Note autrice
Lo scorso agosto, mentre stavo cercando informazioni online su Layne, mi
sono imbattuta in un messaggio che mi ha praticamente lasciato di sasso: un
forum riportava un post che una ragazza, una presunta conoscente di Layne,
alcuni anni addietro aveva postato in una discussione su MySpace.
Ora, per quanto io stessa sia scettica riguardo l’autenticità del suddetto
messaggio, non posso negare di essere rimasta colpita dalla quantità di
dettagli riportati e dalla devozione – perché alla fine di devozione si tratta –
che quest’ipotetica Koa ha dimostrato di possedere
nei confronti di Layne.
Per chi volesse leggerlo (e vi conviene farlo, perché altrimenti alcune
parti della storia non vi risulterebbero chiare), il messaggio è qui.
È molto lungo ed è in inglese, ma credo che ne valga la pena.
Questa storia è nata quindi otto mesi fa, ma è stata subito archiviata
perché sentivo che il suo momento non era ancora arrivato… oggi, in questo 5
aprile, sento di poterla finalmente condividere.
Era da molto tempo che non scrivevo qualcosa così intriso di emozioni, e
devo ammettere che cercare di calarsi nei panni di questa ragazza innamorata –
a tratti persino ossessionata – di Layne
è stato particolarmente difficile, ma ho cercato di farlo seguendo quelle che
sono le sue stesse parole.
Il suo messaggio mi lascia sempre con un nodo alla gola, e mi auguro per
lei che tutto questo non sia frutto della sua fantasia ma che sia veramente
accaduto… che lei abbia veramente avuto modo di conoscere Layne, di apprezzarlo
e farsi apprezzare a sua volta.
Probabilmente – anzi, ne sono certa – la mia storia risulterà melensa,
stucchevole e persino ridicola, ma credo che chiunque di noi, almeno una volta,
abbia sentito il bisogno d’immergersi totalmente in una sana dose di sentimenti
e sensazioni di questo tipo. La fanfiction si sarebbe
dovuta concludere con l’ultimo paragrafo normale, ma poi ho deciso d’inserire
un flashback/sogno/allucinazione finale – il paragrafo centrato e racchiuso tra
due parentesi graffe – per dare un’ulteriore idea di quanto devastante possa
essere l’amore ossessivo che certe persone provano nei confronti di altre.
Il mio comunque è solo uno stupido tentativo di ricreare una potenziale
storia d’amore, di devozione e ossessione dal punto di vista di una ragazza che
a tratti sembra perfino una stalker, ma una stalker sincera, una storia che forse è già stata vissuta
da qualcuno o che magari non è mai successa… poco importa: la coraggiosa Koa
è riuscita comunque nell’intento di farmi emozionare, e spero che faccia
altrettanto con voi.
p.s. il titolo della fanfiction
è una citazione tratta da La Freccia del
Tempo di Martin Amis.
Dazed;
Non c’è nulla di nudo come
gli occhi umani:
non sono neppure coperti dalla pelle.
Being
28 and living on my own is totally cool.
I've
learned to enjoy being with myself and keeping myself busy,
but
I would say my greatest fear would be being 45 and living alone.
I
hope by that time I have someone that I can fall in love with and have kids.
I'd really like a family.
I
have tons and tons of goals that I want to accomplish and I'm going to
accomplish, and I think my greatest goal is to have a family, a great family.
–
Layne Staley
Sbatto le palpebre
pigramente, cercando allo stesso tempo di scacciare uno sbadiglio senza farmi
notare: non vorrei darti l’impressione sbagliata, magari potresti pensare che
non me ne frega un cazzo di quel che mi stai dicendo e che sto solo fingendo di
ascoltarti, quando in realtà mi sto praticamente bevendo ogni singola parola
che ti esce di bocca. Il problema è che sono le quattro di mattina – fra tre
orette scarse dovrei essere già in piedi perché ho il turno in caffetteria e
non posso assolutamente mancare – e invece di dormire me ne sto in piedi nella
mia stanza, mentre tu continui a parlarmi da quasi due ore.
