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Autore: Emerlith    05/04/2014    1 recensioni
Fu un caso, associare lo schiudersi di un battito d’ali al freddo contatto fra due lame metalliche.
Fu un caso non avere passato il tuo esame.
Fu un caso che la cena non fosse ancora pronta e che il tramonto fosse così scarlatto.
Impugnasti le forbici e la farfalla volò via.
Chiedendoti se quello fosse per davvero il suo unico giorno di vita, affondasti senza esitazione la lama nella tua caviglia sinistra. Tre volte, tre tagli, tre lividi, tre lettere, tre sillabe. Tre punti.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Krystal Weedon Coates, Parminder Jawanda, Sukhvinder Jawanda
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Shattered.

“E che cosa le avresti detto?”
“Non lo so. Che mi dispiaceva tanto. Che non so cosa significa essere come lei,
 ma so cosa significa voler morire.
E che sorridere fa male. E che ci provi a inserirti, ma non ci riesci.
E che fai male al tuo corpo per tentare di uccidere la cosa che hai dentro.”

 
Dal film Ragazze Interrotte.
 
 
-Per le margherite bianche che non ho mai portato.
Per tutte le volte in cui non ci siamo mai chieste Scusa.-
 

Cammini a piedi nudi fra le strade acciottolate della tua insignificante cittadina.
Il freddo e la nebbia densa ti avvolgono, ti rendono incerta, vulnerabile.
I tuoi passi riecheggiano sinistri, sono passi pesanti anche se non indossi le scarpe, forse perché hai un fardello enorme che grava sulle tue spalle da troppo tempo, Sukhvinder.
Cammini a piedi nudi come un fantasma, lasci scorrere la tua mano sui muri freddi delle case buie e spente, ne senti le crepe sottili sotto le dita, come una rete di capillari sanguigni pronti a stillare sangue per raccontare una storia.
Qual è la storia che vuoi raccontare, Sukhvinder?
Vuoi raccontare la storia nascosta dietro le tende del tuo salotto.
Vuoi ritornare a casa, fermarti sul vialetto d’ingresso e non sentirti più un’intrusa, un ologramma sfocato.
Ma per quanto tu voglia sforzarti, Casa è sempre più lontana da te.
Riesci a scorgerla anche adesso, anche in questo buio bianco, in questo mare di nebbia che si mischia al torrente impetuoso che ora scorre arrabbiato sotto ai tuoi piedi.
Come sei arrivata fin qui, non lo sai.
Sai solo che c’è un ponte, di nuovo quel vecchio, malconcio, maledetto ponte, a separarti da casa.
Con forza, provi ad aggrapparti saldamente alla corda sfilacciata. Con altrettanta audacia, provi a muovere un passo su quelle assi traballanti, e resti in balia delle raffiche di vento. Provi a chiudere gli occhi, provi a tornare bambina, a pensare di dover fare soltanto una semplice capriola.
Ma le tue gambe tremano. Le tue mani sono intorpidite, fredde.
E mentre resti sospesa a ondeggiare in quel nulla, appena prima di cadere giù, rivedi le sue, di mani.
Le sue mani curate, delicate. Le sue dita sottili, adagiate sui tasti bianchi del pianoforte.
Le sue mani mentre prende il fonendo rosso per auscultarti il torace.
Con un grido muto, lasci la presa.
Lo stomaco si apre a quel vuoto immenso che ti inghiotte e ti spinge giù, verso il turbinio convulso dell’acqua.
Lasci la presa, e mentre tendi le braccia verso il nulla sopra di te, tutto quello che vuoi sentire è il suo abbraccio attorno al tuo corpo.
Perché, in un istante, ti rendi conto di non ricordare più l’ultima volta in cui ti ha abbracciata.
Ricordi solo una scia, il crepuscolo di un calore profondo, rosso.
E quel calore, ora sbiadito, ti seguirà nell’oblio.
La corrente è troppo forte, e tu non riuscirai a lottare ancora una volta.
E mentre te ne accorgi, due parole, solo due parole, sfiorano le tue labbra.
-Perdonami, mamma.-
Muori, Sukhvinder, e riesci solo a pensare a tua madre.
 
