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Autore: Gaia Bessie    04/04/2014    10 recensioni
«Tris? Sei tornata...».
Sembrava quasi che il tramonto gli avesse cancellato un corvo dalla clavicola.
[Raccolta | Flashfic | Tris/Quattro | Angst]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Four/Quattro (Tobias), Nuovo personaggio, Tris
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Io non dovrei scrivere. La dottoressa mi aveva detto di non scrivere, dato che il tendine della mia mano destra dovrebbe riposare. E, tecnicamente parlando, ho usato la mano sinistra, quindi sto ancora facendo la brava bambina. Ma comunque. È la mia prima fanfiction nel fandom – eh, no, non dovete recensire per questo: vorrei che recensiste perché io sono adorabile e questa storia non è un completo aborto. Ma ognuno pensi quel che vuole – ed è stata particolarmente sentita. Ho finito Allegiant due giorni fa e sto annegando nelle mie lacrime. Erano il mio Otp – a proposito, spoiler – e ci sono rimasta malissimo. Quindi, ho dovuto sfogarmi. E che si fotta il mio tendine, sono sempre stata una ribelle. In ogni caso, i chiarimenti: è voluto che la protagonista non abbia nome, così come sua madre, non ammazzatemi e affoghiamo tutti nell'angst. E comunque, il titolo non c'entra nulla con l'omonimo film, me l'ha suggerito la mia malefica beta. Giuls, amore mio, sappi che ti lovvo tanto. Ora torna a lavorare, però. Non prometto di rispondere a eventuali recensioni, grazie manina cara, ma posso provarci. Mi farebbe piacere ricevere commenti e bla, bla, bla. Non credo nemmeno che qualcuno stia leggendo quest'angolo, dato che sono solo i miei sproloqui, quindi, boh. Sono in crisi, capitemi. Non doveva finire così. E ora consolatemi, per piacere, perché così non arriverò ai miei diciotto anni. Buona lettura. Speriamo. Forse. Amo mettere i punti fermi, sapevatelo.
Sempre vostra (e mica tanto, dato che sono solo di Tobias. E Jace Homillemiliacognomi Wayland), Bessie.


 

 






#1: La memoria dei pesci – 148 parole

Succedeva ogni volta che gli posavo il vassoio del pranzo sulle ginocchia nodose, sulla vestaglia di quel blu stinto che sembrava essere cucita sul suo stesso corpo. Mentre lasciavo che le mani sfiorassero quel tessuto vecchio e liso, i suoi occhi si riempivano di lacrime. Succedeva sempre, a mio padre, ogni volta che mi guardava.
E forse era perché non era nemmeno mio padre ma era mio zio, perché il mio vero padre era scomparso nel nulla quando io possedevo ancora la memoria che era dei pesci. Mia madre era rimasta. Ma lei, la memoria dei pesci, non l'aveva: ricordava ogni istante senza il mio vero padre, e quel dolore per lei era come un cancro. Come mio zio che non parlava mai né sorrideva quando lo chiamavo “papà”. Forse, lui aveva la memoria dei pesci. Perché mi guardava sempre, ma non capiva mai chi ero.
«Tris? Sei tornata...».

 

 

#2: Ti scatterò una foto – 199 parole

Non ho mai avuto il coraggio di smentire mio zio ad altra voce, mentre mi chiamava Tris e spalancava gli occhi. E nascondeva la faccia nelle mani, perché era in grado di capire la differenza fra le allucinazioni e la realtà. Per cena, chiedeva sempre pollo e piselli. E li lasciava tutti nel piatto, perché era troppo impegnato a cercare di strapparsi la faccia con le mani, come per nascondere un ricordo incollato sulla retina, incancellabile. Mia madre non diceva nulla. Lei, teneva una busta sigillata in un cassetto pieno di cianfrusaglie. Era piena di foto e con scritto “Caleb” in un angolo. Delle foto, mio padre, così diverso da me. Tutto occhi tristi e capelli scuri, un sorriso inesistente. Mio padre. Un accenno di barba sul viso da ragazzino, gli occhiali in bilico sul naso. Io non lo ricordavo nemmeno. E una foto, quella l'ho rubata: l'ho nascosta sotto il cuscino, senza dire niente a nessuno. Mio padre e sua sorella. Una ragazzina piccola e bionda, con i capelli come i miei e la pelle infinitamente più chiara. Il suo nome, è annotato in un angolo della fotografia, insieme a quello di mio padre. Tris. Mia zia.