O meglio, per essere
precisi: ti stai esibendo in un sentitissimo monologo in cui continui a
maledire “la stronza” – ovvero quella troia della tua ragazza, l’unica modella
al mondo che non guadagna un cazzo e che si diverte ancora a buttarti merda
addosso e vuotarti il conto in banca – mentre io mi limito a biascicare
qualcosa e annuire con la testa, sperando con tutta me stessa di non
addormentarmi.
In questo preciso
istante il mio organismo vorrebbe soltanto cacciarti fuori dalla porta a calci
in culo – per ora si sta solo limitando a mandarmi a fanculo senza troppe
cerimonie – ma ignorarlo è facile, specie quando il tuo alleato di nome fa
“cuore”.
Tengo duro e ti guardo
– se mi concentrassi sui tuoi capelli scompigliati, l’orecchino e la barba
incolta forse riuscirei ad assumere un’aria più attenta e composta, chi lo sa –
e tu all’improvviso ti blocchi.
“Cazzo, forse sarebbe
meglio se ti lasciassi dormire… è che mi sono lasciato prendere un po’ troppo
la mano, scusa” bofonchi confuso, mentre io sembro svegliarmi e inizio a
balbettare come una cretina, assicurandoti che non mi sei di alcun disturbo e
che, anzi, se volessi restare qui stanotte c’è sempre il divano-letto in
soggiorno – “quello che si apre in due secondi, ricordi? È vecchiotto ma va
ancora bene”.
Ti guardo abbozzare un
sorriso e alzarti dal mio letto, dirigendoti poi a passo sicuro verso la porta
d’ingresso e aspettandomi lì con lo sguardo fisso sui piedi. Mormori ancora una
volta uno “scusa” e mi saluti con un bacio sulla fronte, lasciandomi mezza
rimbambita sul pianerottolo con il tuo ultimo “ma stavolta la mollo sul serio,
te lo giuro” che continua a ronzarmi nelle orecchie.
Sono le due di notte e
ormai sono trascorsi quasi tre mesi dall’ultima volta che sei venuto a casa
mia, la sera in cui mi hai lasciato senza parole davanti alla porta
dell’appartamento: la mattina dopo hai definitivamente rotto con la puttana e
io non ho potuto far altro che gioirne, ma speravo che la tua successiva visita
fosse dovuta ad un’occasione più felice di quella in cui ci troviamo.
In sottofondo c’è
ancora la cassetta di David Bowie che stavo ascoltando prima che arrivassi come
una furia, gli occhi rossi e l’aria distrutta di chi non ce la fa più a vedere
recitato per l’ennesima volta un copione troppo triste e conosciuto – “È morto”
è l’unica cosa che sei riuscito a biascicare, e io non ho potuto far altro che
annuire flebilmente, ritrovandomi poco dopo tra le tue braccia e non sapendo
bene che fare.
Ora siamo seduti sul
mio letto – tu che singhiozzi con il volto affondato nella stoffa della mia
vecchia maglietta dei Seattle Seahawks e io che resto
appoggiata alla parete, ricercando quel sostegno e quella forza di cui
necessiti ma che forse non riuscirò a darti – e resto con la mano a mezz’aria,
indecisa se sfiorarti o meno.
Ho paura che ogni
minimo movimento possa farti svanire nel nulla come un ologramma, farti
scappare a gambe levate da quest’appartamentino malcagato
– per cui ogni mese sborso la bellezza di duecentocinquanta sacchi – e dalla
sua anonima affittuaria.
Tra le lacrime mi
spieghi che hai paura d’iniziare il prossimo tour, hai paura di non saper più
dire di no ad una siringa… hai paura di mandare a puttane tutto quanto per
l’ennesima volta.
