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Autore: njaalls    05/04/2014    7 recensioni
Losing him was blue like I'd never known, missing him was dark grey all alone, forgetting him was like trying to know somebody you never met, but loving him was red.

«Una lista di cose da fare prima di-» inizi con un sussurro.
«Non lo dire» mormoro, cercando le tue dita intorpidite e accarezzando il dorso della tua grande e lunga mano, quando ti trovo, stringi la presa con tutta la forza che hai in corpo, provocando in me un moto di preoccupazione perché sei più debole di ieri, sei più debole di quando ti ho visto per l'ultima volta, soltanto diciotto ore prima.
Genere: Malinconico, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Fabiana, perché mi fa sempre morire dal ridere e perché è entusiasta ogni volta che le dico di aver scritto una storia. Hai promesso di dirmi la verità, anche se fanno schifo, ricordi?


 
 
 
 
 
Losing him was blue like I'd never known
Missing him was dark grey all alone
Forgetting him was like trying to know somebody you never met
But loving him was red

 

La verità è che sono sempre stata una da film strappalacrime il sabato sera, avvolta in un piumone caldo e accogliente, una da storie romantiche e travolgenti soltanto nei sogni più profondi, una capace di desiderare con tutto il cuore quell'amore da favola, capace di innalzare alla gloria o distruggere cuori in briciole.
C'è che i tuoi occhi che mi guardano mi mettono in soggezione, facendomi arrossire, perché non sono mai stata una sicura di me, c'è che ti stai alzando e mi stai venendo incontro con un sorriso scaltro dipinto su quelle labbra sottili e rosee che tanto bramo. Sento un nodo formasi all'altezza dello stomaco: cos'è? Cerco di distrarmi, cerco di non badare a te o ai tuoi amici che ridacchiano in fondo al bus nella nostra direzione, cerco di concentrarmi suoi miei bracciali di metallo, i cui ciondoli tintinnano ogni qualvolta si scontrano, ma sento l'agitazione montarmi dentro, forse perché Ally, la mia road friend -come ci chiamiamo noi-, mi sta tirando la manica e «Hey, Romeo ore due», come se non mi fossi accorta di te, del tuo passo scomposto e delle tue spalle un po' curve, dei tuoi capelli informi o dei tuoi occhi vispi che sembrano voler essere sempre al centro dell'attenzione, e ci riescono. Eccome se ci riescono.
Percepisco il tuo corpo fermarsi proprio al mio fianco, mentre l'autobus inchioda e le porta si aprono, io ed Ally siamo proprio lì davanti, in attesa, perché la prossima è la nostra fermata. Faccio finta di non vederti, di ignorarti, di fare come se tu non fossi appena arrivato accanto a me e il tuo profumo misto al dopobarba non mi stesse inebriando, mentre ti reggi ad una barra per non travolgermi. Guardo in basso e noto che le tue scarpe sono del mio campo visivo e le osservo, mentre faccio di tutto per non alzare lo sguardo: non avrei motivo di voltarmi, giusto? Noi non ci conosciamo, sei soltanto il ragazzo che ormai -da due anni a questa parte- osservo ogni giorno schiamazzare e fare baccano con i propri amici, aggiustarsi i capelli -come se potessero davvero essere sistemati, in qualche modo- e sorridere sornione a chiunque ritieni sia simpatico e gentile tanto quanto basta per ricevere le tue attenzioni. E, a me, sorridi ogni giorno, senza sapere che dentro muoio dalla voglia anche solo dirti ciao, mentre mi fai sentire importante. E pensare che, due anni prima, non eri altro che la corsa sbagliata, perché, sì, questa linea allunga il mio tragitto di dieci buoni minuti. Da due anni a questa parte sbaglio linea ogni giorno e, tra i tanti errori, questo è di certo il mio preferito.
Prendi campo, sento il tuo respiro vicino e chiudo gli occhi, quando qualcosa poi attira la mia attenzione. La tua voce, certo: languida e dolce, lenta e letale. «Vera»
