbe sicuramente stata una cosa facile da digerire per l’agente Romanoff.
Eppure a Clint non importava neanche questo: lui doveva andarsene ora, non c’era niente che potesse fermarlo. Né il dolore di Phil né quello di Natasha.
Prese più di una decina di profondi respiri e impugnò la freccia, liberando la mente da ogni inutile preoccupazione o ripensamento. Ciò che andava fatto, andava fatto. Deglutì la saliva impastata dal sapore degli ultimi psicofarmaci che aveva assunto e tremò ancora e ancora e ancora. La sua mano, in particolare, non riusciva a smettere di tremare. Clint tentò di darsi un contegno e fece finta di dover colpire uno dei peggiori bersagli della sua vita, il più ripugnante e meschino, ovvero se stesso.
Promise a Phil che avrebbe continuato ad amarlo oltre questa vita e oltre la morte che stava infliggendosi e conficcò la freccia dritta al suo cuore. Spalancò gli occhi e urlò come mai prima di allora, si concentrò sugli ultimi battiti emessi dal suo organo vitale e giunse le mani come se stesse pregando.
Lui in Dio nemmeno ci credeva, ma qualcuno da pregare lo aveva comunque.
“Phil, perdonami”, sussurrò per l’ultima volta. “Perdonami e abbi una bellissima vita”.
Distesa accanto a lui, la Morte guardava Clint con desiderio e attendeva con impazienza di prenderlo tra le sue braccia. Si crogiolava nella breve ed intensa agonia di Clint e lasciava che la sua lugubre orchestra suonasse con passione e orgoglio l’Alleluia.
Ogni decesso che si rispetti deve avere una colonna sonora adatta.
La morte aveva finalmente vinto e tutti dovevano gioirne.

Tremble for yourself, my man
You know that you have seen this all before
Tremble, little lion man


Phil tornò a casa vestito d’angoscia e stanchezza in compagnia di Natasha. Ignorò i vicini che gli passarono accanto e aprì con fatica la serratura della porta. Entrambi gli agenti non si sentivano affatto bene: uno strano male, una sensazione ansiosa si era impossessata di loro e li aveva resi suoi schiavi. Le loro catene erano troppo dure da spezzare e i due si limitarono a fingere – ognuno a modo proprio – che stesse andando tutto bene.
Non appena misero piede nell’appartamento, vennero avvolti da un’agghiacciante desolazione. Tutte le luci erano spente e la puzza di chiuso era persistente, come se le finestre fossero rimaste chiuse per l’intera giornata. Phil si guardò attorno, preoccupato, e, per quanto possibile, tentò di mantenere la calma. Natasha, all’apparenza algida e disinteressata, iniziò a cedere al timore più cupo e funesto.
“Clint, sono a casa”, dichiarò Phil con un tono di voce notevolmente alto.
“Barton, siamo noi. Se questo è uno scherzo, ti prego di smetterla”, gli fece eco Natasha con voce ferma e autoritaria.
Nat non era solita pregare nessuno, ma con le crepe del suo cuore che andavano via via spaccandosi, mantenere la compostezza era un’ardua impresa. Phil si accorse che la grande fortezza Romanoff stava soccombendo al suolo e si sforzò di restare forte almeno per lei, l’unica grande amica che Clint avesse mai avuto.
I due non ebbero nessuna risposta, sembrava che la casa fosse caduta nell’oblio.
“Clint, per favore. Vieni fuori”, gridò Phil austero.
“Chiamo il 911, Coulson”, disse Natasha estraendo il cellulare dalla tasca del giubbotto.
La ragazza fu costretta a sedersi sul divano a causa delle sue gambe tremanti e del suo cuore che cadeva a pezzi e si disperdeva nell’aria inquinata di quella stanza. Non aveva mai avuto tanta paura come in quel momento, paralizzata da una consapevolezza che stava lentamente raggiungendo il suo cervello. Prima di comporre il 911, si accorse che Clint le aveva mandato un messaggio e non esitò a leggerlo mentre l’agente Coulson si dirigeva, furioso, in camera da letto.
Ti voglio bene, Nat.
Natasha alzò gli occhi al soffitto e cominciò a mordersi ferocemente le labbra. Tirò il telefono contro la parete e delle discrete lacrime le attraversarono senza il suo permesso l’algido e inattaccabile volto.
“Certe volte penso che tu mi detesti, agente Barton. Sei così antipatico”.
“Ma senti chi parla, miss simpatia del secolo! E comunque, non sono tenuto a ricordarti spesso quanto io ti stimi come persona”.
“Morirò senza mai aver sentito uscire dalla tua bocca parole d’affetto per me, che ingiustizia”.
“Solo in punto di morte, Nat, confesserei il mio amore fraterno per te. Peccato che io non morirò mai, quindi rassegnati e non rompere”.