Ti rassicuro dicendoti
che cancellare tutto quanto non sarà la fine del mondo – i fan prima o poi
capiranno che c’è la tua vita di mezzo e che la tua serenità viene prima di
tutto e, nel caso in cui non dovessero comprendere la tua decisione, sarai
autorizzato a fottertene totalmente delle loro malelingue.
Sospiri e mi ringrazi,
dicendomi che – nonostante tu mi conosca solo da qualche mese – senti comunque
di poterti fidare di me, e confessandomi anche che forse sono l’unica persona
capace di comprenderti più di chiunque altro.
Trattengo il fiato
quasi senza rendermene conto e ti guardo, sperando così che tu non possa
sentire il mio cuore martellare come un ossesso dentro al petto.
Ti guardo e non riesco
a far altro che pensare a quanto speciale tu sia e a come vorrei che tu mi
guardassi nel modo in cui io guardo te.
Ci addormentiamo così,
con il rubinetto del bagno che perde e la mia mano tra i tuoi capelli.
Leggo l’intervista su
una delle riviste musicali che sei solito comprare ogni tanto e, una volta
finita, rimango in silenzio per un po’, soppesando le parole di Jerry. Con la
coda dell’occhio ti vedo trattenere a stento la voglia di chiedermi che ne
penso – già so che ti sarai spremuto le meningi tutto il giorno per cercare di
trovare del buono in tutte le frecciatine che quel vecchio bastardo ti ha
voluto lanciare.
Sei fatto così, ormai
ho imparato a conoscerti.
“Forse hanno travisato
quel che voleva dire… dai, è sicuramente andata così” mi decido finalmente a
parlare, e tu ti riscuoti un po’.
Nei tuoi occhi posso
chiaramente scorgere la voglia di credermi ma anche la consapevolezza che in
realtà quelle parole siano veramente uscite dalla sua bocca, e vederti così
combattuto mi fa mordere nervosamente il labbro.
Entrambi sappiamo
infatti benissimo come il Jerry di due anni fa si sarebbe comportato di fronte
ad una situazione del genere; il problema è che adesso passa il tempo a
sniffare coca dal ventre perfettamente piatto di qualche spogliarellista cubana
e che non ci pensa su due volte a dichiarare di volerti bene “nonostante
tutto”.
Chi vuol essere amato
nonostante tutto, Layne? Di certo né io né te, questo è poco ma sicuro.
Te ne stai in silenzio
per un po’ – incerto se aggiungere qualcosa o farne a meno – poi riponi la
rivista e te ne ritorni davanti al televisore per finire di guardare un
episodio di Vampire Princess
Miyu. Poco dopo ti imito e mi siedo sul divano,
poco distante da te, e ti guardo.
Ti guardo e mi
meraviglio di come tu riesca ancora ad essere così innocente – nonostante tu ne
abbia passate veramente tante durante le ventinove primavere che hai sulla
groppa – e ti ringrazio mentalmente per avermi permesso di poter condividere
con te dei momenti speciali come quello che stiamo vivendo in questo preciso
istante.
Le stringo la mano e
mi presento abbozzando un sorriso rapido, tornandomene poi in fretta a pensare
ai fatti miei: lei è ritornata e,
anche se so che sarete soltanto semplici
coinquilini, non posso fare a meno di chiedermi perché lei possa godere
di questo privilegio mentre io no.
Andiamo, Layne… chi ti
è stata vicina negli ultimi due anni? Chi ti era accanto quando hai pianto anche
l’anima perché Cobain si era fatto saltare il cervello o quando hai dato i
numeri perché non avevi alcun’intenzione di ricominciare a fare tour, per paura
di svegliarti una mattina e non capire come cazzo fosse arrivata la siringa
conficcata per bene nella carne del tuo braccio?
C’ero io, Layne. C’ero
io.
Eppure non sono io
quella che vivrà fra le tue stesse quattro mura… buffo, no?