***
 
Ti risvegli attorcigliata fra le lenzuola fradice di sudore. Resti a guardare l’ombra dei rami dell’albero che il sottile fascio di luce lunare proietta sul tuo soffitto bianco. Lentamente, dopo quella che sembra un’eternità, riesci a metterti a sedere sul materasso. Fissi la porta bianca, sempre chiusa. I tuoi occhi corrono veloci fino alla porta del bagno, che invece, è sempre aperta. Tremando, con il frastuono dell’acqua torbida del torrente ancora nelle orecchie, infili i piedi nelle pantofole e ti alzi.
Proprio come nel sogno, come fossi un fantasma, cammini lungo il corridoio e passi la mano sulle pareti, sfiorando stavolta le belle cornici con le fotografie della tua famiglia.
Solo chi è di passaggio, non si rende conto delle crepe che ci sono dietro ad ogni scatto.
Ma tu, tu le senti e le vedi tutte.
Vedi e conti le crepe di tutta la tua vita.
Sei tu stessa, una crepa. Una piccola falla nel piano ben congeniato.
Sei la figlia capitata per caso, quella che compare meno nei ritratti, quella che fissa la madre mentre dorme, senza avere il coraggio di svegliarla.
Tua madre dorme come quando tu eri bambina. Su un fianco, sempre pronta a scattare giù al primo squillo del telefono. Tesa perfino sotto le lenzuola. I capelli neri sciolti lungo le spalle, la mano destra che sporge oltre il bordo del letto. E’ bella, tua madre. E’ bella come quando eri bambina e ti sembrava fosse un crudele scherzo del destino il fatto che tu le somigliassi così poco.
E con gli anni non sei riuscita a cambiare pensiero.
E mentre sussurri parole che ti rimangono intrappolate fra i denti e il palato, e rotolano indietro in fondo alla gola, sai che tua madre ha ragione. Ha sempre avuto ragione.
“Perdonami, mamma”.
Non ti sente nessuno, Sukhvinder. La casa sembra morta, tu stessa ti senti più morta che viva.
È rimasta solo una rima baciata a rammentarti che sei figlia di tua madre.
I vostri nomi sono l’unica cosa che combacia fra voi.
Tutto il resto hai dovuto inventartelo, con crudele perfezione.
Come la crudele perfezione genetica.
E mentre ritorni in camera e richiudi la porta alle tue spalle, sai già che non ha realmente importanza, dove o come sia iniziato. Tutto quello che sai è che il dolore non ti ha lasciata più. Ti si è avvinghiato addosso come una seconda pelle, come un’ombra impossibile da scacciare.
È per questo che affondi la mano nel tuo orsacchiotto, e al contatto con quella lama fredda, riesci a sentirti meglio.
È per questo che quando scopri il tuo avambraccio, seduta sul bordo della vasca, e rimani a guardare irretita le tue cicatrici, il dolore non lo senti già più.
Premi con forza la lama contro la pelle, tremi quasi di piacere nel secondo in cui, prima che inizi a stillare il sangue, vedi i margini del taglio rimanere netti, puliti, bianchi. E’ un’ebrezza imparagonabile.
Il dolore vi si scontra, vi si fonde, ci si mescola, e di colpo, vien tutto fuori in un rivolo caldo e scarlatto.
Inspiegabilmente, i tuoi nocicettori lo riconoscono. E non fa più male.
 
