“Perché hai
accettato di aiutarmi?”
Sherlock crede di
sapere perché.
No. Una parte di
lui lo sa con la sicurezza con cui di solito sa qualsiasi cosa, solo per averla
osservata. Sa perché ed è sicuro di
avere ragione. Non è tracotanza. Lui lo
sa.
Lo sa, eppure c’è
un’altra parte di lui. E questa parte vuole sentirlo, vuole che sia lei a
dirlo, parole irragionevoli che pronunciate da lei potrebbero avere un suono e
un sapore diversi, acquisire un senso, una loro ragione d’essere.
(L’idea è
terrificante.)
Nel suo caso, lui
ne vede, ne ha sempre visto, solo le clausole. Dappertutto e ovunque. Sono
quello che lo hanno portato lì, sull’orlo del precipizio.
Prima di
rispondere, Molly si prende del tempo. Serra i pugni nelle tasche del camice
che indossa, pressa le labbra tra loro.
Sembra… sorpresa? Delusa?
Leggere le
emozioni non è mai stato il suo forte. Non che gli interessi farlo. (Vorrebbe? Un'altra idea terrificante.)
“Tu perché lo
fai?” Lo sguardo di Molly è limpido, lo sonda come per metterlo alla prova, lo
scruta senza imbarazzo di sorta.
Subito segue alla
domanda un sorriso lieve, crepitante, quasi colpevole per quell’attimo
inqualificabile di coraggio ardimentoso.
“Non avevo
scelta”, dice lui, inespressivo. Ed è la verità.
Molly accenna ad
un sì con la testa, di nuovo gli rivolge lo spettro del suo sorriso. (Dopo
anni, quel sorriso è diventato più che familiare. È una delle sue zone di
franchigia.)
“Neppure io.”
Molly gli dà le
spalle e non osserva l'ombra che cala sugli occhi di lui, veloce e inafferrabile.
Perché per la prima volta, forse, forse
Sherlock ha capito che lui e Molly sono simili e che se non c’è scelta per lui,
anche lei è ingabbiata nelle clausole di quei sentimenti che portano alla
morte.
La verità è che non
c’è mai stata davvero una scelta e se anche ci fosse stata, entrambi hanno
deciso di rifiutarla.
Le clausole di una scelta
L’ultima notte
che Sherlock trascorre nel suo appartamento, Molly deve costringerlo con la
forza a coricarsi per allontanarlo dalla corona di incartamenti che lo
attorniano.
Sherlock ha
cerchi neri sotto alle palpebre, i capelli arruffati e una luce allucinata
negli occhi penetranti.
Lo spinge fino al
letto, il suo letto. Gli toglie le
scarpe e dopo un’interminabile filippica, Sherlock si stende sopra
la trapunta, niente affatto conciliante con i suoi borbottii di rimostranza
sull’inutilità di quello a cui lo sta obbligando.
Molly fa per
coprirlo, poi se ne andrà in salotto a rimuginare fino all’alba, incapace di
dormire. Di guardia. Ha il terrore che lui
scompaia nel buio e nell’anonimato della notte, che se ne vada senza un saluto.
Molly ha bisogno di vederlo andar via e lo stesso è terrorizzata dall’imminenza
della sua partenza, come poche altre
cose le è capitato di temere in vita sua.
Perché
dopo comincerà l’attesa.
Quando lei gli
passa accanto, Sherlock le afferra il polso. “Resta”, dice.
Non è una
richiesta. È molto, oh, molto di più.
Molly gli si
stende accanto, su un fianco, la testa a poca distanza dalla sua. “Dormi”,
ordina in tono gentile.
Rimane a
guardarlo e scolpisce nella memoria il suo profilo. Osserva l’amato volto dai
contorni appuntiti stemperarsi e distendersi nel riposo del sonno.
Solo quando sente
il suo respiro stabilizzarsi, Molly si permette di poggiargli una mano sullo
sterno, in corrispondenza del cuore.
Lotta contro il
desiderio di farsi più vicina, posargli la testa sulla spalla, stringerlo fino
a soffocare nel suo profumo, nella sua persona gigantesca. Dio, sembra uno
spaventapasseri mal spuntato nel suo letto: tutto ossa e tendini e arti
allungati, mani da ragno e articolazioni snodate.
È
stato un ragazzino dinoccolato? Un divoratore di libri? Un costruttore di
nascondigli segreti e fortini solitari, appartati dal chiasso e dal frastuono
del mondo?
Vorrebbe saperlo.
Cosa darebbe per sapere com’era da giovane, se possedeva già la sua vena
sfrontata e l’ottusità della sua brillantezza, che gli impedisce di scorgere le
luci minori, di apprezzarne la luminosità quieta, pacata. Il fulgore della sua
lo rende cieco ed è un controsenso che gli restituisce umanità.
Molly lotta da
anni contro la cosa selvaggia e feroce e vulnerabile che la divora dall’interno
ogni qualvolta posa lo sguardo su quest’uomo geniale che sembra essere stato
morso da una tarantola. È uno scontro titanico, ma ci è avvezza, ci è - era abituata.
Ora è peggio. È come
amplificata. Dilatata dall’istinto di protezione, dalla consapevolezza della
separazione prossima, ruggisce e mugghia come un vento di tormenta, dentro di
lei.
“Torna”, mormora Molly
sommessamente. Si ritrova a ripetere la sua preghiera tutta la notte e la
mattina successiva, quando si sveglia, la parte di letto che lui ha occupato è
vuota e sfatta e neppure tiepida.
L’attesa è
cominciata.
Molly non si
stupisce quando il giorno del funerale una macchina nera dai vetri oscurati
accosta il marciapiede. Il finestrino si abbassa e compare il volto di una
donna bruna. “Salga, Dottor Hooper.”