Quella che era sembrata una battuta spiritosa era diventata realtà. A Natasha ci volle poco per comprendere appieno cosa era successo e sentire il ventre colpito da mille violente pugnalate. Sentì la rabbia nascere dentro di lei e scoppiare prepotentemente come un’eruzione vulcanica che avrebbe raso al suolo qualunque cosa avesse incontrato nel suo cammino.
Non c’era più pace nel suo regno di ghiaccio, l’amico più valoroso e leale che avesse mai avuto era andato via e nessuna divinità le avrebbe permesso di scendere negli inferi per andare a riprenderlo.
Nat, adesso, avrebbe spaccato il cranio di Clint con un colpo solo e avrebbe imprecato sui suoi resti. Azioni brutali, sì, ma in che modo poteva ragionare lucidamente in un quell’istante? L’aveva lasciata sola, sola e distrutta come quando l’aveva trovata anni fa. Austera e glaciale fuori, ma tanto piccola e fragile all’interno, Clint l’aveva fuorviata con la sua impertinenza e introdotta in un mondo tutto nuovo, più spiritoso e semplice. Un mondo che Natasha non capì mai come potesse appartenere a qualcuno come lui che di tragedie ne aveva viste e sopportate anche troppe. Un mondo libero e spensierato dove Nat amava passare il tempo insieme a lui.
Non aveva mai ringraziato Clint per tutto ciò che aveva fatto per lei e ora rimpiangeva amaramente di non avergli detto quanto fosse insostituibile e prezioso ai suoi occhi. Magari se Clint avesse saputo quanto contava davvero per lei, non avrebbe deciso di togliersi la vita. Magari per amor suo, sarebbe rimasto. Forse, chi poteva saperlo.
Lui aveva scelto di andare via senza pensare al dolore che avrebbe provocato ai suoi affetti più cari e lei aveva scelto di non perdonarlo. Perché non importava che non se lo fossero mai detto in faccia: tenevano entrambi l’uno all’altra e perdersi li avrebbe annientati.
Vedova Nera e Occhio di Falco, cosa sarebbe rimasto ora di quel team perfetto? Solo lacrime e tanta, tanta rabbia.
Nat non volle nemmeno vederlo. Andò via da quella casa maledetta e si augurò che l’agente Coulson riuscisse a sopravvivere. Clint non aveva neppure avuto rispetto per lui e, mentre piangeva rabbiosamente, Natasha evitò di chiedersi come aveva fatto la malattia a divorare il raggio di sole che era stato il suo Barton.
Non c’era nulla da chiedere né a cui dare risposta.