***
 
-Avanti, Sukhvinder, riproviamo un’ultima volta. Conta le sillabe. Nocicettore.-
Fissi la pagina del tuo quaderno con commovente concentrazione. Corrughi la fronte così tanto da farti venire quasi un’emicrania, ma non ne riesci a venire a capo.
-Sono dei recettori, servono per la percezione del dolore. È una bella parola. Avanti, prova a leggerla di nuovo.-
-Nocittore.- Balbetti, rossa di vergogna.
Tua madre alza gli occhi al cielo, sbuffa, ravvia i capelli con un gesto stizzito, esasperato.
-Sei in prima elementare, Sukhvinder. Ti rendi conto che alla tua età dovresti saper leggere un libro? E allacciati le scarpe. Non sai fare nemmeno quello.-
Il tuo sguardo urta il tavolo, i vasi di fiori, il piano che non puoi toccare.
Tua madre riprende il quaderno.
-Almeno hai finito i compiti assegnati per domani?-
Vorresti dire che ci hai provato con tutte le tue forze a far bene quei dannati compiti.
Vorresti dirle che non capisci perché fai tanta fatica con quelle lettere.
Ma il telefono squilla, ed è già tardi.
Tua madre non c’è più.
Ti alzi dal tavolo, stando ben attenta a non far stridere la sedia sul pavimento. La guardi sorridere, attorcigliare il filo della cornetta fra le dita, sedersi sulla poltroncina verde con le gambe accavallate.
La senti assumere quel tono di voce professionale, così diverso, lo stesso tono che assume quando le combini uno dei tuoi disastri.
“Potrebbe essere soltanto una banale impetigine. Una crema antibiotica dovrebbe farci capire se…”
Non stai più ascoltando.
Ti sei persa in mezzo a quelle parole.
Impetigine.
Antibiotico.
Crema.
Le vedi prender vita, forma e colore nella tua testa. L’antibiotico te lo figuri di un bel viola acceso, torni al tuo quaderno, le scrivi.
Tu madre riattacca.
-Mamma, guarda cosa ho scritto.- Orgogliosa le porgi il quaderno. Così vedrà che sei stata attenta, che l’hai ascoltata, che hai scritto correttamente quelle parole difficili. Ma la riga sulla sua fronte si accentua, e di colpo le vedi un luccichio di consapevolezza negli occhi, che cambiano quasi colore, che da quel momento si spengono.
-Hai confuso tutte le lettere. Le inverti. Le confondi.- Mormora, e continua a sfogliare le pagine freneticamente, mentre tu resti aggrappata ai bordi del tavolo, e capisci che tenterai di aggrapparti con tutte le tue forze a qualunque cosa per tutta la vita.
-Sei dislessica.- Dice poi, crollando sulla sedia, lasciando cadere quaderno e occhiali sul tavolo, con aria stravolta.
-Sei dislessica, e in tutto questo tempo noi non ci siamo accorti di niente.-
E dopo quel niente, tua madre rimane a fissare il giardino, rimane a non fare niente.
Rimane a non fare niente mentre un dolore sconosciuto ti dilania, mentre capisci che anche tu hai i nocicettori, anche se sei dislessica. Perché in tutto quel niente, tua madre non riesce a spiegarti nemmeno cosa voglia dire, essere dislessica.
Quando vomiti sul tappeto, pensando di avere un tumore al cervello -aveva usato proprio questa parola papà, raccontando a Rajpal della sua ultima operazione- e credi di stare per morire, solo allora si scuote e torna a guardarti.
 
***
 
Assieme alla tua diagnosi, il dolore divenne un costante compagno della tua vita. Guardavi le figure geometriche in legno sul banchetto dello studio della logopedista. Guardavi i contorni di quelle labbra perfette, dischiudersi e poi richiudersi. La guardavi indicarti grafemi, sorriderti indulgentemente facendoti sentire così inadeguata, così stupida.
E alla fine della lezione, quando eri troppo stanca per continuare, per cercare di restare attenta, di non perderti nemmeno una parola, avevi iniziato a pizzicarti violentemente le braccia.
Trattenevi le lacrime e ad ogni piccolo pizzico associavi una nuova parola.
Tre sillabe, tre pizzichi.
Tamburo.
Tre lividi.
 