“Perché dovrei?”
La donna – Molly
si sforza di ricordare il suo non-nome, qualcosa come Anthea – apre lo
sportello. “Lei sa perché deve.”
Sì, Molly lo sa
bene. È perché non ha scelta.
Durante il
tragitto, Anthea non smette di scrivere messaggi sul suo blackberry.
Alla sua logica
richiesta: “Dove stiamo andando?”, la reazione è stata un vago sorriso da Monna
Lisa, accompagnato da un enigmatico ‘Vedrà’.
Quando finalmente
la macchina si ferma e Anthea le dice di scendere, senza mostrare alcun segno
che faccia capire se la seguirà o meno, Molly si ritrova all’ultimo piano di un
parcheggio, l’asfalto sotto i piedi e il cielo che la sovrasta con un ammasso
di nuvole temporalesche.
Mycroft Holmes ha
entrambe le mani intrecciate sull’impugnatura del suo ombrello da passeggio.
“Dottor Hooper. Lieto che abbia accettato di incontrarmi.”
Molly non dice
nessuna delle banalità che lui sa che lei stia pensando, abbia pensato. Si risparmia la
fatica di pronunciare le frasi fatte che deve avere già intuito o decifrato.
“In casi come
questo, è bene che sappia che esistono dei protocolli. Verrà sottoposta a
un’inchiesta disciplinare. Ne uscirà pulita, nessuna macchia sul suo
curriculum, ma le pratiche d’ufficio richiederanno un paio di mesi.”
Molly annuisce.
Non ci aveva pensato se non confusamente, tuttavia la politica dell’ospedale in
cui lavora da sei anni non le giunge nuova.
“Chiarito questo
punto, è bene affrontarne uno più urgente. Il nostro comune amico mi ha
assicurato che lei sia una persona di assoluta fiducia e mi auguro che sia
così. Ciò nondimeno il mio giudizio è di mia competenza e su tale mi baso per
trarre le debite considerazioni. Mi aspetto che lei firmi dei documenti che la
vincolino al riserbo e scongiurino qualsiasi sventurata ipotesi che la veda divulgare
il segreto che ci lega.”
Molly vorrebbe
ribattere che è a conoscenza dell’intera situazione, che Sherlock ha badato a
raccontargliela, che non occorre farle sottoscrivere un pezzo di carta sulla
segretezza, ma poi si dice che se è quello che vogliono, se la sua parola non è
sufficiente, allora firmerà un fottuto documento.
Con un tatto che
la sorprende, come per svalutare quanto ha detto in precedenza, Mycroft
aggiunge: “Non sono io a dettare le condizioni.” Nel suo sguardo si rincorrono
pietà e – Molly si dà dell’illusa – un guizzo simpatizzante.
“E non sta a me
scegliere se seguirle o meno”, replica Molly, forse più bruscamente di quanto
sia sua intenzione.
Firma, nella
menzogna del suo vestito nero da lutto.
Dopotutto cosa
importa del resto, a chi interessa appigliarsi ai cavilli, sapendo che lui è
chissà dove a lottare per le loro vite a costo della sua?
*
John ha un
sorriso e un aspetto – sano, riposato, sereno, animato da una scintilla di
felicità nuova - che Molly non gli vedeva da tempo. (Anni, adesso che è
prossimo lo scadere dei due in cui lui è stato assente.)
Le presenta Mary,
le fa sedere una accanto all'altra. Sembra sulle spine, si sfiora i baffi con
inquietante frequenza.
Mary si piega per
bisbigliarle all'orecchio, complice e ilare. "Non ti senti anche tu sulla
graticola? Guarda come ci osserva: minaccia e prega che ci piacciamo. Non è
adorabile?"
Molly sorride.
Temeva quell'incontro. Ora teme solo che Mary possa piacerle troppo.
*
Ha completato il
suo turno, è nello spogliatoio. Fa appena in tempo a catturare il suo riflesso –
pallido, sfatto – prima che lo specchio dell’armadietto le rimandi un’altra
immagine. Quella di un fantasma, di un uomo morto.
Molly si volta di
scatto, sgranando gli occhi.
“Sherlock.”
Lui sorride e non
di un sorriso plastificato, truccato come i dadi di un baro. È un sorriso vero,
disarmante, che sottolinea ogni giorno dei due anni che ha trascorso Dio solo
sa dove, in luoghi impronunciabili e dimenticati.
“Sherlock”,
ripete Molly. E lo sa, è un medico, potrebbe
star avendo una reazione isterica. Iperventilazione, euforia, tachicardia.
Ciò che la
sorprende non è la presenza dei suoi sintomi, ma l’assenza di una risposta
mordente da parte di lui. È definitivamente quel pensiero a farla muovere per
corrergli incontro. Deve toccarlo, accertarsi che stia succedendo.
Pensava di essere
cambiata, di essere andata avanti. Passare
oltre. Come si può passare oltre all’amore, anche quando questo non è
ricambiato?
Non
si ama per essere riamati.
Lo abbraccia e
lui, dopo un attimo di esitazione breve quanto un battito di ciglia, le passa
le braccia attorno ai fianchi, curvandosi un poco in modo che lei non debba sollevarsi
sulle punte e stia più comoda.
“Molly”, le
sospira all’orecchio.
Molly potrebbe
piangere di felicità. Si trattiene, si sforza di rimandare il tutto a più tardi.
Sherlock odia quelle manifestazioni, le trova esagerate. “Sei tornato”, ride nel
dirlo, nel ripeterlo in una cantilena ininterrotta. “Seitornatoseitornato.”