“Puoi stare qui quanto
vuoi, ma se dovessi ricominciare a farti ti caccerò immediatamente… Intesi?”
Lei annuisce e ti ringrazia,
ma mentre il “grazie” le esce di bocca mi accorgo che i suoi occhi non si
stanno staccando di dosso dalla sottoscritta.
Non sta ringraziando
te, Layne… sta ringraziando me.
Lo ha capito anche
lei, lei lo sa.
Ovviamente lei c’è
ricascata e tu non hai saputo cacciarla di casa – “Non ha un posto in cui
stare, finirebbe per strada” sono le parole che mi hai rivolto quando ti ho
fatto notare quel che già sapevi – preferendo essere tu quello a doversene
andare via.
Una mattina hai
chiesto un passaggio ad una macchina a caso e te ne sei andato senza lasciare
alcuna traccia, senza che nessuno sapesse dove fossi andato a finire… nemmeno
io.
La consapevolezza di
non poterti più rintracciare sommata al disgusto che provavo per il fatto che
lei ti stesse distruggendo la casa e che si fosse approfittata di te per
l’ennesima volta hanno causato l’inevitabile: un giorno mi ha telefonato e si
sa – una cosa tira l’altra – abbiamo finito con il litigare per te. Sono volate
parole grosse sia da una parte che dall’altra e, prima che potessi realizzare
cosa fosse successo, la cornetta era già stata riagganciata.
Del seguito ho ricordi
piuttosto sbiaditi: in qualche maniera sono riuscita a contattarti, e tra le
lacrime ti ho confessato cosa stesse succedendo a casa tua e quanto lei fosse
nei casini – tutte cose di cui tu eri già al corrente.
E mentre le tue
valigie appena rientrate giacevano nel salotto ancora da disfare, le sue erano
nell’andito, pronte per essere caricate sul primo taxi disponibile.
Ti dirò, un po’ mi
pento di essere venuta a piagnucolare da te – lei ormai non era più quella che
abbiamo avuto modo di conoscere, era solo un fantasma che un tempo aveva avuto
il privilegio di essere una ragazzetta adorabile e scaltra, nonché la tua anima
gemella – ma poi mi ritrovo a pensare che forse tu non saresti più ritornato,
mettendomi quindi nuovamente il cuore in pace.
Mi basta rivederti fra
queste quattro mura per sentirmi decisamente più tranquilla, non scherzo.
Ti guardo startene seduto
sul divano con il capo chino, intento a rigirarti nervosamente le mani e
mormorare “Hanno ragione, avrei dovuto essere più presente… è tutta colpa mia”
come un mantra continuo, quasi volessi fartelo entrare per bene in testa.
Se solo fossi stata
con te quando t’hanno detto tutte quelle cattiverie, se solo fossi stata al tuo
fianco, forse saresti riuscito a renderti conto che tu non c’entri un cazzo con
quel che è successo, Layne… forse saresti riuscito a capirlo.
Sono questi i tuoi
famigerati amici? Sono queste le persone che vanno a dire in giro di adorarti e
che, alla prima occasione, ti gettano addosso valanghe e valanghe di merda?
Cosa ci guadagnano nel
dire che, se lei a ventisei anni già si ritrova un pacemaker impiantato in
corpo, è tutto merito tuo? Che cazzo hanno al posto del cervello, Layne? Che
cazzo hanno?
Fammi capire: aveva i
soldi per procurarsi l’eroina ma, se ha fatto la cazzata di usare cotone
idrofilo già sporco, dovrebbe essere colpa tua? Secondo loro sei così stronzo
da non darle novantanove fottutissimi centesimi per comprarsene un sacchetto
nuovo?
Quanto malata è la
gente, Layne?
“Non è colpa tua,
Layne” mi decido finalmente a dire “Non sei tu quello che ha sbagliato”
“Lei aveva bisogno di
me e io non c’ero, questa è la verità” sono le ultime parole che mi rivolgi
prima di alzarti e andartene in camera tua.