I tagli arrivarono assieme ai risultati dei tuoi test. Non essere al pari con il resto della classe significava avere l’insegnante di sostegno. Significava ulteriori umiliazioni, prese in giro, risatine trattenute e sguardi carichi di disprezzo.
La prima volta, indossavi dei calzoncini in jeans, corti. Avevi delle belle gambe slanciate, ma non te n’eri mai resa conto, e comunque da quel momento belle non lo sarebbero state mai più. Mentre fissavi un farfalla posarsi sul ramo dove avevi appeso tutti i tuoi sogni con la speranza che fiorissero come le gemme di primavera, ti ritrovasti a giocare con le tue forbici dal manico rosso.
Fu un caso, associare lo schiudersi di un battito d’ali al freddo contatto fra due lame metalliche.
Fu un caso non avere passato il tuo esame.
Fu un caso che la cena non fosse ancora pronta e che il tramonto fosse così scarlatto.
Impugnasti le forbici e la farfalla volò via.
Chiedendoti se quello fosse per davvero il suo unico giorno di vita, affondasti senza esitazione la lama nella tua caviglia sinistra. Tre volte, tre tagli, tre lividi, tre lettere, tre sillabe. Tre punti.
Tre maledettissimi punti.
Di quelli a cerotto, nascosti in fondo alla borsa professionale di tua madre.
Che salì per dirti che la cena era pronta, e trovandoti infilata nell’armadio, con la gamba sotto ad un cumulo di vestiti spiegazzati, non si accorse di nuovo di niente.
 
***
 
Se i tuoi incubi ti concedono tregua alla luce del giorno, le tue colazioni in silenzio tra una diagnosi e una prognosi che rimbalzano fra i capi del tavolo e Ciccio Wall non te la concedono mai.
A scuola hai imparato fin troppo bene a renderti invisibile, ma ovviamente non basta.
Camminare di soppiatto contro gli armadietti e far finta di formulare sempre diagnosi nuove nella tua testa è il tuo unico modo per sfuggire alla realtà che ti si presenta davanti.
Ogni volta in cui hai la tachicardia, ogni volta in cui il cuore non regge più agli insulti bisbigliati e alle risa di scherno, pensi ad un focus ectopico. Il tuo tessuto miocardico si rifiuta di sottostare alle regole della normale conduzione cardiaca, vuole un punto diverso in cui battere, per farti sentire viva.
Non ti importa quanto possa essere pericoloso. Non ti importa di avere un cuore diverso da tutti gli altri.
Vuoi solo che batta.
E mentre ti siedi ed apri il tuo libro di Biologia, pensi che forse, in fondo, non è poi così difficile.
Ti concentri sulla didascalia di una foto e impari che la capacità di arrotolare la lingua è ereditaria, determinata da due alleli recessivi. Così, mentre i banchi si riempiono, e Ciccio racconta a tutti di come tu sia lesbica, ti accorgi di non avere nemmeno i due stupidi alleli che servono per arrotolare la lingua.
Almeno tenerla a freno non farebbe così male.
Gaia Bowden ti si siede di fianco, ha i capelli così lisci e due occhi così verdi che non capisci -non lo capisci proprio, come sia possibile che lei sia così bella, e tu così brutta.
Ma almeno Gaia ti sorride, ti parla, non ti fa sentire il sapore del sangue in bocca.
E in quel momento tu ancora non sai, non puoi capire che questa storia inizia col sangue e finirà col sangue.
Mentre lei sgrana gli occhioni smeraldo e il professore ti invita gentilmente a lasciare l’aula, non stai ridendo più.
 
I bagni sono lerci, puzzano di fumo, ne sono intrisi, come i fazzoletti che premi contro il tuo naso e che lasci ammucchiati nel lavandino imbrattato. Respiri, ti volti più volte, fai scorrere l’acqua fredda sui tuoi polsi e cerchi di ricordare quanto tempo occorra per fermare un’epistassi. Perché tua madre deve avertelo spiegato di certo. Ma tu ovviamente non recepisci mai niente.
E mentre te ne stai là, a piangere e sputare sangue e saliva, pensi che almeno se ti sforzassi fino alla fine, a diventare un niente, smetteresti di soffrire.
La testa inizia a pesare, pesa così tanto che devi tenere gli occhi chiusi e aggrapparti con forza ai bordi schizzati di rosso e pittura colata.
Mentre vedi le curiose stelline che si rincorrono nel buio che ti sta di nuovo inghiottendo, ripensi alla neve, alle sue falde bianche, leggere, pulite.
Perché tu ancora non sai, che ti stai sporcando con la cosa più sterile di tutte.
Non riesci proprio a rammentarlo, che il tuo sangue in realtà è sterile.
 