Perdo un battito e mi rimprovero perché, hey, non dovrei essere stupita, anche io so il tuo nome e non ci siamo mai parlati, é solo che fuori dalla tue labbra il mio pare quasi una melodia. Anche se odio il nome che porto, pur non sapendone il reale motivo e forse non ce n'è davvero uno, perché io sono così e basta, allergica a tutto ciò che crea la mia persona. Alzo inevitabilmente lo sguardo e sento i tuo occhi inchiodarmi, il bus frena a causa del traffico e io sto per finirti di sopra, ma le tue mani si staccano dalla barra in metallo e mi sorreggono prontamente, come se non fossero state create per altro. C'è la luce del sole che filtra dal vetro e batte sulla tua pelle pallida, mentre i tuoi occhi chiari sembrano brillare, e ci sono io che ti metterei su in un piedistallo solo per fare vedere al mondo quanto tu sia bello. Bello in maniera non convenzionale, ma bello da far invidia, e -ci scommetto quello che vuoi- sei una bella persona anche dentro, perché un viso come il tuo non può celare cattive abitudine e pessimi comportamenti. Percepisco le tue mani sopra il cappotto picchiettare sulle mie braccia, nel tentativo di farmi voltare, faccia a faccia, anche se sei alto, eccome se lo sei, ti accontento e mi trovo così vicina a te che le gambe potrebbero cedere. Non so se respirare, battere le ciglia o dire qualcosa, perché -in realtà- tu mi hai appena chiamata e io sto inevitabilmente facendo la figura della stupida; quando faccio per aprire bocca, ogni capacità umana che possiedo -parlare, respirare o deglutire- si volatilizza, portata via dalla tua irrequietezza e dalla tua brama a me sconosciuta e ben celata per tutto questo tempo. Le tue labbra -quelle che ho osservato, da lontano, per ben due anni e che ho studiato con meticolosa attenzione- ora sono sulle mie, impetuose e vogliose di qualcosa che mi stupisce. Perché io sono una sconosciuta per te, nello stesso modo in cui tu lo sei per me, no? Allora qual è il motivo di questo gesto? O perché mi sento come se fossero appena scoppiati i giochi d'artificio?
Mamma sarebbe disgustata, perché «Non dare confidenza agli sconosciuti e non accettare nulla da chi non conosci» e tu sconosciuto lo sei e mi stai offrendo tutto ciò di cui ho un disperato bisogno: se non avessi la mia età, probabilmente sarei già scappata via. Sento il sapore di caffè sulle tue labbra, sento la tua mano dal mio braccio fino alla guancia, intrappolandomi in una morsa salda. Chiudo gli occhi e mi godo il momento, perché so quanto durerà: troppo poco per imprimere a fuoco questa sensazione. Poi mi lasci andare, ma io non voglio, non è giusto. Perché non mi importa se quella a cui stiamo arrivando é la mia fermata, se Ally mi tira incerta per un braccio per richiamarmi o se tu mi stai guardando come se avessi appena fatto la cazzata del secolo, perché mi hai appena baciata e mi sento Beatrice in paradiso.
«Mi spiace» mormori e i tuoi occhi solitamente vispi lasciano intravedere un velo di insicurezza e tristezza farsi largo, seppur con difficoltà. Che succede?
«Harry» inizio, trovando la voce seppellita sotto un macigno nella parte più profonda del cuore. Ti allontani, prima un passo, poi due e io sgrano gli occhi preoccupata. Ho appena baciato uno sconosciuto e voglio rifarlo, perché sei lo sconosciuto più affascinante e sinistro che io abbia mai avuto l'onore di incontrare.
«Mi spiace» dici ancora, ora la tua voce, normalmente bassa e languida, è un sussurro appena udibile in mezzo alla vita frenetica delle strade inglesi. Mi mordo il labbro inferiore, che sembra urlarmi contro perché è così solo, ora che tu ti sei spostato da me e la tua bocca non brucia sulla mia. Abbozzi un sorriso e alzi una mano, facendomi tornare alla realtà: è la mia fermata, devo scendere, anche se non voglio. «Dovresti andare»
Scuoto piano la testa, faccio un passo indietro dispiaciuta dal tuo cambiamento improvviso e dovrei essere arrabbiata, anzi, perché mi hai baciata e scaricata nel giro di qualche secondo, senza un motivo, senza avermi mai parlato, senza esserti mai preso la briga di venire da me è dirmi qualcosa di carino. Mi hai appena baciata su autobus, hai lasciato apposta i tuoi amici per farlo ed ora? Ora mi allontani, ma no, sono io che me ne vado a testa alta, seguita a ruota dalla mia road friend stranamente silenziosa, pur sapendo che le mie labbra bramano ancora le tue e, chissà, per quanto ancora lo faranno.
 
 
 