*


Dimenticatosi quasi di Natasha nel soggiorno, Phil si era precipitato in camera da letto. Non era ancora troppo tardi, no, non lo era affatto.
La porta era chiusa dall’interno e Phil non si fece troppi scrupoli ad aprirla con un violento calcio. Stava andando fuori di testa, gli mancava l’ossigeno ai polmoni. Dov’è l’interruttore? Dove cazzo è l’interruttore? Phil aveva persino difficoltà a trovarlo, quel maledetto interruttore. O forse non voleva trovarlo. Come poteva sapere cosa desiderare in questo momento di confusione?
Dov’è Clint? Dov’è? Dio, fa’ che sia a letto. Fa’ che sia vivo. Se davvero esisti, Dio, fa’ che sia vivo.
Phil l’accese quella maledetta luce, alla fine. Quella fioca lampadina a risparmio energetico che Clint aveva sempre detestato per la sua intermittenza costante, adesso stava puntando al suo volto e lo illuminava dalle tenebre in cui era sepolto.
La verità fu come un tuono che anticipava un tremendo e violento temporale. Faceva freddo adesso, un rigido e severo freddo che attaccava le ossa e le congelava. Privava di tutto ciò che si possedeva e strangolava l’anima con una morsa brutale ed efferata.
“No”.
Lasciava parlare, il Freddo. In fondo, era misericordioso.
“No, no!”.
Lasciava parlare, il Freddo. Ma permetteva di dire solo ciò che più gli garbava.
“No, no, no! Clint, no!”.
Lasciava parlare, il Freddo. Il dolore lo aveva sempre divertito.
Phil non riuscì neppure ad avvicinarsi, era paralizzato, quasi incosciente. Cade per terra e strisciò verso Clint. Maledetta terra, maledetta.
Il volto del suo Clint era il ritratto della serenità e della pace. Nulla lo turbava, gli angoli della sua bocca accennavano perfino un sorriso e Phil si domandò cosa diavolo ci fosse da sorridere. Non riusciva nemmeno a piangere, era inorridito.
“Come hai potuto farmi questo? Dopo tutto quello che abbiamo passato. Come hai potuto farmi questo, Clint Barton? Come hai potuto?”, urlò Phil più forte che poteva. “Ti ho dato tutto, come hai potuto farmi questo, bastardo?”, ringhiò ferocemente.
Phil strattonò Clint, lo schiaffeggiò, accecato dalla rabbia. Aspettava una reazione, un minino cenno di vita. Il silenzio continuò ad essere l’unica risposta che riuscisse ad ottenere. Gli occhi di Clint erano spalancati e fissavano quelli infuocati di Phil, le mani giunte in segno di preghiera.
E lui in Dio nemmeno ci credeva. Phil ebbe paura di pensare che l’ultima persona a cui Clint si fosse rivolto prima di sparire fosse stato proprio lui.
Una freccia dritta al cuore, come aveva potuto Dio permettere questo? Se davvero esisteva, come aveva potuto permettere che Clint compiesse quell’estremo gesto? Come aveva potuto permettere che la sua unica arma si trasformasse in nemica? Come aveva potuto permettere che suo figlio, creatura unica e irripetibile, decidesse da sé di porre fine alla sua esistenza? Phil si domandò come avrebbe potuto continuare a credere in un dio adesso che Clint aveva smesso di respirare.
Prendersela con un’entità metafisica era troppo facile. Ed ecco che arrivarono, come un esercito assetato di sangue, i sensi di colpa. Giudici crudeli che emettevano sentenze in assenza di prove certe.
“Cosa ti ho negato, Clint? Cosa ti ho detto per portarti a questo punto? Non credi che io meriti delle spiegazioni?”, chiese esausto. “Volevamo soltanto una lunga vita felice insieme, lontano dai fantasmi del nostro passato. Cosa dovrei farmene di me stesso adesso senza di te?
Phil tirò via la freccia insanguinata dal petto di Clint e la scagliò contro la parete. Chiamò il 911 e aspettò i soccorsi, anche se da salvare non era rimasto nulla. Avrebbero potuto benissimo portare via anche lui e chiuderlo in un obitorio.
Lì dentro o là fuori, senza il suo Clint, non faceva differenza ormai.
Phil si distese a fianco di Clint e lo strinse forte. Lui lo considerava ancora vivo, lo avrebbe sempre considerato vivo. “Io ti amo. Perché l’hai fatto?”
Come aveva detto prima l’agente Romanoff, non c’era nulla da chiedere a Clint. La malattia aveva deciso per lui.