Cadi a terra sgraziata, con un fracasso tremendo. Urti la fronte contro il lavabo, senti che i tuoi capelli si inzuppano in una pozza d’acqua rancida, tossisci e preghi di scomparire. Adesso, in un altro niente.
Ma tu non scompari, e i passi di Ciccio arrivano puntuali per ricordartelo.
Ride e si trascina dietro Andrew Price, che magari ti lascerebbe anche stare, se non dovesse difendersi a sua volta.
Tieni gli occhi chiusi, non vuoi e non riesci proprio ad aprirli.
-Ehi, Arf. Ma la vedi? Sembra una vacca grassa, una vacca al macello. Che cazzo hai fatto alla faccia, eh?-
Non rispondi. Cerchi di ricordare come debba essere la respirazione di una persona che sviene.
Proveresti volentieri anche a fingerti morta, se bastasse. Se servisse.
Ma non serve neppure questo.
Non serve, quando urli, ti divincoli e gridi di lasciarti stare.
Non serve quando Andrew ti tiene la testa contro il pavimento e quando senti il click della fotocamera di un cellulare, non serve quando Ciccio siede a cavalcioni sopra di te e prova a montarti, proprio come fossi un animale rivoltato sulla strada.
-Che cazzo state facendo, stronzi?-
 
Krystal Weedon ha gli occhi azzurri, la sigaretta sempre in mano e un’arroganza spropositata.
Krystal Weedon ti affascina e ti incute una sorta di timore reverenziale.
Krystal Weedon ti toglie di dosso Ciccio con due manate ben assestate, e il calcio che ti arriva e ti blocca il respiro segna un time out con un tuo singhiozzo strozzato.
La campanella suona, le suole delle scarpe stridono e tu sei ancora per terra, ma miracolosamente viva.
-Alzati. Non vorrai passare in questo cesso tutto il resto della tua vita.-
I braccialetti sul polso tozzo scintillano mentre ti aggrappi a quella mano sudata, mentre a fatica ricacci le lacrime e scuoti la testa come a volerti scusare, per l’ennesima volta.
Krystal ridacchia, poi ti squadra da capo a piedi con aria saccente.
-Dottoressa.- Ti saluta, chinando appena la testa.
Allora la guardi.
-Sei sua figlia, o no? Sì che lo sei. Ci ho portato mio fratello Robbie, l’altra settimana.-
In silenzio annuisci. Perché tanto non sapresti nemmeno che dire.
-Ci vieni all’allenamento di canottaggio, questo venerdì? Non mi va di stare da sola con quelle oche.-
Non rispondi nemmeno stavolta. Krystal ti offre la sigaretta ormai finita e tu scuoti ancora la testa.
-Senti un po’, ma che cazzo di problema hai tu?-
Indietreggi subito, cerchi la porta e ci sbatti contro la schiena.
-Lascia perdere. Io e te non potremo mai essere amiche.-
È strano che ti faccia male sentirglielo dire. Ci avevi quasi creduto, per un attimo.
Annuisci in silenzio, ritorni in corridoio e ricordi come da bambina provassi a camminare sempre lungo la fuga delle piastrelle.
-Ehi, tu!-
Ti fermi, lentamente ti volti.
Krystal sta ancora ridendo di te, o per te, o con te.
Non riuscirai mai a capirlo.
-Però ci possiamo provare.- Ammicca.
E tu, Sukhvinder, abbozzi il primo vero sorriso della giornata.
 