C'è che le settimane passano e con loro anche la mia rabbia che, pian piano, si trasforma in preoccupazione perché tu non ci sei e tutto pare non avere più un senso. Sui tuoi amici aleggia una strana malinconia, le bocche serrate e una tristezza palpabile a chilometri di distanza, se prima ero furiosa per quel bacio, ora sono in apprensione come lo sarebbe mia madre se non mi vedesse più tornare a casa. Perché non ci sei? Sono andata dalla tua comitiva qualche giorno dopo la tua misteriosa scomparsa, ho preso coraggio e «Dov'è?» ho chiesto fissando negli occhi Louis. Nessuno mi ha dato una risposta concreta, si sono limitati a mettere insieme un «Non lo sappiamo», ma non ci credo mica e Niall me ne ha dato la conferma, quando ha cominciato ad agitarsi tutt'ad un tratto nervoso sul sedile ricoperto dalla moquette nera. Però ho lasciato perdere, perché non è giusto, non è giusto che alla fine quella a rimetterci e a stare male per te sono io, io che neanche ti conosco, ma che dipendo -volente o nolente- da te, che non sai altro che uno sconosciuto della linea sbagliata.
Dimmi, perché sento ancora i giochi d'artificio se penso al nostro bacio? Perché completavi le mie giornate, perché non aspettavo altro tutta la mattina e poi tutto il pomeriggio, se non vederti? Però adesso sei scomparso. Dove sei? Stai bene?
Passano i giorni, è metà febbraio e il freddo sta passando, probabilmente se fossi stato qui avresti avuto il tuo solito giubbotto con la tua vecchia maglietta ormai scolorita dei Pink Floyd, saresti stato acquattato contro il vetro e avresti chiuso gli occhi, mentre i tuoi amici avrebbero iniziato a parlare allegramente e il sole ti avrebbe colpito dritto in viso, riscaldandoti tutto. Ma il quadro è interrotto e il pittore a smesso di macchiare la tela. Dove sei, Harry?
Salgo sul bus e percorro il passaggio libero fino al mio solito posto, mentre Ally mi segue in silenzio e poi prende posto accanto a me. Il conducente parte e io volto la testa verso fuori, dal mondo frenetico all'esterno del mezzo, che ora inchioda e so anche perché: la tua fermata, ma non mi girò perché non voglio farmi male da sola, non mi va. Sento la musica nelle mie orecchie come se fosse lontana anni luce, mentre la mia road friend batte la mano a tempo perché mi ha rubato una cuffia come suo solito. Sento delle risate in lontananza e, non posso crederci, mi sono girata, quando mi ero ripromessa non lo avrei fatto: ora la delusione mi trafigge come un coltello dalla lama affilata, perché tu -ovviamente- non ci sei. Che mi aspettavo?
Vedo i ragazzi salire e raggiungere i loro posti abituali, quattro teste mi lanciano le loro solite occhiate e io rispondo con uno sguardo davvero poco gentile, congelandoli all'istante. Tutti si siedono, eccetto Louis che continua a fissarmi incerto, sospira e ci viene incontro. Torno a concentrarmi sulla strada, le macchina che ci sfrecciano accanto e gli alberi delle aiuole che scivolano ai fianchi come acqua, solo quando il tuo amico si ferma davanti a noi, facendosi più alto e possente di quanto in realtà non sia, parla e io schiocco la lingua. Con che faccia?
«Hey» dice in un sussurro insicuro, che fa a pugni con la posizione che ha assunto di spavalderia, quasi. Caccia una mano nella tasca dei jeans e nervoso si volta a guardare i suoi amici, che studiano da lontano la scena, io contemplo Louis con stizza, le braccia incrociate al petto e Ally che mi sostiene al fianco, poi il ragazzo esce un pezzo di carta stracciato e me lo allunga incerto. «Me l'ha chiesto Harry» e il cuore batte così veloce, il fiato è così corto, il respiro così affannato. Davvero?
«Lui... Lui sta-» inizio, poggiando il palmo della mia mano sulla guancia bollente. Credo di stare male e penso che la rabbia stia tornando a galla. Perché hai mandato Louis? È un gesto da codardi e tutto pensavo, ma non che fossi un ragazzo che scappa, si nasconde e manda gli altri a fare il lavoro scomodo. Louis deve aver inteso cosa mi frulla per la testa, perché arriccia le labbra in una smorfia e mi guarda carico di una strana compassione.
«Non essere arrabbiata, ha avuto un motivo valido» esordisce, tendendo di più il braccio verso di me, con mano tremante afferro il bigliettino che mi porge e lo apro. È un appuntamento e sobbalzo per la sorpresa, perché in realtà mi aspettavo qualcosa come una stupida scusa per scaricarmi. Da una parte ne sono straordinariamente sorpresa, ma dall'altra sento il peso della diffidenza segnare quel gesto, mentre mi mordo il labbro e provo a respirare regolarmente. Credo di non sentirmi bene. Louis fa un passo indietro, un cenno e poi si volta, incamminandosi verso i tuo amici, lasciando a me l'ardua decisione che ruota intorno a te, i tuoi capelli spettinati e quella tua espressione da ragazzo un po' alternativo e nel suo mondo, ma che la sa lunga sulla gente che lo circonda. Cerco di non scoppiare come una bomba e mi impongo di smetterla, non meriti tutto questo, sei soltanto un ragazzino e non vali tutta questa ansia.
 
