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Autore: M4RT1    04/04/2014    6 recensioni
Non ci sono solo vincitori, agli Hunger Games.
I Tributi perdono, muoiono. Ci sono soprattutto perdenti e Distretti sconosciuti.
Questa storia è per loro, è su di loro. Sui perdenti.
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Storia partecipante al Contest "Dodici distretti, dodici pacchetti" indetto da Dragone 97.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri tributi
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Distretto 3 - Decima Edizione


In fila con un mucchio di quattordicenni terrorizzate, alzo appena il capo quando l’Accompagnatrice pronuncia il mio nome, scandendone bene tutte le lettere. Per evitare fraintendimenti, forse, o per creare effetto scenico da aggiungere al resto del patos.

Come se fosse uno spettacolo anche per noi.

Non mentirò dicendo che me lo aspettavo: la verità è che non pensi mai che possa capitare a te, non finchè non senti il tuo nome pronunciato con lo strano accento di Capitol City. E ti chiedi se, chiamandoti in un altro modo, avresti potuto evitare la Mietitura, evitare di morire.

Pensiero stupido che elaboro camminando verso il palco, nascosta sotto il cappello di lana.

Gli abitanti più anziani mormorano, quelli giovani piangono; genitori, cugini grandi, tutti quelli che hanno più di diciotto anni si ricordano di me, della bambina con la mantellina rossa che portava i messaggi durante la rivolta. Intrecciati ai nastri che legavano le due trecce bionde, biglietti scritti nella grafia stretta di mia madre.

Sì, ho partecipato alla rivolta. All’epoca non ne ero cosciente, non sapevo cosa fosse la guerra. Ora, invece, ne vado fiera. Ho contrastato questi tiranni all’età in cui la maggior parte dei loro figli porta ancora il pannolino. Li ho quasi sconfitti.
 
Mi chiamo Sarah Lancaster, ho quattordici anni. E morirò da eroe.
 
 

Distretto 5 – Ventesima Edizione

 
Sento il mio nome fare il giro della piazza, sulle bocche di tutti prima ancora che nella mia testa. Non possono aver chiamato me, non ci credo. Sono il figlio del sindaco, ho solo sette tessere in quella fottuta boccia!

Mi alzo, le mani tremanti strette a pugno, il volto paffuto e pallido impresso in tutti i maxi schermi della piazza. Capelli rossi, che ricadono sulla fronte in boccoli scomposti; occhi verde pastello; spalle larghe, ventre leggermente grosso.

Il figlio del sindaco è grasso, dicevano i miei amici a scuola, alle elementari. Poi hanno capito che ero solo fortunato, che mangiavo quando volevo e che i miei erano contenti così: un giorno, dicevano, avrei potuto essere povero, ed era meglio arrivarci con abbastanza grasso da sopravvivere.

Camminando verso il palco, mi chiedo se mi hanno fatto ingrassare solo per la paura di impoverirsi. Se non hanno sempre pensato a questo momento, magari con un brivido freddo lungo la schiena e la paura di parlarne anche l’un l’altra.

Nessuno nomina la Mietitura, davanti ai propri figli. Se ne parla, certo, ma mai come se potesse toccare a te. Sempre cose del tipo: “Non sporcare la camicia buona, che la metterai alla Mietitura”, oppure “Domani niente scuola, è il giorno della Mietitura”. Come se si trattasse di Natale o Pasqua, come se fosse una festa.

Immagino che per Capitol City lo sia, ma per noi è solo una tortura da aggiungere alle altre.
 
Mi chiamo Oliver Terrford, ho diciotto anni. E morirò, come è normale che andrà a finire.
 

 
Distretto 6 – Venticinquesima Edizione
 

Quest’anno non ci sono bocce di vetro, sul palco. Ci sono due buste dorate, piene di glitter e chiuse con il sigillo di Panem.

La nostra solita Accompagnatrice, una ragazza di un’età imprecisata con lunghi artigli rosso sangue, prende prima quella delle ragazze, come sempre.

Quest’anno non ci sono bocce di vetro, sul palco. Quest’anno sarà diverso.

Hanno deciso di far votare gli abitanti dei Distretti, di farci tradire e uccidere l’un l’altro, di farci salvare la pelle diventando assassini. Il mio nome può essere in quella busta, certo, come quello di chiunque altro. Beh, quasi chiunque: un tacito accordo ha vietato a tutti di votare per la morte dei più poveri, quelli che hanno già fratellini e sorelline a carico.

Non siamo assassini, in fondo.

Sento la donna pronunciare un nome e, prima ancora che realizzi a chi appartenga, vedo che le mie compagne si voltano verso di me, i volti inorriditi. E allora, senza nemmeno chiedere conferma, lo so. E cammino a testa alta, senza rancore verso coloro che hanno scritto il mio nome invece di quello dei propri figli; verso chi ha pensato che una ragazzina di buona famiglia non avrebbe fatto nessun danno, se fosse morta.