Deve suonare come
una sciocca sentimentale. Non le importa, non ha davvero importanza.
Temeva di aver
dimenticato il colore dei suoi occhi, blu-verdi, di non ricordare l’esatta
sfumatura d’ebano dei suoi ricci, gli zigomi pronunciati, l’altezza svettante.
Molly ritrova
tutto nella solidità del corpo stretto contro il suo: caldo e vivo e reale.
Solo più vecchio e stanco e ferito in una misura che non le è dato di sapere
con sicurezza.
“Bentornato”, lo
accoglie, i muscoli delle guance le dolgono per quanto sta sorridendo.
Lo sente
sorridere a sua volta, lo vede sorridere con la coda dell’occhio ed è meraviglioso
in modi che non credeva possibili.
“Sono tornato per
restare.”
È tornato. Gli
hashtag #I believe in Sherlock Holmes# oramai impazzano per il web. Hanno
invaso Twitter, Facebook, Tumblr.
Chiacchiere si
rincorrono nei corridoi dell’ospedale, tra gli studenti e i medici in fila per
la mensa, supportati dallo schieramento delle infermiere al gran completo,
sempre più informate di chiunque altro nonché grandi sostenitrici nel
diffondere il loro credo personale: sapere è una scelta migliore del non
sapere.
Sherlock Holmes è
la rock star del momento. La ribalta appartiene a lui e a lui soltanto. Londra,
che in sua assenza è sembrata il simulacro della città poliedrica che è, non
parla d’altro, il resto cade nell’ombra del dimenticatoio.
Il
Consulente Investigativo è tornato, recitano i titoli delle testate
giornalistiche e dei tabloid.
Se anche non lo
avesse saputo, per sentito dire, per averlo letto, per averlo visto, a Molly
basterebbe osservare l’espressione di risentimento e amarezza che veleggia sul
volto di John per capirlo.
Lo ha scoperto o
meglio: Sherlock deve averglielo detto.
Molly ha un nodo
alla bocca dello stomaco, stritola le dita tra loro mentre un’ondata di sensi
di colpa antichi come la notte la travolge.
(Ricorda
un altro giorno. La veglia, a poche ore di distanza dal funerale.
“So
di suonare fuori luogo, ma devo chiedertelo, Molly. Io… devo sapere. Non è
possibile che – qualunque cosa strana. Qualunque. Deve esserci. Lui non può… è
Sherlock, per Dio! Molly”, la voce stravolta, smorzata dal filo di speranza a
cui si sta aggrappando, sul bordo del burrone che divide realtà e irrealtà, “ti
prego.”
Ti prego. Non può
essere vero. Non può essere morto.
Gli
occhi di John la scrutano e a quegli occhi supplici Molly mente. “Mi dispiace,
John. Mi dispiace tanto.”
Ora
come allora. Come sempre mentre recide il filo.)
“Ti avevo
pregato, Molly. Ero qui, di fronte a te e ti ho pregato. Ti ho chiesto se c’era
qualcosa, qualsiasi cosa che potesse spiegare… darmi una speranza.”
Molly tace,
bloccata dal lampo ferito che ha attraversato gli occhi di lui: è delusione e
molto altro ancora. Potrebbe essere la fine di un’amicizia.
Ha un groppo in
gola, ma non distoglie lo sguardo. È bene che lo guardi, che veda quel che ha
paventato per due anni, mentendo e rifuggendo gli amici, schiantata da un
dolore vivo e potente come una tempesta che lascia naufraghi. Lei ne sa
qualcosa. Quel tipo di dolore l’ha lasciata orfana due volte. Questa potrebbe
essere la terza.
“Da lui c’è da
aspettarselo.” Il tono è basso, arrochito da qualcosa che trascende la rabbia.
“Oltrepassare il segno, sì, è degno di lui. È Sherlock, ma tu Molly, proprio tu
di tutti…”, s’interrompe, scuote la testa.
Molly ricaccia
indietro le lacrime, la voce le trema appena, di una nota dolente. “Mi
dispiace, John. Mi dispiace così tanto.
Giuro che avrei voluto dirtelo, ma non potevo, capisci? Glielo avevo promesso e
Mycroft mi ha fatto firmare dei documenti, non che questo abbia la minima
importanza, non è una scusante.”
Ti
prego, capisci. Non potevo fare diversamente. E il pensiero più
potente di tutti, un sortilegio che ha del prodigioso e che scaccia via i
babau, gli incubi, la desolazione e la paura: Sherlock. L’ho fatto per lui. Farei qualsiasi cosa per lui.
John si passa una
mano sul viso, su cui indugiano un dispiacere e a una tristezza che la
feriscono molto più a fondo. “Mi dispiace. So che non è colpa tua e
probabilmente – no, sicuramente avrei fatto lo stesso. Non si poteva fare
altro, vero? Il fatto è che lui non lascia scelta.”
E prima che il
sollievo renda Molly consapevole di quello che sta succedendo, l’ha perdonata? L’ha davvero perdonata?, John
la abbraccia. “Deve essere stato penoso. Mentire a tutti, soffrire da sola e in
silenzio. Ora capisco. Ti vedevo soffrire, ma era un tipo di dolore molto
diverso dal mio, nostro. Credevo che
fosse dovuto al fatto che lo conoscevi da più tempo e che lo amavi. Avresti
potuto sfogarti, non era necessario che mi raccontassi nulla di… questo. Avrei cercato di capire, avrei
provato ad esserti di conforto.”
“Non potevo.”