 
 

Mi stringo nel giubbotto e calcio un sassolino, mentre l'erba bagnata striscia contro la pelle degli anfibi e so che sto sbagliando, non dovrei essere qui. Sono in anticipo, ma sono una di quelle persone che preferisce aspettare, che farlo fare agli altri, e che odia i ritardatari: da un lato spero tu non lo sia, perché guasterebbe l'immagine perfetta -o quasi?- che mi sono fatta di te nonostante tutto, dall'altro spero che tu sia il ritardatario numero uno, il ritardatario dei ritardatari, perché così almeno avrei una scusa per alzarmi, staccare il mio sedere freddo per l'umidità della pioggia dal seggiolino dell'altalena e andarmene a passo lento, ma deciso, verso casa. Mia madre pensa sia da una compagna, «Dobbiamo fare una ricerca» le ho detto e lei ha corrugato la fronte.
«È perché non mi hai avvertita prima? Solitamente me lo fai sapere» ha esordito lei, mentre sminuzzava le verdure per il minestrone del pranzo. Odio il minestrone e spero davvero che tu riesca a migliorare la tua posizione, perché oggi è una giornata sbagliata, iniziata nei peggiori dei modi.
I minuti passano lenti, la musica nelle orecchie e gli occhi fissi sull'entrata del parco semi deserto, potrei prendermi un accidenti e te ne darei la colpa. Mi dondolo piano, strisciando i piedi sul terreno per darmi la spinta, poi sento oltre la musica le tue mani che afferrano le catene che reggono il sellino accanto al mio, senza indecisione ti siedi. Tolgo una cuffia, la mano tremante e tutta la determinazione di poco prima a farsi un giro, incroci la gambe lunghe davanti a te e alzo lo sguardo. Sei bellissimo, ma sei anche tremendamente stanco e pallido e sfiancato. Mi alzo quindi con uno slancio, ma mi fermo, spaventata e insicura.
Mi stringo nelle spalle, una folata di vento mi sferza il viso e «Harry» sussurro.
«Grazie per essere venuta» ammetti, le tue mani sfilate giocano con il metallo freddo delle catene e il tuo  sguardo pare così impegnato nel lavoro di queste, che nemmeno lo alzi su di me.
«Mi dovresti qualche spiegazione» ti accuso perentoria, mordendomi il labbro. «Perché mi hai baciata? Perché quella volta, anche se hai avuto due anni per farlo? Perché sei sparito?»
Vedo i tuoi occhi chiudersi più volte svigoriti e stranamente spenti, ti sento irrigidire e affondare la testa nella sciarpa. Passano pochi secondi, lenti e inesorabili, in cui il fischio del vento è l'unico rumore in quel posto così vuoto e triste oggi che caccia brutto tempo. In diversi metri d'erba, ci siamo solo io, te e il mio cuore che batte all'impazzata, perché, nonostante tutto, sei sempre la fiammella che mi accende.
«Mi hanno diagnosticato un tumore» sgrano gli occhi e un pugno mi colpisco al petto, dritto al cuore.
Perché mi hai baciata? Non avevi nulla da perdere.
Perché quella volta? Era l'ultima in cui ci saremmo visti, pensavi.
Perché sei sparito? Perché sei... Malato.
Tutto si ferma. Per un momento, penso di mettermi a piangere, di arretrare, di spaventarmi davanti alla grandezza dalla situazione, ma con mia grande sorpresa non riesco a far scendere nemmeno un lacrima, rimango quindi immobile, in silenzio. Tu fai lo stesso, quasi assecondandomi.
 
 