Weep, little lion man
You’re not as brave as you were in the start
Rate yourself and rake yourself
Take all the courage that you have left
Wasted on fixing all the problems that you made in your own head


Natasha aveva rotto i contatti con il mondo intero dal giorno del suicidio di Clint. Imprigionatasi volontariamente in casa, non aveva risposto a nessuna delle chiamate che in tanti le avevano fatto per rivolgerle le condoglianze né richiesto il conforto, la comprensione, di nessuno. Passò ore e ore e ore sdraiata sul pavimento a contemplare il soffitto e maturare qualunque sentimento che potesse avvicinarsi lontanamente all’odio cocente e cieco che desiderava provare per il bastardo che l’aveva abbandonata in balia di un mondo nel quale lei non voleva soggiornare più da sola.
Il suo cuore spezzato e distrutto e morente voleva vendetta, subito. Ma nei confronti di chi? Se solo avesse letto prima quel messaggio, gli avrebbe salvato la vita.
Era anche colpa sua, in fondo.
“Natasha”, fece affranto Bruce Banner da dietro la porta.
Lei non lo degnò neppure della sua attenzione.

*


Phil sapeva che Nat non sarebbe stata fortunata quanto lui.
Dopo la dipartita di Clint, non passò una sola ora da solo a rimuginare su ciò che era successo. La sua grande famiglia gli era stretta attorno per limitare al minimo il suo dolore e nessuno – a partire da Pepper Potts fino a Nick Fury, passando per la sua squadra di agenti e i Vendicatori – si era tirato indietro per aiutarlo.
Phil vide la loro – perché malgrado tutto, restava sua e di Clint – casa trasformarsi contemporaneamente in un laboratorio scientifico, in un centro d’addestramento militare e in un’allegra locanda aperta ventiquattro ore su ventiquattro dove gli amici più cari si riunivano per condividere i pasti e la reciproca compagnia. E poco gliene importò quando rischiò anche di saltare in aria insieme a tutto l’edificio a causa dei maldestri esperimenti condotti dal quartetto delle meraviglie composto dal dottor Banner, Stark e Fitz-Simmons: vedere quest’ultimi tanto estasiati e felici valeva più di ogni altra cosa al mondo.
L’agente Ward e l’agente May passavano il tempo ad insegnare alla signorina Potts come difendersi, mentre Nick Fury e il Capitano Rogers scoprivano grazie a Skye “l’arte” dell’hacking. Coulson, invece, per la maggior parte del tempo, si ritrovava a commentare questo adorabile spettacolo insieme all’agente Hill che lo ascoltava con attenzione e trovava sempre la risposta giusta da dargli.
“Ho sempre voluto una grande famiglia”, fece Phil rivolgendosi più a se stesso che a Maria. “Una grande e bella famiglia con tanti figli. Immagina che spasso di padre sarebbe stato Clint … i nostri figli non si sarebbero mai annoiati con lui”.
Maria abbassò il capo e diede una pacca sulla spalla a Phil, sorridendogli dolcemente. Non c’era nulla che potesse dire per lenire quei malinconici rimpianti. Solo l’agente Romanoff poteva capirlo, ma in quel momento lei non era in grado di capire neanche se stessa.