 

 

#3: Il quarto corvo – 166 parole

La mamma doveva aiutarlo a mettersi il pigiama. Ogni notte, gli allacciava i bottoni della parte superiore, fino al collo, dove la pelle avvizzita era ancora colorata di tatuaggi. Appena lei si voltava, lui sollevava le mani tremanti e ne sganciava due, così che gli si vedevano le clavicole. E l'inchiostro nero di quattro corvi tatuati lì. La sorella di mio padre ne aveva tre, mio zio quattro. E lui si faceva chiamare Quattro, forse per questo, forse per un motivo che non sono mai riuscita a chiedergli.
Ogni sera, Quattro sprofondava nella poltrona del salotto. Si accarezzava quei corvi e scrollava la testa. Gli occhi pieni di lacrime, sempre, quando mi guardava.
Indicava il corvo più piccolo della nidiata, prima di prendere il bicchiere con le medicine. Sonniferi. Un labirinto intricato dove Quattro piombava, ogni notte, in quell'incubo portato dai farmaci che gl'impediva di liberarsi. E lui, prima di inghiottire le due capsule, mi guardava e indicava l'ultimo corvo.
«Tris...» mormorava. E poi deglutiva e cominciava ad assopirsi.

 

 

#4: Cicatrici d'inchiostro – 190 parole

Faceva sempre lo stesso sogno. Me lo mostrò un'infermiera, che si stabilì da noi verso gli ultimi giorni. Gl'iniettò un liquido nella vena del collo prima che si assopisse, permettendo a me e alla mamma di vedere gli incubi dello zio in diretta. Era un sogno semplice, lineare, e mia madre non si scompose nemmeno un po'. Quattro si sognava ancora giovane, ancora in forze, e non il cinquantenne debilitato da ferite fisiche e psicologiche che, di anni, ne dimostrava settanta. Era in piedi in una stanza, di fronte a una ragazza. Piccola e bionda. Mia zia. Aveva una maglietta corta, quasi trasparente, che lasciava intravedere i tre corvi sulla clavicola. E un buco nel centro del petto, di diametro talmente ristretto da passare inosservato. Un pallino di pelle nuova che spiccava nell'uniformità dell'insieme. Avrebbe potuto passare per un tatuaggio, forse.
Quattro le tendeva la mano, afferrava la sua, se la premeva contro. E piangeva, singhiozzando come un bambino. Continuava a toccare quella ferita rimarginata, in un riflesso involontario che tradiva la consapevolezza che quello era soltanto un sogno. Lei sorrideva.
«Mi dispiace, Tobias, amore mio...».
E da quel buco zampillava sangue.

 

 

#5: Quel che resta del giorno – 160 parole

Se ne andò che era pomeriggio inoltrato e poco rimaneva del giorno. Ultimamente, continuava a prendere sempre più sonniferi: forse, cercava di rivedere Tris, la sua Tris, l'amore della sua vita. Forse, quella realtà affilata dei sogni era sempre più sopportabile del dolore terreno. E le pillole erano diventate sempre di più. Finché non erano state, semplicemente, troppe: si era addormentato per non svegliarsi più, Quattro, Tobias, mio zio. Mio padre. Ancora giovane per morire, ma senza motivi per vivere.
Prima di inghiottire le pastiglie, aveva guardato mia madre. Sorrideva già, come se avesse già compreso che quella era l'ultima volta. Aveva sbottonato il pigiama, mettendo in mostra i corvi e si era alzato da solo, sorprendentemente, il bicchiere in mano. Si era voltato, appoggiandosi al muro.
«Come ha fatto lei» mormorò, prima di mandar giù i sonniferi. Crollò sul pavimento, la mano destra sul muro che tentava di schiacciare un pulsante invisibile.
E non si mosse più. Nella luce vermiglia del sole che cedeva alla notte la sua resa, Tobias sembrava sereno. Sembrava quasi che il tramonto gli avesse cancellato un corvo dalla clavicola.

   
 
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