Molly singhiozza nel pianto. Si lascia andare e finalmente è libera, libera di
piangere del motivo giusto, di un cordoglio che non è mai stato lutto, non di
quello che hanno sofferto loro. “Non potevo, non con voi che – lo avevate perso,
John. Era morto e anche per me che era vivo non… non c’era sicurezza. Non
sapevo dove fosse, se stesse bene, se-“
Se
sarebbe tornato.
“Oh, Molly.”
È
stata dura, Molly? Venire a patti con i tuoi demoni personali per lui?
Rinunciare alla tranquillità, alla serenità, alla vecchia te stessa timorosa di
sbagliare?
Per
saperlo vivo questo e altro. Questo e altro.
È una scelta che
ha fatto tempo fa. Una vecchia scelta consumata dall’uso improprio con cui lei
vi si appella, dalla facilità con cui lui ne fa ricorso.
Ha scelto di
essere lì per lui, sempre, a qualsiasi costo. Qualsiasi cosa succeda e
qualsiasi livello di stranezza raggiungano le richieste bizzarre di Sherlock.
Senza scavalcare il limite, però. In bilico tra etica e morale, tra tutto ciò
che c’è di giusto e sbagliato in quel pazzo, pazzo e meraviglioso e a volte
noioso e a volte frenetico mondo. Ogni volta rendendo il confine più elastico e
flessibile, estremizzandone la capacità di estensione, portandola a livelli
inimmaginabili.
Lo aiuta a morire.
Ed è per salvare la vita di amici, persone buone e care, la famiglia che lui si
rifiuta di considerare a quel modo, che lei ama pensare a quel modo.
È la donna che ha
ucciso Sherlock Holmes. Ed è la donna che lo ha riportato alla vita.
“Tu lo hai
salvato, Molly”, dice John, sciogliendo l’abbraccio, dopo che il pianto
convulso di Molly si è fatto cosciente e imbarazzato. “Direi che un grazie sia
d’obbligo.”
Molly, che si sta
strofinando le palpebre, gli rivolge lo sprazzo del suo sorriso più piccolo e
triste. “È Sherlock. Si è salvato da solo. Io l’ho aiutato, nulla di più.”
John la guarda
con uno sbalordimento che la stupisce a propria volta. Non sai? Non ti sei accorta? – sembra chiedere.
Molly si
acciglia, mille domande si accavallano, ma poi il telefono a muro, quello delle
emergenze, squilla e il discorso muore. Non prima che John dichiari: “Sei una
persona straordinaria, Molly Hooper.”
Vorrebbe
aggiungere altro, qualcosa del tipo: se l’ho
visto io, cosa ti fa credere che lui non l’abbia osservato?
Molly si è già
voltata per rispondere alla chiamata interna e l’occasione sfuma tra le
perdute.
*
Fantasie,
speranze. Molly non ci si aggrappa più. Ha Tom. Tom dal sorriso buono come il
pane e le manifestazioni incisive, un’eloquenza che si esprime non tramite
gesti, quanto a parole. Un fiume di parole, con tutti i suoi affluenti. Tante
da riempirci libri e canzoni e poesie. Le affettazioni di sciocchi
sentimentalismi, manierismi e formalità. Ma l’amore, pensa Molly, non è questo.
Non è dire o mostrare.
È sentire.
L’intensità
vitale di certi scatti felini, movimenti precisi che fendono lo spazio,
ragionamenti pignoli come i meccanismi di un orologio, l’elettricità statica
attorno a lui, l’aria che sfrigola della corrente di energia allo stato brado
che lo percorre da capo a piedi.
Insofferente,
irritabile, angolare e puntiglioso. Ciò che Sherlock è, rappresenta, non conta
limiti o definizioni.
Molly lo conosce
da otto anni e ancora non può dire di comprenderlo.
Afferra certe sue
espressioni marcate e corrosive, il suo modo di agire le è familiare, può
intuire cosa dirà – sentenze urticanti e dichiarazioni ingiuriose – da come le
sopracciglia gli scattano verso l’alto e da come gli occhi a volte gli
lampeggiano: di avvertimento, irriverenza, compiacimento o del divertimento di
un momento.
Il corpo di lui
emette segnali chiari, distinti e inequivocabili. Teso e inquieto durante i
casi in itinere, si scioglie in pose morbide, che cedono alla stanchezza a
lungo trattenuta, dopo la risoluzione del mistero o l’archiviazione del
caso.
Agile all’inizio,
impigrito nella passività forzata che scorta l’attesa del successivo. Stare con
Sherlock è come andare sulle montagne russe. Prima su e poi giù e di nuovo in
alto, tra le nuvole, per ripiombare nel baratro.
A chi non
piacerebbe? A molti, ma Molly è tra quelli che non ne avrebbero mai abbastanza.
Il matrimonio
serve ad aprirle gli occhi.
Lo vede andar
via, allontanarsi dalla pista da ballo e poi dalla festa.
Si convince che
sia solo andato a prendere una boccata d’aria nel patio del giardino. Mente a
se stessa. Trascorre i giorni successivi in preda al rimorso di non essergli
corsa dietro.
Non è solo
doloroso, non è solo un prendere coscienza di qualcosa che, lo ammette, ha
sempre temuto di sapere. È lei che fredda l’amore che ha desiderato provare per
un ragazzo gentile e premuroso, che le ha offerto il suo cuore e in cambio l’ha
ottenuto indietro scheggiato.
Molly il suo lo
vede come una cosa in male arnese, annerita e ammaccata, con punti bruciati lì
dove i traumi localizzati lo hanno colpito.
Sherlock è capace
di provare emozioni, le più alte e nobili, fronde di alberi secolari che hanno
radici attecchite nel terreno tutto attorno, punteggianti.
Sherlock può
amare e se già sapeva questo, è altro a macerarle l’ennesimo pezzo di cuore.