Guardo la tua schiena,
curvata dall’ennesimo fardello posto sulle tue spalle senza che tu lo
richiedessi – senza che tu lo meritassi
– e mi rattristo.
Non doveva andare a
finire così… non è giusto.
Busso alla tua porta,
suono il campanello, sbircio tra le tende… niente da fare, di venire ad aprirmi
non ne vuoi proprio sentir parlare.
E non fingere di non
essere in casa, Layne: so che si sei, so
che sei qui.
Altrimenti dove altro
potresti andare a cacciarti in una circostanza così merdosa come quella che
stiamo vivendo?
Non mi serve entrare
dentro casa tua per sapere che te ne stai rintanato in qualche angolo,
totalmente sommerso da un’onda cupa e minacciosa di auto-accuse, sensi di colpa
e dolore che pare proprio non volerti dare tregua nemmeno per qualche istante.
Non sei tu il tipo che
l’ha lasciata morire sul sedile di un’auto, Layne, non sei tu quello che ha ben
pensato di provare a svegliarla soltanto quando ormai era già in coma… non sei
tu quello che deve farsi carico della scomparsa di una ragazza di appena
ventisette anni, Layne.
Vorrei poterti dire
tutto questo, ma non posso: non posso perché ho troppo rispetto di te e della
tua personalità fragile, e non posso anche perché forse mi sono appena resa
conto che il filo rosso che vi legava in fondo non si è mai spezzato.
Mi aveva fatto credere
di essersi dissolto nel nulla – lo stronzo – e invece è sempre rimasto lì, fra
te e colei che un tempo era solita definirsi “un alieno che aspetta soltanto un
passaggio per tornarsene a casa”.
Chissà se adesso la
sua strada l’ha potuta finalmente ritrovare.
Ti guardo sollevare
una pila di libri e iniziare a posizionarla su uno degli scaffali della
libreria che hai installato in salotto: la tua vecchia casa mi manca un sacco e
in fondo so già che non finirò mai con l’abituarmi all’idea del tuo
trasferimento in questa residenza nell’U District, ma
non posso fare nulla per farti cambiare idea. Sospiro e tiro fuori dalla
scatola un altro po’ di volumi, iniziando a passarteli, mentre tu mi sorridi
piano.
Trascorrono alcuni
minuti ed ecco che devi già assentarti un po’ perché, a forza di stare in piedi
sulla sedia, la testa ha incominciato a girarti.
Ti dico di prenderti
pure tutto il tempo che vuoi e intanto proseguo il lavoro da sola, quand’ecco
che l’occhio mi cade sulla rivista poggiata sul divano.
So già perché l’hai
comprata, Layne, e la foto di Jerry in copertina non fa altro che darmi la
triste conferma di quel che temevo; sfoglio rapidamente le pagine per arrivare
all’intervista e, dopo averla letta, non riesco ancora a capacitarmi di come
qualcuno – un tempo così caro e buono – possa essere cambiato così tanto.
Odio il fatto che ti
tratti di merda solo perché non riesci a liberarti dell’eroina – come se la
coca che lui si sniffa ogni dannatissimo giorno fosse poi meglio, eh – e non
vuoi più saperne di rientrare nella band.
Andiamo, la vostra è
stata una bellissima avventura, ma se Jerry fosse ancora tuo amico – se solo
riuscisse ad essere ancora in sintonia con te come lo siete stati in passato –
forse riuscirebbe finalmente a rendersi conto che si è conclusa da un bel
pezzo, e che ricominciarla significherebbe soltanto arrecarti danni gravissimi.