 
«Una lista?» domando e corrugo la fronte, mentre con le braccia incrociate osservo te e la tua camera ad incorniciare la figura alta e stretta nelle spalle larghe che mi si presenta davanti. Annuisci e ti passi, con una smorfia dipinta sul volto, il petto coperto dalla maglietta di cotone bianca che ti fascia le braccia e lascia scoperte le forme sporgenti delle tue clavicole e le vene che ti pulsano sul collo. Scivolo verso di te, apparentemente sicura di quello che faccio, e ti raggiungo da dietro, ti poggio le mani sulle spalle e avvicino il mio viso alla tua guancia, iniziando a massaggiarti i muscoli delle scapole. Chiudi gli occhi e cala il silenzio, interrotto solo dai tuoi versi strozzati ogni qualvolta faccio un movimento azzardato con le tue ossa fragili strette tra le dita, poi spingi indietro la testa e la nuca batte contro il mio ventre, le mani scivolano verso il tuo collo, fino alle tue guancia, la barba appena accennata pizzica i polpastrelli al passaggio, ma non mi sposto, anzi, mi abbasso e circondo il tuo capo con entrambe le braccia, premendo così la fronte contro la tua tempia.
Non hai nemmeno la forza di alzare la mano per raggiungere il mio braccio, me ne accorgo quando provi a farlo e scoraggiato lasci scivolare la tua mano sulla gamba, emettendo un flebile sospiro, poi tossisci e mi si stringe il cuore.
«Una lista di cose da fare prima di-» inizi con un sussurro.
«Non lo dire» mormoro, cercando le tue dita intorpidite e accarezzando il dorso della tua grande e lunga mano, quando ti trovo, stringi la presa con tutta la forza che hai in corpo, provocando in me un moto di preoccupazione perché sei più debole di ieri, sei più debole di quando ti ho visto per l'ultima volta, soltanto diciotto ore prima. Sei stanco, sei fragile, sei sfinito emotivamente e fisicamente, eppure trovi la forza di farmi sedere sulle tue gambe, abbracciandomi, nonostante insista per non obbligarmi a farlo. Odio vederti soffrire e, anche se mi giuri che non ti causo nessun dolore, non voglio aggravare il tuo mal di muscoli perenne, perché odio sentirti trattenere il fiato, odio i medicinali con cui ti imbottiscono, odio questa terapia che ti sta accartocciando come un foglio di carta, facendo scomparire l'Harry sicuro di sé, pieno e sorridente. «Non succederà»
Tua madre entra in quel istante, ma né io né te ci stacchiamo o sobbalziamo, perché ci siamo abituati tutti ormai: passo più tempo con te che con mia madre, passo più tempo ad aiutare la tua, di madre, che la mia, ma loro capiscono e mi sembra sia un peso in meno che gravi su di noi, almeno questo. L'ex signora Styles mi sorride, perché tu gli dai le spalle, e non posso far altro se non notare che più tu ti affatichi, più lei si affatica, più tu sei stanco, più lo è lei ed è straziante stare a guardare e sapere che non posso fare nulla per aiutarvi. Alzo un po' la manica e do un'occhiata all'orologio che mi ricorda che devo tornare a casa, che la cena è vicina, prima per te e poi per me.
«È meglio che vada» dico, alzandomi e portando una ciocca di capelli rossi dietro l'orecchio, quelli che ti piacciono da impazzire, così dici. Rosso carota, come li definisci tu, sono il mio segno distintivo, insisti sempre che sono la prima cosa che hai notato quando ci siamo incontrati la prima volta, dopo non mi hai più scordata, ma non ci credo mica. «Devi mangiare»
«Non ho fame» brontoli, accasciandoti contro lo schienale della sedia, rispondendo così alla mia affermazione e avvertendo tua madre, la quale ha appena finito di annunciare che sta iniziando a preparare della carne. Mi guardi, abbozzi un sorriso e «Vorrei rimanessi», sussurri.
Apro la bocca per rispondere che non riuscirai a convincermi, nemmeno usando la tattica da ragazzo sofferente, ma tua madre mi precede e «Harry, devi mangiare. Non lo fai da due giorni»
È categoria e ferma nella sua sentenza, così sai, che non puoi scappare dal cibo anche stasera, i medici non ti dicono altro, no? Chiudi gli occhi e poi ti tiri su, raggiungendomi e abbozzando un sorriso stonato, mi circondi la vita con le braccia. «Forse è meglio che tu vada, sì»
E lo stomaco mi si contorce mentre tento di immaginare il tuo dolore e la tua rabbia, o la vergogna che provi spesso davanti a me, mentre vorresti essere forte per entrambi. Ma non ci riesci. So che ti rimproveri ancora per quando sono stata costretta ad assistere alla scena atroce di te piegato in due sul pavimento, le mani sullo stomaco e il vomito sulle mattonelle della cucina di casa tua, non dimenticherò mai la tua espressione sofferente, il dolore e la rabbia giustificata che hai riversato contro tua madre, urlandole di portarmi via di lì. Sappi che, se mi sono lasciata trascinare via, è stato soltanto per tranquillizzarti, perché sarei rimasta a reggerti la testa, in ginocchio e al tuo fianco, lo giuro.