Quante volte lo ha spezzato? E quante lo ha ricucito? Qual è il punto di non
ritorno, quello in cui la rottura sarà definitiva, in cui tornare indietro sarà
impossibile?
Sherlock
può amare. È lei che non può o non vuole amare.
*
“Molly.”
Sherlock le è di
fronte e il corridoio all’improvviso si svuota della presenza di chiunque
altro. Il tono è inconfondibile, insieme ai sottotesti che lo accompagnano: Eccoti qui. Ti cercavo. Mi serve il tuo
aiuto per una questione della massima urgenza.
Molly gli
sorride. Non ha importanza perché sia lì. Dopo l’inferno della sua lontananza,
l’inferno della sua vicinanza è tollerabile. “Cosa ti serve?” domanda,
stringendosi contro il petto le cartelle cliniche.
“Ti amo.”
Non un palpito in
Sherlock, solo un leggero fremito alle palpebre accompagnano la più
straordinaria delle dichiarazioni.
Il sangue le si
congela nelle vene. La terra si capovolge e ritorna sottosopra. Molly trattiene
il fiato per quello che sembra un secolo. Alla fine scrolla il capo, si
acciglia e lo squadra con vago rimprovero. “Così non va. Ti rendi conto di non
essere credibile?”
Sherlock emette
un verso di puro sconforto. “Ho formulato male le parole?”
“Non è una
questione di parole, è più…”, Molly muove la mano libera in uno svolazzo vago,
che sta a indicare tutto e niente, “l’impostazione. Innanzitutto suonava
impersonale. Peggio: fredda.”
Sherlock
annuisce, in un chiaro invito a proseguire.
Molly se lo
immagina a prendere appunti e note mentali. “Esprimere i propri sentimenti è
praticamente una consegna delle armi. Significa che per te quel qualcuno è
necessario, che non riesci a immaginare un solo giorno della tua vita senza di
lui, senza saperlo con te, nel bene e nel male. Vuoi averlo vicino e allo
stesso tempo vorresti non averlo conosciuto per la dipendenza a cui ti ha
portato.”
Sherlock aggrotta
le sopracciglia, confuso. “L’amore crea dipendenza?”
Molly ride. Una
parte di lei vorrebbe piangere. “Dio, no. No. Quello che intendo…” Buon Dio, cosa intende? “Cosa provi
quando risolvi un caso?”
Sherlock la fissa
stupito, preso in contropiede. “Non vedo come questo-”
“Fidati di me,
Sherlock”, lo blocca Molly. “Vuoi?”
C’è uno strano
lampo che gli attraversa gli occhi, ma Molly è troppo distratta dal contesto
della conversazione allucinante che stanno avendo per farci caso.
“Sei appagato con
te stesso e in quel momento ti senti in pace, vero?” comincia a parlare a
macchinetta, una sfilza di parole compresse tra loro. “Come se nulla potesse
andare storto, perché anche se lo facesse tu saresti là, pronto a raddrizzarlo
o a trovare una scappatoia di qualche genere. E ovviamente c’è l’entusiasmo,
una specie di frenesia che ti scorre dentro. È come avere una cosa
incandescente nel busto, che sembra sul punto di conflagrare e che poi invece
implode.”
“Molly.”
Molly si umetta
le labbra. “Lo so. È abbastanza confusionario e-”
Dannazione,
sta straparlando.
Sherlock non
distoglie lo sguardo e Molly lo sente pesare, mentre le scandaglia il viso, in
una carezza di velluto. Gentile come non è mai stato prima della Caduta.
“D’accordo. Ecco
il mio suggerimento.” Scosta gli occhi a malincuore, li fissa sul linoleum.
“Quando dici a qualcuno di amarlo, immagina di amarlo davvero. Fingere è
inutile. Per quanto bravo neppure tu puoi simulare l’amore. Il massimo che puoi
tentare è pensare a qualcuno che ami.”
Le labbra di
Sherlock formulano in uno specchio muto e fanno eco alle sue ultime parole. “Quindi
è questo il tuo consiglio?” domanda impassibile, le braccia incrociate dietro
la schiena.
“Questo è il
consiglio del giorno, sì. Quando lo dici, pensa a qualcuno che ti è caro. A
John, per esempio.”
Lo sente
inspirare rumorosamente. Si sta armando di pazienza, come ogni volta in cui
cerca di instillarle la dose giornaliera di ragionevolezza.
Non
essere ridicola, Molly Hooper, la morte non cambia
le persone. Le uccide.
Molly,
solo perché ridi più spesso di quanto umanamente accettabile, questo non fa
di te una persona felice. E non rende me un infelice.
“Io non amo
John.”
L’orrore della
prospettiva gli ha caricato la faccia, trasformandola in una maschera
grottesca, divisa tra il raccapriccio e l’incredulità per il fatto che lei
abbia anche solo osato pensare una simile aberrazione.
“Sì che lo ami
invece. Così come ami la signora Hudson e Greg e tuo fratello. Cristo,
Sherlock”, sbotta, usando una delle imprecazioni preferite da John, “sei morto
per loro. Certo che li ami.”
“Tu mi hai
ucciso.”
Questa volta a
Molly non passa inosservato. Non è solo la voce, pericolosamente bassa, soffice,
quasi tenera, ma è il modo in cui la scruti ad occhi socchiusi, come qualcuno
che abbia studiato una teoria tutta una vita e stia cercando di riscontrare la
sua attendibilità nella pratica dell’esercizio.
La considera con
l’occhio clinico e meticoloso dell’uomo di scienza e tuttavia ci sono tracce
duttili, anche calore. Non è simpatia o attaccamento. È qualcosa di più vago e
generale, ma che nel loro caso, nel caso di Sherlock, dice tutto: è sentimento.