***

Quando la nonna di Krystal muore, ti sembra che l’ematoma sul fianco sia appena sparito, anche se è guarito appena in tempo per i primi allenamenti di canottaggio. E per un po’, hai creduto davvero di potercela fare a resistere. Fino a quando il canottaggio è durato, fino a quando Ciccio non è diventato di Krystal, fino a due settimane fa, quando lei non ha minacciato di ammazzarti a mani nude davanti a mezza scuola, e così sono diventati in due a volerti vedere sanguinante su quel pavimento lercio.
E l’unica cosa che puoi fare adesso, è scappare.
Correre via, il più lontano possibile da tutto questo.
Stringi in mano solo cinquanta sterline e la tua lama incrostata. Non ti serve nient’altro.
Tua madre ha ammazzato mia nonna. Io la rovino, e rovino pure te.*
Proprio non riesci a capacitarti di come si possa ancora sentire così tanto dolore.
E dire che pensavi di averci fatto l’abitudine, d’esserti costruita un guscio.
Ma non c’è via di scampo alla sofferenza. Dovresti averlo imparato, se non altro per osmosi.
Che cosa ti è rimasto davvero dentro, Sukhvinder?
Mentre le lacrime bollenti ti rigano il volto, capisci di non avere una risposta soddisfacente neppure a questo.
Cosa c’è che non va in te, Sukhvinder?
Gliel’hai detto che ho provato a tenere in vita la sua maledetta bisnonna?
Se ti preoccupi di quello che pensa la gente come Krystal Weedon, per te non c’è speranza!*
Se è la tua stessa madre a gridartelo in faccia, dovrà pur significare qualcosa.
Ti accasci a riprender fiato contro la ringhiera arrugginita del ponte rimani a guardare il fiume che scorre sotto di te come nel tuo incubo. Le tue lacrime piccole e fragili ci cadono dentro, si mischiano alle gocce di pioggia e cadono in quell’acqua dolce per ritornare al mare.
Perché dov’è che va, una lacrima?
Una lacrima che cade in un prato ritorna alla terra, viene assorbita a nutrire l’erba e le radici. Magari la goccia di pioggia che poi ricade sul tuo viso, è la stessa lacrima che qualcuno ha pianto da qualche parte del mondo, poi evaporata.**
E mentre ci pensi, mentre scacci via le tue lacrime graffiandoti le guance, perché non vuoi che ricadano più da nessuna parte, ecco che lo senti, un pianto più disperato e lacerante del tuo.
Ti volti a cercare, guardi l’acqua torbida, non riesci a capire fino a quando non vedi Krystal correre sulla riva opposta.
-Robbie, Robbie!-
Allora ti accorgi di quella macchiolina intrappolata in un vortice d’acqua.
Tre anni di vita strappati alla terra.
In un niente, sei in bilico sulla ringhiera con sotto il fiume che scorre e di sopra cielo che piange. Nel tuo sogno, ti lasciavi semplicemente cadere. Ma qui, pieghi le ginocchia e spicchi un volo che somiglia davvero al battito d’ali di una farfalla.
Pensavi ci volesse più tempo, ed invece l’impatto violento con l’acqua arriva immediatamente. Ti coglie impreparata, ti lascia senza fiato e un dolore accecante e mai provato prima ti scuote le viscere, ogni fibra muscolare del tuo corpo si ribella e grida. Gridi anche tu, tentando di restare a galla, tentando di riprendere fiato, scalciando e tentando, con le tue braccia, di afferrare Robbie che sta annegando senza aver visto proprio nulla di questo orribile mondo.
 
Ma Robbie ora è sdraiato su un prato dove chissà quante lacrime sono cadute. È sdraiato su questo prato sbiadito ed è morto. Se ne sta là, inerme, vuoto, come un curioso fantoccio di cattivo gusto. Qualcuno dietro di te, continua ad urlare. Solo allora ti accorgi di quanto stai urlando anche tu. Probabilmente ti sei lacerata i polmoni, a forza di gridare. Perché non si fa così, non si fa così.
-Un Medico! Mi serve un Medico!-
Perché la ricordi bene, la prima volta in cui hai visto i tuoi genitori inginocchiati con le mani premute sul torace di un uomo morente.
- Ti ho detto di non guardare, Sukhvinder!-
Perché te le ricordi le mani di tuo fratello premute contro i tuoi occhi, la rotella della tua bicicletta che ancora girava e la furia cieca con cui tuo padre ti aveva poi trascinata via, in salvo, dove non potevi più vedere.
Ed è questo che ora ti strappa il cuore, ti ruba l’anima e te la toglie per sempre.
È il restare in ginocchio con le tue mani premute inutilmente contro quel piccolo cuore volato già da un’altra parte.
È l’urlo cieco della tua vita ferita che si scontra contro la barriera invalicabile della morte.
 