Raccolgo la mia borsa dal tuo letto e mando un messaggio a mio padre, chiedendogli di passarmi a prendere. Tua madre va via e siamo di nuovo soli, allora le tue mani mi accarezzano le guance e poi mi afferrano il viso, ti sento trattenere il fiato e ti abbassi verso di me, piegandoti in avanti, mi baci. Non come la prima volta, quattro mesi indietro nel tempo, ma in modo più dolce e quasi disperato, perché il pensiero costante di non farcela ti sta logorando e, anche se non vuoi, sta logorando anche me, tua madre, tua sorella, il tuo patrigno e chi ti sta intorno, come i ragazzi, Ally che mi chiede come stai ogni giorno e la mia famiglia che pare essersi affezionata a te più di chiunque altro io gli abbia mai presentato. Chiudo gli occhi e ti accarezzo la schiena, poi ti abbraccio avvilita e sento che potrebbe esserci ancora un chance, ne sono sicura, c'è, perché c'è che sei il ragazzo più buono che abbia mai conosciuto, c'è che il modo lento in cui parli mi fa impazzire, c'è che la tua presenza è rassicurante, c'è che il modo in cui mi accarezzi i capelli è parte integrante della mia vita ormai, c'è che ho bisogno di te e non puoi andare via, no, non puoi.
Ogni cosa con te è frizzante, vedo la bontà in chiunque e sento ogni cosa che mi abbraccia e mi viene in contro, tutto è un colore vivace e se tu mi abbandonassi diventerebbe tutto grigio scuro, scialbo e triste. Perciò, ti prego, non lasciarmi.
Perché se dovessi dare un colore alla nostra storia sarebbe rosso, rosso acceso, perché toccarti in questo istante è come realizzare che tutto quello che ho sempre desiderato è proprio di fronte a me, perché ricordarti è facile come conoscere tutte le parole della mia canzone preferita a memoria, perché litigare con te è come tentare di risolvere un cruciverba e accorgersi di non sapere la risposta giusta.
Qualcuno suona fuori dalla finestra un clacson e ti allontani da me, è mio padre, lo so. Prendo un profondo respiro e sono conscia del fatto che non voglio salutarti, non voglio andarmene, non voglio separarmi da te, ma faccio un passo avanti e lascio un impronta delle mie labbra sulle tue.
«Vado» sussurro, il peso sulle punte dei piedi e la mano dietro il tuo collo, il tuo naso è contro il mio, prima che la tua bocca mi lasci un altro bacio. Questo mi toglie il fiato, ma non abbastanza da farmi tacere, con un soffio parlo e «Ti amo, Harry»
La tua mascella si irrigidisce e sento ogni muscolo del corpo, partendo dal collo che scotta sotto il tocco della mia mano, contrarsi, come se ti avessi schiaffeggiato, ma «Anche io, da morire» e ridi per quella che risulta essere una battuta di cattivo gusto, alla fine.
Mi trattengo dal rimproverarti e mi scosto dal tuo corpo caldo, raccogli il giubbotto di jeans e mi aiuti ad indossarlo, mentre dalla finestra entra un venticello piacevole in quella che si prospetta una serata afosa di giugno, in cui dormirò con il cuore in gola, il cellulare acceso sul comodino con la suoneria al massimo e la sensazione di ansia e nervosismo che mi sveglia in malo modo almeno due volte a notte. Credo di non dormire più senza interruzione da quando ho scoperto che la tua vita è appesa ad un filo, che ti danno sei tipi diversi di medicinali al dì, che hai sei cicli di chemio, che le tue condizioni non fanno che peggiorare perché quello con cui ti imbottiscono ogni giorno -mi hai spiegato- uccide sia le cellule cattive che quelle buone e credo di non dormire più come Dio comanda da quando ho capito di amarti e di non poter sopportare la tua perdita.
«Ci sentiamo stasera, okay?» agito la mano e faccio per allontanarmi, ma mi fermi e rimango con le dita strette attorno allo stipite e le altre sulla maniglia, pronte ad aprire la porta laccata di bianco. Mi volto e mi vieni incontro, un foglio in una mano e l'altra che si poggia sul mio braccio, per trattenermi.
«La lista» mi spieghi, un sorriso sghembo sulle labbra sottili, che ti sei appena inumidito con la lingua.
«È un'idea del tuo ultimo compagno di stanza, vero?» domando con un sopracciglio alzato, guardandoti divertita, fuori il clacson suona di nuovo, intimandomi di fare presto. Io non vi bado, ma tu hai sempre l'incubo di dover fare bella figura con miei, quindi mi prendi per mano e mi porti di sotto. «Quello un po' strambo dell'ultima volta, che non faceva altro che parlare»
«Già» rispondi, scendendo le scale e intrecciando le nostre dita. «Ma ho pensato da solo ai punti»
«Non credi che questo» e ti agito davanti al viso il foglio, quasi con rabbia. «Mi faccia stare male? »
«Tu non pensi che l'idea di non arrivare forse a domani, o al prossimo mese, mi terrorizzi?» domandi a tua volta, fermandoti all'ingresso e afferrandomi per le spalle. «Non credere che per me sia facile»
Di slancio ti abbraccio e so che non potrei stare meglio, perché sei la situazione più drastica che io abbia mai incontrato, ma anche l'unica che avrei saputo sorreggere. Sento gli occhi umidi, ma piano, provando a non farti sentire, tiro col naso e caccio dentro le lacrime che minacciano di riversarsi fuori dal cuore. Ti amo.
Mi stacco e mi prendi il viso tra le grandi mani, ancora, poi mi baci e «A domani»
Annuisco e mi apri la porta, non dico niente perché so che potrei scoppiare da un momento all'altro e non voglio che tu sia costretto a raccogliere le briciole del mio cuore che si sta sgretolando, sei tu che hai più bisogno di me. Mi alzo sulle punte dei piedi e ti di un bacio sulla guancia, mentre la tua mano indugia fin troppo sul mio fianco e davanti agli occhi di mio padre che ci guarda, in questo esatto istante, così stringo il foglio tra le dita e mi allontano, prima di voltarmi verso l'uomo che mi attende. Ho paura di leggere ciò che puoi aver scritto, sinceramente, ma non nascondo un sorriso quando vedo, in cima alla lista, un punto già depennato:
 