Molly deglutisce,
disorientata da quello che ha osservato, si rifiuta di osservare oltre. È la
sua immaginazione che le gioca brutti scherzi, si dice, nient’altro. “Sì, l’ho
fatto. E se mi farai arrivare in ritardo per la lezione potrei anche rifarlo.”
Sherlock storce
la bocca in una smorfia. Non ha mai apprezzato il suo umorismo.
Allontanandosi,
Molly chiude gli occhi.
Quelli di
Sherlock la seguono finché non svolta, finché è loro possibile.
Molly li sente, a
trafiggerle le scapole come frecce.
*
Tutto ha
raggiunto un equilibrio, un precario equilibrio che delinea il suo percorso
alla stabilità.
Dopo la rottura
con Tom, Molly sta riscoprendo la solitudine dell’appartamento, delle serate
libere, delle notti quiete in cui il pensiero di Sherlock la tiene sveglia a
fissare vacuamente il soffitto, a confezionare canovacci domestici impossibili,
a fabbricare scene di vita quotidiana che non vedranno mai la luce.
Poche settimane
dopo il matrimonio, in una di queste notti, per
la verità è tardo pomeriggio, dopo un turno di quasi venti ore, ha ogni
intenzione di dormire come minimo dieci ore di fila.
Mentre
ricostruisce con dovizia penosa un salotto con le pareti dell’esatta tonalità
di azzurro dei fiordalisi, un giardino pieno di viole e primule, sul retro di
un villino di campagna con un grande cane bianco e qualche gatto, Molly sente
un cigolio.
Deve essere la
finestra che si affaccia sul lato della stradina in cui sono ammucchiati i
bidoni. Sono due settimane che si appunta di oliarla, ma il pensiero ogni volta
scivola via, perdendosi in una miriade di altri ininfluenti. Prima era Tom,
nelle domeniche mattine, ad aggiustare con la cassetta degli attrezzi le
tubature rotte, le fessure, le assi scricchiolanti del pavimento, le mille
perdite di quel suo appartamento che ha tanti difetti, sì, ma che è casa sua da
quasi dieci anni.
Il cigolio si
ripete e Molly è costretta a scartare l’idea di Toby, rientrato dalla sua
passeggiata serale, o di un colpo di vento troppo forte.
Prende la mazza
da baseball che conserva sotto al letto per circostanze del genere e aspetta in
silenzio.
Dei passi in
salotto. Qualcuno tasta i mobili, cerca a tentoni qualcosa.
Urta la lampada
che cade. La voce di un uomo impreca e al suono di quella voce, nel
riconoscerla, Molly apre la porta della camera da letto e accende la luce in
salotto.
“Sherlock.”
Sherlock si
massaggia il naso. Deve aver battuto contro la lampada.
“Sherlock”,
ripete Molly, ancora impugnando la mazza da baseball. Nel pigiama di flanella,
i capelli ingarbugliati e sciolti sulle spalle, non deve avere un’aria intimidatoria,
ma Sherlock appare ugualmente a disagio.
Questo la porta a
pensare al peggio. Sherlock incrocia il suo sguardo e un rapido cenno di
diniego da parte sua serve a dipanare il panico.
Molly si rilassa,
posa la mazza sul baule che contiene l'abito da sposa di sua madre, accenna un
sorriso assonnato. "Posso offrirti un tè?"
Il suo silenzio
potrebbe essere imperscrutabile, ma Molly lo conosce da tanto di quel tempo che
lo trasla in un improbabile sì, ti
ringrazio,è molto gentile da parte tua non dare di matto perché mi sono
intrufolato nel tuo appartamento dalla finestra.
Aspettando che il
bollitore fischi, Molly cerca di calmare il battito cardiaco. L'ultima volta
che lo ha visto risale alla settimana precedente, all'atipica conversazione sui
modi in cui far apparire sincera una dichiarazione d'amore.
Molly non è
sciocca. Ha capito che la sua richiesta sia motivata da un caso.
Solo per qualcosa
del genere, adrenalina e brividi del rischio, Sherlock si spingerebbe così in
là.
È un bravo attore,
con capacità istrioniche degne di un interprete teatrale, ma quando si parla di
relazioni umane...
Il bollitore
fischia. Molly versa l'acqua bollente in due tazze in cui ha già messo i filtri
e lo zucchero.
Quando torna in
salotto, lo trova nell'identica posizione: seduto sul divano, le mani sulle
ginocchia e lo sguardo fisso nel vuoto, astratto.
Si concede un
attimo per fissarlo - è affascinante, lo
è sempre stato, mai in forme meno che strazianti e acutissime -, quindi
poggia le tazze sul tavolino e gli sfiora la mano, chiamandolo piano. Basta perché
lui torni.
"Ecco il tuo
tè."
Sherlock fa un
cenno assorto, le sopracciglia aggrottate.
Il tè rimane dove
lei lo ha lasciato, arabeschi di vapore convogliano l'effluvio aromatico della
bevanda che secondo i poeti dovrebbe riscaldare l'anima, sdiacciare lo spirito.
Molly beve il suo
lentamente, soffiando prima di ogni sorso. Attende il seguito, quello che deve
venire.
Sherlock si
schiarisce la gola. E di tutte le cose che Molly si aspetterebbe, ecco la più inverosimile:
"Ho bisogno che tu mi presti il tuo anello di fidanzamento." Una
pausa. "Per piacere."
E Molly potrebbe
obiettare, rifiutarsi, pretendere spiegazioni.