-Potevi morire, Cincia.-
Tua madre ti liscia i capelli, le pieghe delle lenzuola. Sistema la tua gamba fasciata mentre parla con l’infermiera. I farmaci ti intontiscono, ma riesci lo stesso a sollevare la testa dal cuscino imbottito.
-Non sono riuscita a prenderlo in tempo.-
Guardi tua madre che stringe i tuoi vestiti sporchi di fango incurante del suo camice bianco.
La guardi piangere e rannicchiarsi con la fronte premuta contro la tua mano.
-Sei stata così coraggiosa a tentare di salvarlo, Cincia.-
Senti lo stesso tocco delicato che riservava solo ai tasti del pianoforte sfiorare ora la tua pelle martoriata dai tagli.
-Perché ti sei fatta questo?-
A fatica, rigiri la testa verso i pallidi raggi del sole che filtrano nella stanza in penombra.
-Krystal si è suicidata.- Ti dice poi sottovoce. -Con un’overdose.-
Poi si rialza, cammina in cerchio con la testa tra le mani, poi batte con forza il pugno chiuso contro il vetro e si volta nuovamente a guardarti. Ti guarda, tua madre, e ti cerca con gli occhi sgranati, bagnati, ti cerca come se non ti avesse mai vista ogni giorno per tutti quegli anni.
-Come hai potuto farti del male in questo modo, Cincia? Perché non hai provato a parlarmi? Ma chi pensi che sia, Sukhvinder? Che cosa pensi?- Afferra il colletto del camice, lo strattona, quasi si strozza  prima di sfilarselo e gettarlo ai piedi del tuo letto.
-Pensi che l’indossare questo ti investa di un potere divino? E’ questo che pensi? Perché se è così, allora io sono stata un fallimento, come donna e come madre!-
E ancora urla. Urla e piange ed è bella. È soltanto bella.                                
 
***
 
Le margherite profumano d’estate e di corse sfrenate sui prati.
La chiesa risplende di una luce fittizia.
Se Dio non esiste, tu non puoi farci nulla.
Ma puoi mettere un punto fermo alla tua vita.
E mentre guardi l’orsacchiotto malconcio di Robbie posato su quella bara, e mentre ripensi alla risata sguaiata di Krystal, mentre risenti il bruciore di ogni tuo singolo taglio su ogni tuo singolo strato di pelle,
lo sai.
Non occorre gridarlo ad alta voce, perché diventi reale.
Mentre ti rigiri la lama tra pollice e indice, e la spezzi senza più tagliarti, lo sai.
Non occorre gridarlo mentre esci e ti ferisci gli occhi al tramonto scarlatto, e finalmente piangi senza più sanguinare.
Occorre solo ripeterselo una volta, poi due, e tre.
Mentre butti via la lametta e tua madre ti cinge le spalle, occorre solo ripeterselo.
Tutte le tue cicatrici, sono lì per ricordartelo. Ci sarà tempo per tutto, alla fine.
E se nessuno te l’ha promesso, Sukhvinder,
 
te lo prometto io.

 
 
 
 

Note: Il titolo prende spunto dalla canzone Shattered dei Trading Yesterday. Volevo inserirne anche dei pezzi all’interno del testo, ma non sono riuscita a conciliarla per bene con la narrazione.
Riguardo alla storia, non so come sia venuta. Volevo scriverla da mesi, poi l’ho scritta in una sola notte. Per tentare di spiegare tutto il tormento interiore di Sukhvinder, noterete che ho dovuto accorciare un po’ i tempi della successione degli ultimi avvenimenti che prendono buona parte del libro. Spero si riesca a capire tutto lo stesso.
Personalmente, non reputo Il Seggio Vacante un capolavoro letterario. Ma molti personaggi di questa storia hanno toccato in me corde molto profonde. Questo è solo un banale tentativo di rendere loro omaggio. Contrariamente a quanto forse può emergere, non voglio giudicare Parminder.  In fondo, penso ce l’abbia messa tutta. Spesso il dolore di un figlio è troppo ben celato per essere visto anche dagli occhi attenti di un genitore.
*Le frasi con l’asterisco sono prese dal romanzo. Mentre il discorso sulla lacrima e sulla pioggia, con due asterischi, non è mio. Sono parole che mi sono state dette da una persona a me tanto cara. 
  
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