Non provo rabbia verso di loro, nemmeno quando noto che qualcuno mi fissa con aria colpevole. Non provo rabbia, solo paura. Forse, quando morirò, capirò di essere stata tradita. Ma nello stesso modo in cui i miei genitori hanno tradito il figlio di qualcun altro.
 
Mi chiamo Alice McMillan, ho dodici anni. E morirò ridendo, ribellandomi a coloro che volevano farmi odiare la mia gente.
 
 

Distretto 8 – Quarantesima Edizione

 
Non credevo che mi sarei sentita così, se avessero pronunciato il mio nome alla Mietitura. Eppure, il panico che mi attanaglia cuore e mente è superiore alle più terribili previsioni. Il cuore batte fortissimo, bruciando cinquant’anni in cinque minuti. Le chiacchiere della gente, quelle non le sento.

Il respiro, regolare, non l’ho mai apprezzato. Non ho mai apprezzato nemmeno il sole, il cielo, le scarpe morbide che mi proteggono dai sassi; l’orlo della gonna che mi batte contro le ginocchia. Non mi sono nemmeno resa conto dei volti felici dei miei amici, non finchè non ho visto le loro espressioni in questo istante.

Morire non sarebbe così brutto, se non si dovesse dire addio a tutto questo.

Salgo i gradini. Uno, due, tre, quattro. Sono di ferro, liscio e freddo. Mi chiedo se anche il suolo su cui morirò sarà così, rigido e impersonale. Se invece sarà come la terra del mio Distretto, calda sotto i raggi del sole.

Mi volto lentamente verso la platea incapace di sorridere e di ricordare. Ricordare come ci si muove, come si fissa negli occhi una persona cara. A stento riesco a vedere il mio viso, primo piano della macchina da presa; lentiggini marrone chiaro sul naso affilato, occhi color nocciola sotto folte sopracciglia scure.

Vale la pena di vivere, sapendo di dover morire così presto?
 
Mi chiamo Caroline Juniper, ho quindici anni. E morirò pensando al mio Distretto.
 
 

Distretto 9 – Cinquantesima Edizione

 
Quest’anno, il sospiro di sollievo dopo la prima estrazione non è bastato. Ce ne sarà un’altra, subito dopo il nome di ragazza pronunciato dal nostro Accompagnatore.

Quattro Tributi per ogni Distretto, il doppio dei ragazzi da portare in trionfo, vestire, nutrire, intervistare e poi uccidere. Divertente, forse, ma non ne vedo la ragione. Non vedo la felicità dei Capitolini che inveiscono contro gli ibridi, contro un ragazzo affinché non ne uccida un altro e diventi la vittima.

Vittime, carnefici, traditori. Giochetti sporchi che, ai loro occhi, sono piccole scaramucce nel mondo dorato della televisione. E quest’anno il divertimento sarà doppio, come il numero dei Tributi.

E tra quelli, a quanto pare, ci sarò anche io. Io che corro verso il palco, ci salgo, cerco di sorridere alla telecamera che mi inquadra da vicino. Io che noto appena il ciuffo perennemente all’insù, la camicia fuori dai pantaloni, mia sorella che spalanca gli occhi. Io che sarò il terzo Tributo del Distretto Nove, anonimo quando gli altri, quanto tutti i non-Favoriti.

Mi dispiace, vorrei dire. Mi dispiace per voi, mamma e papà, che avete speso denaro per nutrire un morto. Mi dispiace per te, Jasmine, che hai accudito nella culla un neonato destinato al macello.
 
Mi chiamo Alfred, ho sedici anni. E morirò lasciando sole le persone che amo.
 
 

Distretto 10 – Sessantesima Edizione

 
Anche oggi, non siamo riusciti a nutrirci. O meglio, io ho dato la mia razione di pane a mia sorella Emily, che si sta riprendendo dall’influenza e ha bisogno di forze.

Sono dodici giorni che non mangio, ormai sono allo stremo. Ma forse, dopo la Mietitura, riuscirò a trovare un po’ di carne essiccata sulla credenza, dove stamane non ho avuto il tempo di guardare.

Quando l’Accompagnatrice pesca dalla boccia delle ragazze, ho già la testa che mi gira: non si riesce a stare in piedi, quando si è digiuni da quasi due settimane. I crampi cominciano pochi secondi dopo, impedendomi di mettere a fuoco il palco.

Ma la voce, quella la sento. E sento anche il nome. Il mio nome.

Non ho la forza di camminare, ma ci provo comunque, passando oltre le mie coetanee e vacillando nel tentativo di reggermi in piedi. Qualcuno pensa che sia il panico, ma è solo la fame. La fame che mi offusca la vista, annebbia la mente, distrugge l’addome contratto dagli spasmi.

Sono sotto il palco quando mi accascio, quasi svenuta. Incapace di alzarmi, di sopportare il dolore, rimango a faccia in giù in attesa che qualcuno mi salvi.

Poi sento la voce – una voce di tredicenne affranta.

“Mi offro volontaria!”

Ed Emily, la mia piccola Emily, mi passa oltre e si offre come Tributo.
 
Mi chiamo Olive Barnaber, ho diciassette anni. E vedrò mia sorella morire.
  
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