Non lo fa. Va a
prendere l'anello che conserva nell’ultimo cassetto del comodino, nella scatola
in cui sono ammucchiate alcune vecchie foto, le fedi dei suoi genitori, fasci
di cartoline e lettere di amici. L'angolo
dei rimpianti.
Prende la
scatolina blu e la stringe un attimo contro il palmo, serrando la bocca.
Non è come
tradire la fiducia di Tom. O forse sì.
Il
suo anello di fidanzamento. Quello che, se solo avesse voluto, avrebbe
fatto di lei una sposa, una moglie e un giorno, forse, anche una madre. Le dita
indugiano, seguendo il contorno di apertura.
La porge a
Sherlock senza una parola e lui la prende senza una parola.
Deve essere
rimasto qualcosa di tutto questo, incastrato a metà strada nei suoi occhi. Troppo espressiva, Molly, non sai mentire (quante
volte l'ha ripresa, Meena?).
Sherlock le
indaga il viso. Click, fa la sua mente brillante, allora, associando i pezzi,
ma è troppo tardi.
Molly non vuole
niente da lui. Solo che se ne vada e la lasci sola.
Sherlock ha
ancora la scatolina sulla mano aperta - il blu è intenso come certe corolle dei
fiori, denso al modo dell'inchiostro nelle penne biro contro il bianco artico
della pelle di lui.
Non si muove per
riporla nella tasca interna del cappotto o per tornarsene al milione di cose
che, ne è certa, lo aspettano fuori.
Molly sospira, si
passa le braccia attorno al busto. "In questo momento non sai quanto sono
felice che tu non sia come gli altri, non sia tra quelli che esprimono frasi
consolatorie o di circostanza. Non è come se Tom fosse morto", spiega,
contrita. “È solo che non eravamo abbastanza, l'uno per l'altra."
Sherlock esita,
curva le labbra all’ingiù, seccato. Qualcosa nella frase lo ha disturbato, è
evidente. La natura confidenziale?
Scrolla la testa e deve star piovendo, perché solo in quel momento Molly si
accorge che ha i capelli umidi sulle punte. Gli si arricciano contro la fronte accigliata.
Le dita le
prudono per quanto è forte il desiderio di tirarglieli indietro.
Asseconda
l’istinto e glieli sistema in punta di dita, un semplice gesto che ha dello
straordinario perché lui glielo lascia fare.
“È per un
caso", confessa, ad occhi chiusi.
Molly ritira la
mano.
Sherlock riapre
gli occhi ed ecco qualcos'altro a cui paragonare il blu del velluto: l’eco di
un nugolo di idee assordanti affolla lo sguardo di lui. Sembra... ferito? Possibile?
Molly fa un passo
indietro, gli rivolge un sorriso spento, in cui malinconia e rinuncia vanno di
pari passo. "Potrebbe essere altrimenti?"
Dopo che lui se
ne va, Molly si accerta che le finestre siano ben chiuse.
Il tramonto cede
il posto alla sera, una sera di porpora e stelle fredde, tra stralci di nuvole
rosa.
*
Fa in modo di passare
a trovarlo solo quando è sicura che sia sedato o intorpidito dagli anestetici.
Controlla la sua
cartella clinica, annota i progressi con una ruga di preoccupazione per il
livello di morfina.
Non si fa vedere
durante il giorno. Rifugge gli orari di visita diurni.
Una notte, però, dopo
che Mary le chiede se abbia visto Sherlock e la avverte che è scappato
dall’ospedale e che nessuno ha idea di dove si sia potuto cacciare, dopo la
fine del suo turno, tornata a casa, Molly trova una scatolina blu sul tavolino
del salotto. Non ci sono biglietti ad accompagnarla. Non occorrono.
Da quel momento
smette di evitarlo.
*
Molly sta sistemando
le decorazioni natalizie. Va in cucina per prepararsi una tazza di tè e quando
torna c’è Sherlock, in piedi di fronte all’albero di Natale ancora spoglio. Ha
tracce di neve sul cappotto, il bavero sollevato; indossa i guanti di pelle e
la sciarpa è annodata.
“Fammi
indovinare”, lo saluta Molly con una risata. “Stai per raccontarmi qualche
aneddoto che avvalori la tua tesi sull’inutilità delle celebrazioni religiose.”
Sherlock le
indirizza il balenio di sorriso. “Stavo per essere così banale.”
Molly si siede
sulla poltrona. “Perché sei qui, Sherlock?” domanda, curiosa.
Sherlock non smette
di prestare attenzione alla fila di lucine colorate che lei ha appeso intorno
all’imbotto delle porte, sulle mensole e sugli scaffali delle librerie, i
ripiani dei mobili.
È un tripudio di
nastri, di oro, rosso e verde; c’è la collezione di statuette di personaggi in
pasta di sale che lei ha realizzato quando aveva dieci anni. È stato l’ultimo
Natale di sua madre.
Sherlock volge lo
sguardo per la stanza e poi lo punta su di lei con una strana espressione in
cui Molly vede farsi largo una luce di comprensione e riconoscimento. “Baker
Street”, dice, colpito, ma non eccessivamente sorpreso. “In questi anni… sei
sempre stata tu?”
Molly si stringe
nelle spalle. “Non è stata solo opera mia. Anche Mrs. Hudson ci teneva. È che
sono cresciuta con questa stupida convinzione che il Natale sia gioia e colore,
che vada trascorso con la propria famiglia.”
Sherlock annuisce,
meditabondo, come se trovasse quello che ha detto del tutto ragionevole, quindi
si schiarisce la gola. “Mi spiace annunciarti che quest’anno dovremo saltare la
tradizione del punch a Baker Street.”
Non occorre che
Molly ne domandi la ragione.