Baciare la sconosciuta dai capelli rossi.
 
 
 
 

La macchina scivola veloce sull'asfalto umido della notte, umido come le mie guance impregnate di lacrime che involontariamente sono scese giù per la rabbia del momento. Ora il pigiama è freddo, le scarpe da tennis sembrano scomode e troppo strette, il giubbotto di jeans mi fascia troppo le spalle, la pioggia che batte sul parabrezza e sui finestrini è fastidiosa, così come l'aria calda che mio padre ha accesso per riscaldarci e che mi sta colpendo dritta in viso: forse sono io, o probabilmente è il momento sbagliato che mi fa notare tutto quello che più mi da fastidio, saranno il nervosismo, l'ansia e la paura.
Ogni così è sbiadita, buia, grigia, vorrei urlare, ma mi trattengo, perché preoccuperei i miei che proverebbero a consolarmi con le solite frasi di circostanze, che un'adolescente non dovrebbe nemmeno provare sulla propria pelle. Arriviamo, l'edificio è basso e largo, le pareti bianche e macchiate d'umidità, apro la portiera che ancora la macchina non si è fermata, comincio a correre e mamma mi dice qualcosa mentre mi viene dietro, non l'ascolto. Seguo i cartelli, il freddo ad attanagliarmi le caviglie scoperte, ma il caldo che mi appiccica il pigiama e il giubbotto sulle spalle, entro in ascensore e premo il tasto numero quattro un centinaio di volte circa.
«Vera» mi richiama mia madre, i capelli scombinati e il viso stanco. Non l'ascolto, non voglio, non mi va, non è il momento adatto, quindi premo ancora il pulsante perché ancora le porte non si chiudono.
«Vera» continua mio padre, ma né lui né mamma capiscono. Cosa possono saperne? Non hanno mai amato qualcuno che potrebbe morire, non hanno mai concesso loro stessi ad una persona appena conosciuta, perché sapevano che era quella giusta, pericolosa, ma giusta.
«Smettetela, per favore» li supplico, mi reggo al poggia mano e sento le gambe tremare dalla paura, il terrore mi sta uccidendo lentamente, come veleno. Sono stanca, fisicamente ed emotivamente, non so se riuscirò ad arrivare alla fine di tutto questo, se mai ci sarà davvero una fine, se mai questa avrà responso positivo. Le porte si aprono, mi lancio fuori dal vano e quasi non prendo in pieno un medico sul pianerottolo degli ascensori, devio prima che possa anche solo accorgersi di me e cammino via, veloce, guardandomi attentamente a destra e sinistra, seguendo i cartelli e trattenendo più che posso il respiro, perché se c'è qualcosa che odio, allora quelli sono gli ospedali e la puzza -tanfo- di malattia che si portano dietro quasi a non volersene staccare più.
Incrocio un'infermiera, sto per chiederle indicazioni, ma tua madre che piange è udibile anche a chilometri di distanza, quindi accelero il passo e la affianco, mentre il tuo patrigno è seduto accanto a lei, in silenzio, il viso tra le mani e una postura scomposta. Sento i capelli di Anne lisci e morbidi sotto il tocco delle mie dita, le accarezzo le spalle e di slancio lei mi abbraccia, le lacrime continuano a scendere giù, vorrei assorbire tutto il suo dolore, a costo di dovermelo caricare tutto sulle spalle, ma non ci riesco, perché -cazzo!- non è una puntata di Teen Wolf e maledico tutti, perché voglio quel cavolo di potere, così tiro con il naso e piango in silenzio.
Passano le ore, siamo tutti lì: io, i miei, i tuoi e tu, che rimani nascosto nel sonno forzato che ti hanno iniettato in corpo, mentre vorrei vederti, abbracciarti e dirti che sono lì per te. Gioco con il foglio di carta che ormai mi porto dietro ovunque io vada, la tua grafia è piuttosto chiara anche se un po' piccola e per la prima volta sono davvero convinta di voler dare vita ai punti elencati sulla lista -e magari ne potremmo aggiungere degli altri- perché vorrei più ricordi possibili da legare al mio cuore.
Passano i medici e gli infermieri, aprono la porta di quella che pare essere la tua stanza, ma nessuno di noi può raggiungerti, vederti anche solo da lontano, perché sono così veloci nell'entrare, che è impossibile anche solo intravederti.
Sto seduta per ore, gli occhi spalancati, le mani congiunte sulla pancia e le gambe immobili per così tanto tempo che penso che si siano addormentane e, appena le muovo, formicolano, digrigno i denti e rimango in silenzio.