*


La sera precedente ai funerali, il dottor Banner, che aveva notato quanto l’urgenza di parlare con Natasha lo affliggesse, si offrì di guidare l’agente Coulson a casa della donna. Phil, provato da varie notti insonni, non era sicuramente nelle condizioni adatte per condurre un veicolo su una strada trafficata e fu immensamente grato a Bruce per aver capito le sue intenzioni con un solo sguardo.
Clint sapeva di aver lasciato le persone a cui teneva di più in ottime mani.
Dopo un silenzioso tragitto, i due giunsero a destinazione. Phil insisté affinché il dottore salisse con lui, ma questi preferì restare in macchina ad aspettare, ben consapevole che la Vedova Nera non gli avrebbe dato il più caloroso dei benvenuti o non lo avrebbe salutato affatto.
Phil, allora, si diresse lentamente verso la porta di Natasha, sprovvisto di parole. Cosa ci era andato a fare lì? Non lo sapeva più.
“Ci siamo”, si disse sospirando.
Bussò più forte del dovuto e dopo cinque minuti d’attesa, Nat gli aprì fulminandolo con uno sguardo.
“Cosa vuole, agente Coulson?”
Phil restò impressionato dal modo in cui il dolore aveva trasformato Natasha. Le sue labbra carnose sembravano essersi assottigliate e insecchite ed erano colme di morsi. Le sue costole si intravedevano così bene da poter essere ricalcate sulla maglietta che indossava e gli occhi, oh quegli occhi. Vitrei e senz‘anima, uno specchio vuoto e scheggiato che non rifletteva nulla.
“Mi manca Clint. Da morire”.
“E allora?”
“So che anche per te è così. Solo tu puoi capirmi, Natasha”.
“I suoi lamenti non mi impietosiscono affatto. Vada via, agente”.
“Tu amavi Clint, era come un fratello per te. Ti sfido a negarlo”.
“Se ne vada, Coulson”.
“Dimmi almeno che domani ci sarai, agente Romanoff, per dargli l’ultimo saluto”.
“Ho detto di andarsene, Coulson”.
“Per favore, Nat, dimmi che verrai”.
Natasha non resse più la tensione e, soprattutto, la spudorata recita che stava portando avanti. Sbatté violentemente la porta e, coprendosi la bocca con la mano, soffocò a fatica i singhiozzi che facevano a gara per scappare e macchiarla di una schifosa debolezza.
“Nat”, fece Phil teneramente appoggiandosi alla barriera di legno che li separava. “So che non esiste ragione che possa giustificarlo, ma sappi che Clint non ti ha abbandonato. Non ti avrebbe mai lasciato da sola senza sapere che qualcuno si sarebbe preso cura di te”.
La ragazza ignorò tutto quello che considerava essere un enorme ammasso di cazzate e, paralizzatasi, ritornò a fissare quel soffitto di cui ormai conosceva a memoria tutte le imperfezioni.
“Cosa credi, che per me sia più facile sopportare ciò che ha fatto solo perché sono circondato da persone che mi impediscono di pensarci? Vedo la famiglia che avremmo potuto essere, Natasha, e perdo la voglia di vivere. Ogni notte divento come paralizzato e stringo con tutte le mie forze il suo cuscino. Ogni notte provo a soffocarmi con quel cuscino, sai? Ogni singola notte, provo a farla finita. Ci avrei provato anche oggi se non fossi venuto qui … cos’è che mi ferma? Lui, Natasha, lui. Lui e la bambina che avremmo dovuto adottare insieme”, disse Phil tirando fuori quel poco che gli era rimasto della sua forza d’animo. “Non farti abbattere dal dolore, Nat. Sii tu ad abbatterlo, sii la donna che tutti temono. Sii la donna di cui Clint era tanto orgoglioso”.
Natasha Romanoff tacque. Lei quella donna pensava di non conoscerla più.

*


Era una di quelle giornate che Clint avrebbe adorato: soleggiata e a tratti calda, con un cielo blu come i suoi occhi e striata di candide e soffici nuvole. Il vento soffiava appena muovendo dolcemente le fronde degli alberi e sussurrando parole di speranze e incoraggiamento nei cuori di chi aveva circondato Phil in quel cimitero. Nessuno osava aprire bocca, ma gli sguardi di chiunque gli infondevano più coraggio di quanto potessero fare milioni di parole.
In prima fila, Phil teneva la testa alta e le spalle salde, diritte. Le braccia incollate ai fianchi e lo sguardo perso nel vuoto, esausto. Solo qualche metro davanti a lui, la bara dove giaceva il suo Clint, avvolta nella bandiera americana, era pronta per essere seppellita. Chissà cosa lo inchiodava a quel pezzo di terra sui cui poggiavano i suoi piedi e lo fermava dall’abbracciare e piangere su quella lignea cassa che celava Occhio di Falco ai suoi occhi. La dignità, forse?
Improvvisamente, sentì la sua mano stretta a quella di qualcun altro. Era una mano ruvida, instabile, congelata che poteva appartenere solamente ad una persona. Phil si commosse e ricambiò la stretta di Natasha senza guardarla in volto, traboccante di gratitudine verso di lei.
Da lontano, Bruce osservava Natasha con discreta tenerezza e la cullava con lo sguardo, come era solito fare ogni notte da dietro la porta dell’appartamento di lei. Oh, diamine, quanto era bello non essere separati da una porta!
“Grazie, Nat”, mormorò Phil un attimo prima che la celebrazione iniziasse.
“No. Grazie a te, Phil”.
E da qualche parte, sperduta nell’aria, l’anima di Clint sorrideva e accarezzava orgoglioso la sua famiglia. L’amore aveva vinto, ancora una volta, sulla morte.