La fregatura è che in
questo momento è troppo impegnato a scoparsi qualunque essere vivente di sesso
femminile, a forarsi il setto nasale con polverine fatate e a voler continuare
a ciucciare soldi dalla creatura incatenata che avete creato per poterlo
capire; così si limita ad andare a piagnucolare in giro a giornali, dichiarando
che ti vuole ancora bene – ti vuole bene
anche se lo fai soffrire.
Avanti, Jerry.
Soffrire? Mi stai prendendo per il culo, vero?
È tutto un ammasso di stronzate
e io lo odio, Layne. Lo odio perché in pubblico si lamenta e poi in privato non
ci pensa su due volte a rigirare il coltello nella piaga, e perché so che tu
non riuscirai mai ad odiarlo – resterà sempre il tuo partner musicale, e
l’intesa che voi due avete sviluppato nel tempo non è una cosa che si riesce a
scordare così facilmente, lo so – e quindi non mi resta altro da fare che
incazzarmi anche al posto tuo, tutto qua.
Sento lo sciacquone in
funzione, così mi affretto a rimettere a posto la rivista e a riprendere i
lavori da dove li avevo interrotti; quando torni in salotto mi trovi in piedi
sulla sedia e fai per protestare.
“Tu pensa a passarmi i
libri, vedrai che ci metteremo pochissimo” sono le parole che ti dico
sorridendo, così ti arrendi e mi accontenti.
Sai che non
sopporterei vederti ancora ciondolare debolmente qui sopra, e ti sei anche
accorto del fatto che abbia letto l’intervista, ma non dici nulla.
Ti limiti a sorridermi
e a commentare i libri che mi stai passando, talvolta rivelandomi le loro trame
e altre volte citando i pezzi che ti hanno più colpito, e io non posso far
altro che guardarti e ripromettermi che un giorno li leggerò tutti, dal primo
all’ultimo.
“Ce la puoi fare,
Mark… io resto qui con te”
Ti guardo – vi guardo – dallo stipite della porta,
per poi nascondermi quando lui si accorge della mia presenza e mi rivolge
un’occhiata assente.
Mi sono spaventata a
morte, lo ammetto; eravamo belli tranquilli in salotto, intenti a fare un paio
di chiacchiere e commentare acidamente uno degli ultimi videoclip proposti da
MTV, ed ecco che improvvisamente ha iniziato a dare di matto.
Non mi hai mai voluto
tra i piedi quando hai avuto una delle tue crisi, Layne, così mi sono vista
costretta ad urlare il tuo nome e implorarti di venire immediatamente perché
Mark stava veramente male.
Con questo non te ne
voglio fare affatto una colpa – non lo farei mai, lo sai… è solo che pensarti
in queste condizioni senza nessuno accanto, senza qualcuno che ti scosti i
capelli dalla fronte madida di sudore o che ti rivolga parole incoraggianti mi
fa letteralmente stringere il cuore.
“Andrà tutto bene,
vedrai…” ti sento mormorare – il tuo mento che si appoggia piano sulla mia
spalla – e da parte mia non riesco a far altro che singhiozzare e scostarmi da
te, andandomi nuovamente a sedere in salotto.
È ora che inizi a
combattere anche la tua di battaglia, Layne, perché Dio solo sa quanto tu stia
rischiando di arrivare troppo tardi ad un traguardo a cui forse non stai
nemmeno ambendo.
Guardo fuori dalla
finestra: il Sole splende e io non posso fare a meno di rabbrividire
disgustata.
Non avrei mai pensato
di dirlo, ma lo schifosissimo tempo dell’Emerald City mi sta mancando da
morire. Mi manca svegliarmi la mattina e brontolare perché i vetri delle
finestre – che pulivo ossessivamente ogni giorno – sono già bagnati dalla
pioggia che batte incessante, o bestemmiare per le automobili che sfrecciano a
tutta velocità, inondandomi di fango, acqua sporca e chissà quanta altra merda,
o incazzarmi perché non mi sono ancora abituata all’idea di dover circolare
coperta da diversi strati di vestiti e quindi sento il freddo penetrarmi
viscido fin dentro alle ossa, con annesso merdosissimo raffreddore in arrivo.