C'è ancora quella puzza di malattia, di speranze vane e di paura, di voglie inespresse e di amori perduti, ci sono animi tristi e cuori distrutti, mentre il tempo scorre e passa, senza tornare mai indietro, c'è che quel posto è il male e io voglio scappare. Non posso. Ci sei tu, ci sono le tue speranze ancora salde in quella lista, la tua voglia di vivere e la mie di farlo con te, perché c'è il nostro amore appena nato, che magari avrà vita breve -siete giovani, dicono-, ma c'è e brucia, perché stiamo giocando con il fuoco e nessuno pare voglia allontanarsi dalla fiamma.
Una dottoressa è appena entrata, passano forse cinque minuti e «Signora?» chiede facendo capolino dalla porta, gli occhi fissi su tua madre e un sorriso sincero a riscaldarle le labbra. Anne si alza tempestivamente e l'altra continua. «Qualcuno vorrebbe vederla»
E una, due, mille capriole fa il mio cuore, il battito accelera e il respiro mi muore in gola. Tutti ci alziamo, ma «Per il momento solo la madre» ci avverte il medio e io mi trattengo dall'urlare, ma, hey, é okay, è normale.
Il ticchettio dell'orologio appeso alla parete diventa insopportabilmente fastidioso, passeggio per il corridoio con la mente piena di domande e interrogativi, paure e ansie che mi stanno togliendo il respiro. Rivedo i tuoi occhi verdi e luminosi nei miei ricordi, risento indelebile sulla pelle la mia prima volta, le tue mani che giocano con i miei capelli, il tuo sorriso che mi da ogni giorno tutto ciò di cui ho bisogno, il tuo fiato sul mio collo quando dormo accanto a te, la tua protettività nei miei confronti, il modo in cui mi stringi la mano, la forza che mi dai con un solo sguardo, e ricordo anche i difetti che ti porti dietro e che io ti rinfaccio ogni volta che discutiamo, l'arroganza con cui rispondi quando sei nervoso, l'orgoglio che non metti mai da parte, il voler sempre sembrare perfetto, l'essere distaccato e freddo con chi non conosci, la sfrontatezza unica con cui però mi hai intrappolata tra le tue labbra. Amo tutto di te e allo stesso tempo odio ogni tuo più piccolo particolare, perché, cazzo, tutto quello che sei mi crea dipendenza: so che ti piacciono i jeans skinny, che bevi il caffè ogni mattina e mai ad un'altra ora del giorno, so che ti piacciono i capelli rossi, che adori le feste perché «Un party non ha mai ucciso nessuno», che diventi nervoso quando devi vedere tuo padre dopo molto tempo, che il tempo in cui sbraiti contro Gemma è direttamente proporzionale all'affetto che le vuoi, so che non sei mai stato innamorato perché ogni volta che dici o fai qualcosa di intimo e delicato nei miei confronti ti imbarazzi, arrossisci e ti passi una mano tra i capelli, sono costretta a baciarti e «È okay, tranquillo, anche io» sussurro. So che non potrei chiedere altro.
La porta striscia e si apre, mi volto di scatto e tua madre in lacrime, il viso arrossato, ma il sorriso stampato sulle labbra, fissa me e poi fa un cenno con il capo: un chiaro invito, che accetto senza pensarci. I miei piedi, uno dopo l'altro, la raggiungono, la superano e si fermano, incapaci per qualche secondo. Sei lì, gli occhi aperti, un sorrisino fiero sulle labbra perché hai resistito ancora, i capelli schiacciati dai cuscini e l'espressione stanca di uno che però vuole continuare a lottare perché è nato per non arrendersi.
Ti corro incontro e mi fiondo tra le tue braccia, che ignorano i tubi e i cerotti a tappare i buchi dei prelievi di sangue, che ti hanno fatto mentre dormivi, e che si aprono per me, accogliendomi nell'unico posto dove mi piace davvero stare. Non posso perderti, nessuno ti strapperà via da me, lo giuro. Prendo fiato e «Ti prego, non lo fare più. Ti porterò a Londra, faremo stage diving, ci tatueremo qualcosa di stupido, sì, saliremo su un taxi e urlerai "insegua quella macchina", andremo in biblioteca e canteremo a squarcia gola per indispettire la signora McCall, scapperemo da un ristorante senza pagare, ci intrufoleremo nella vecchia villa sul lago abbandonata e faremo tutto quello che di più insensato ti viene in mente, ma ti prego, non lasciare che questo accada di nuovo, il mio cuore non potrebbe sopportarlo ancora, sii forte. Promettimelo, Harry. Promettimi che sarai forte»
«Te lo prometto»
 
  
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