Un anno dopo.


“Quale sarà il nuovo nome di questa bella bambina, dunque?”
Phil e Natasha si scambiarono un’occhiata di intesa. La rossa strinse forte tra le sue braccia quella che stava per diventare a tutti gli effetti la nuova arrivata in casa Coulson e le stampò un bacio sulla fronte. Phil, invece, afferrò con gentilezza la penna che gli aveva offerto l’assistente sociale e firmò i documenti dell’adozione.
“Darcy Barton – Coulson”.
L’assistente sociale guardò con aria di rimprovero Phil e Natasha era già pronta a lasciare Darcy sul passeggino e sferrare alcune delle sue mosse peggiori.
“Non credo ci sia il bisogno di ricordarle che il signor Barton è …”
“Sappiamo tutti cosa è accaduto al signor Barton, miss Penn”, si incupì Phil. “ma resta sempre mio marito e voglio che nostra figlia abbia anche il suo cognome”.
“Non so se posso farlo, agente Coulson. Vede, la legge dice …”
Natasha posò definitivamente Darcy sul passeggino ed estrasse dalla sua borsa un Icer che, ovviamente, puntò contro la petulante miss Penn.
“Non mi faccia usare le maniere forti, signorina”, disse Nat sorridendo in modo affabile.
La donna sbiancò e iniziò ad urlare come un’isterica, spazientendo terribilmente la Vedova Nera. Phil strappò dalle mani di quest’ultima l’Icer e lo rimise a posto, sospirando.
“Il dottor Banner non ti ha ancora insegnato ad essere più gentile, eh, Nat?”
Natasha lo fulminò con lo sguardo. “Allora, miss Penn”, fece cambiando discorso. “dobbiamo proprio tirarla per le lunghe?”
“Voi siete matti, matti! D’accordo, agente Coulson, la bambina avrà il doppio cognome”, strillò miss Penn paonazza scribacchiando qualcosa sui documenti. “Ora sparite da questo ufficio prima che vi denunci!”
I due tolsero tranquillamente il disturbo come se nulla di strano fosse accaduto. Phil fischiettò e Natasha cominciò a parlare del più e del meno sorridendo di tanto in tanto alla piccola Darcy Barton – Coulson.
“A proposito di nomi, Nat … avete deciso già come chiamare il piccolino?”
Natasha alzò le spalle e pose entrambe le mani sul suo grembo appena arrotondato. “Io e Bruce pensiamo che Clint sia un nome perfetto. Non lo credi anche tu, zio Phil?”
“E come potrei mai pensare il contrario, zia Natasha!”





Note: Prima di tutto, un ringraziamento speciale alla persona meravigliosa che mi ha inconsapevolmente ispirato questa storia.
Questa one shot mi terrorizza. E' il prima volta che scrivo di personaggi che non siano solo Phil e Clint o il Cap, non so cosa potrà mai venir fuori dalla lettura di questa cosa.
Come al solito, mi auguro di aver regalato almeno l'1% dell'emozioni che ho provato io scrivendo. Dal punto di vista emotivo, questa storia mi ha preso parecchio e ho amato soprattutto scrivere dell'amicizia tra Clint e Nat (li vedo troppo bene come amici, Clint è di proprietà esclusiva di Phil u.u) In questa storia sono praticamente elencati tutti i miei head canon: i Philint (o come chiamatela come vi pare, l'importante è che la shippate come se non ci fosse un domani) genitori di una piccola Darcy Lewis (awww) e la NatashaxBruce (amo questa coppia, la trovo perfetta).
I versi scritti in corsivo appartengono a "Little Lion Man", meravigliosa canzone dei Mumford&Sons, e il riferimento ai "fantasmi del nostro passato" è sempre un omaggio ad un'altra canzone dei Mumford&Sons, ovvero "Ghosts that we knew" che io considero la colonna sonora per eccellenza della mia meravigliosa OTP.
Dopo tutto questo delirare, mi defilo *fa ciao ciao con la mano*
   
 
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