Mi sono trasferita
dall’altra parte degli States perché non riuscivo più
a sopportare l’idea di non essere più che un’amica per te, non riuscivo – non riesco – a capire perché io e te non
siamo legati da quel bastardissimo filo rosso che ancora ti tiene stretto a
lei, nonostante siano già passati quasi quattro anni da quando se n’è andata.
Una volta mi hai anche
detto che, adesso che mi sono fatta crescere i capelli, ho iniziato ad
assomigliarle; successivamente mi hai sorriso e ti sei alzato in fretta per
preparare il caffè.
So quanto ti sia
costato sorridermi in quel momento, Layne, ed è anche per quello che ho
preferito fare fagotto ed andare ad abitare nell’East Coast
– non avrei sopportato sentirtelo dire una seconda volta, non sarei riuscita a
tollerare il tuo guardarmi e vedere riflesso sul mio corpo quello di un’altra
donna.
Ora che hai cambiato
indirizzo e-mail ci sentiamo ogni tanto al telefono, ma non è più come una
volta: parliamo di cazzate varie come un tempo, questo è vero, ma pare che
nessuno dei due voglia scomodarsi ad intavolare conversazioni più intime e profonde
come quelle che eravamo soliti fare fino a qualche mese fa.
Sospiro e fisso il
telefono, per poi decidermi a comporre distrattamente il tuo numero – l’unico
che sia mai riuscita ad imparare a memoria – e aspetto.
Al sesto squillo
finalmente alzi il ricevitore e mi rispondi con tono asciutto, l’inflessione
che si addolcisce non appena realizzi chi sia il tuo interlocutore; mi
attorciglio il filo intorno al dito e intanto continuo a guardare il panorama,
sul quale vedo riflesso il tuo sorriso sghembo.
Non basteranno neppure
tutte queste miglia ad impedirmi di vederti, Layne.
Ti guardo ignorare le
telefonate di chi ti ha voluto bene come se ne può volere ad un fratello, ti
guardo far finta di non sentire il campanello suonato da tutti quei ragazzi un po’
cresciuti di Seattle e dintorni che cercano sempre di farti visita e aiutarti,
ti guardo fare il cocciuto e nasconderti dietro la tua stessa ombra, negandoti
persino a chi un suo grande amico lo ha già perso tra le canne di un fucile e
la disperazione, e spera che almeno tu non sia una nuova vittima dell’angoscia
di non poter essere abbastanza per tutto e tutti.
Ti guardo litigare
furiosamente con l’altro reietto – l’altra mela
marcia – proprio nel giorno del suo compleanno e ti guardo anche
rincorrerlo come uno spirito tormentato, pregandolo di non andarsene con
ostilità – in fondo forse già sai che tra poco la gente dovrà andare a
raschiare il fondo del barile che contiene tutti i tuoi ricordi.
Purtroppo ti guardo
anche quando i miei occhi vorrebbero non poterlo fare – così desiderosi di
cucirsi le palpebre per non assistere agli ultimi istanti della tua vita ormai
bistrattata – ma l’impercettibile fruscio delle tue ossa stanche giunge alle
mie orecchie come il più fragoroso dei baccani, e il tuo volto smunto trapassa
le mie cornee senza alcuna pietà.
Ti sto guardando
persino ora, in mezzo a tutta questa gente, gente che stranamente riesce a
starsene alla larga dai tuoi amici di sempre per rispettare il loro dolore. Qualche
bimbo nel frattempo si getta nella fontana e schizza acqua verso i suoi compagnetti, mentre dagli altoparlanti disseminati qua e là
la tua voce esce forte e chiara, quasi
fossi qui.
Ti guarderò anche tra
poco, quando i tuoi amici più intimi prenderanno il traghetto e se ne andranno
su un’isola a cantare e fumare sigarette nel silenzio più totale, interrotto
soltanto dallo sciabordio quieto che le onde producono infrangendosi contro il
molo.
Passerò i giorni a
sfogliare l’album dei tuoi ricordi che custodisco gelosamente fra i meandri
della mia mente, Layne: ricorderò in particolare quel giorno in cui me ne stavo
alla finestra di casa tua – intenta a farti ascoltare una canzone vecchissima
che ritenevo eccezionale – mentre tu stavi cazzeggiando al pc e ridevi
sguaiatamente.
Avevi gorgheggiato
qualcosa come “you are so superduper
bravissimo” e ti eri messo a girare come un cretino sulla tua stupida seggiola
con le ruote, e neppure allora ero riuscita ad odiarti, nemmeno allora ero
stata capace di disprezzarti anche solo per una stracazzo
di frazione di secondo.
Ti avevo guardato e in
quel momento avevo finalmente capito che avrei sempre amato con tutta me stessa
te e i tuoi occhi, così nudi e splendidamente devastati sotto il mio sguardo.
{Guardo il tuo petto rallentare la
sua corsa e poi fermarsi tutto d’un tratto, e mi dico che forse mi stai facendo
un tiro dei tuoi,
mi
dico che forse sai che sono qui a scrutarti chirurgicamente e quindi vuoi
farmela pagare per questo mio ostinato esserti sempre alle calcagna.
Ti
guardo restare immobile, aspettando ansiosa che il tuo sopracciglio si alzi
tutto d’un tratto e che tu ti metta a ridere sguaiatamente della mia ingenuità,
ma
non succede nulla di tutto questo.
A
quanto pare mi toccherà starmene qui ad attenderti per sempre – guarderò questo
guscio vuoto e mi dirò che tutto questo è un brutto sogno,
che
quel corpo irriconoscibile non è il tuo e che presto verrai a darmi un buffetto
sul mento come hai sempre fatto, da che ci conosciamo.
Forse
tra un po’ bacerò le tue labbra esangui, anelando l’ultimo respiro che hai
esalato,
cercando
in questa carne ormai fredda almeno una piccola traccia di te – o forse lascerò
perdere e mi limiterò a stringerti la mano,
senza
aver più paura di farti troppo male intrecciando le mie dita alle tue, ormai
così simili a dei rami insecchiti da un inverno troppo rigido.
Dopo
lo farò, te lo giuro.
Mi
serve solo un po’ di tempo per realizzare finalmente che il mio nome non uscirà
mai più da questa tua bocca smorta – e questo è forse il peggiore dei mali,
perché
Dio solo sa quanto adorassi sentire quelle sillabe lasciarsi possedere
docilmente dal tuo miagolio – e che i tuoi occhi malinconici non si poseranno
mai più sul mio profilo.
Per
ora continuerò a guardarti in silenzio, con la distanza e la freddezza che solo
un critico d’arte può avere mentre ammira e giudica il proprio capolavoro
preferito.
Ti
sfioro con la mente, percorro i tuoi contorni con il pensiero e li alliscio
quasi fossero argilla grezza tra le mie mani,
accarezzo
i tuoi lineamenti e un po’mi pento di non averlo mai fatto prima.
Sei
così bello, amore mio.
Sei
così bello anche se le tue clavicole sembrano quasi fuoriuscire prepotentemente
dalla carne, anche se le tue dita ormai grigie non volteranno più le pagine scritte
da Gibran,
e
anche se sei soltanto l’ombra dell’amore che ho avuto la fortuna d’incontrare
otto anni fa.
Premo
il mio corpo contro il tuo e ti sento, ti sento nel silenzio che rimbomba tra
le mura spoglie di questa tua prigione.
Ti
guardo nuovamente e, tra il velo di lacrime, scorgo le tue labbra curvarsi
piano.
Sorrido
a mia volta… il paradiso è così vicino.}