Sherlock prosegue, come una locomotiva in corsa,
avvisaglia di quando è agitato: “Affari della massima urgenza costringono me e
i Watson a trascorrere la Vigilia nel Gloucestershire.”
Oh. Oh.
Molly sa di avere
gli occhi da falco di Sherlock puntati addosso, perciò trova inutile anche solo
tentare di dissimulare la delusione. Ovvio che le dispiaccia non trascorrere il
Natale con loro, ma –
“Saremo di
ritorno per l’ultimo dell’anno.”
Molly incrocia lo
sguardo di Sherlock e si meraviglia nello scorgervi lo stesso dispiacere.
Sembra sinceramente dispiaciuto di non poter trascorrere il Natale a Londra. E
allora Molly capisce perché sia lì.
È passato a
trovarla di proposito, con il preciso intento di informarla, di assicurarle che
anche se non potranno festeggiare il Natale tutti insieme, ci saranno per Capodanno.
Molly non sa cosa
pensare.
Sherlock si
sistema i guanti e si aggiusta il nodo della sciarpa, temporeggia.
Molly riconosce i
segnali. Fatto quel che doveva, per lui è ora di andare. Indugia e si curva a
prendere un omino di marzapane dal piatto dei biscotti.
Molly ancora
tace.
La saluta con il
formale augurio di un sereno natale e così com’è comparso ecco che è scomparso.
È quando sente la
porta chiudersi che Molly si scrolla di dosso il pasticcio che ha in testa. E scatta.
Mette giù la tazza di tè e corre alla porta, la spalanca e lo segue per la
prima rampa di scale. Lo chiama, lui si volta e quando si accorge di lei, Molly
gli è già di fronte. Non deve alzarsi sulle punte – lui è due gradini più in
basso di lei -, ma gli posa le mani sulle spalle.
Sherlock arcua le
sopracciglia, interrogativo, confuso, mentre Molly, con deliberata lentezza e
precisione, gli dà un bacio sulla fronte. Sherlock allarga gli occhi,
sconcertato, un’ombra di turbamento sfreccia, rapida, sul suo viso. Molly la
fraintende con lo stupore.
“Buon Natale,
Sherlock.” Molly gli sorride con calore e dolcezza, con quella che deve essere
la più stupida e gioiosa delle espressioni.
Sherlock le
sorride di rimando.“Buon Natale, Molly.”
*
Sono le tre di
mattina del 31 dicembre, la notte è silenziosa e nevica quando Molly esce dal
Barts. Si chiude la giacca a vento ed è così impegnata a cercare i guanti nella
borsa che all’inizio non la nota.
La macchina nera,
dai vetri oscurati, è parcheggiata all’incrocio della strada che lei deve
percorrere per raggiungere la stazione. Non può essere una coincidenza.
Le
coincidenze non esistono, Molly Hooper.
Molly si ritrova
a correre, a bussare freneticamente sul finestrino. “Cosa succede?” chiede agitata,
quando il volto bianco e serio di Anthea fa capolino.
“Si tratta di
Sherlock? Sta bene?” Il panico le graffia la voce, il cuore le martella
dolorosamente nel petto a battiti indiavolati, irregolari. Cerca di calmarsi,
ma non può farci niente.
“Non si allarmi,
Dottor Hooper, ma è bene che mi segua.”
Il tono è pacato,
quasi a lasciare intendere che ogni loro incontro – in otto dannatissimi anni
questo è il terzo – non sia la scorta di una catastrofe preannunciata.
Molly si lascia
scivolare nell’abitacolo e per tutto il tragitto non può semplicemente
osservare il paesaggio urbano che scorre fuori. Estraniarsi come Anthea,
composta ed elegante nel sedile di fianco, le è impossibile. È fuori dalla sua
natura.
Così comincia a
parlare. Le racconta della prima volta che ha incontrato Sherlock,
all’università, di come abbia pensato, vedendolo sul ballatoio dell’auditorium,
che sembrava ‘un bel tipo’ e di come da allora imbattersi in lui sia
diventato una specie di scherzo del destino.
Le racconta della
sua laurea, del funerale di suo padre, di come Sherlock fosse lì. C’è sempre
stato: figura silenziosa e costante. Le racconta degli anni di medicina al
Reale Collegio dei Medici e di quelli della specializzazione al Barts, di come
un giorno abbia osservato l’uomo straordinario e abbia smesso di cercare
l’ordinario. Di come sperare nell’impossibile la uccida ogni giorno di più. È
come morire d’inedia o di avvelenamento.
E lui ritarda la
fine inevitabile, somministrandole l’antidoto dei suoi sporadici sorrisi, di
inediti atti di premura.
Alla fine Molly
ha la voce rauca e gli occhi umidi.
Il silenzio accompagna
la fine della sua storia e lei si accorge che c’è da un bel pezzo, che Anthea
ha smesso di scrivere e le presta moderatamente la sua attenzione, il che è di
per sé una piccola grande rivincita. “Allora perché lo ama?”
Molly sovrappone
le mani che tiene in grembo. “Lei ha mai pensato di lasciare il suo lavoro?”
Anthea non
risponde, ma Molly la osserva e capisce, intuitiva. Le rivolge un sorriso
triste e stanco. “Ecco perché.”
Molly lo ama da
otto anni. Non riesce neppure a immaginare come sarebbe la sua vita senza
quell’amore, come sarebbe lei senza
di lui.
No, invece lo sa.
Ha avuto due anni di pace e ha odiato ogni istante. Forse Sherlock ha un
seguito di morte e dolore ad accompagnarlo, ha la guerra nel sangue, ma Molly
preferisce i rari momenti di pace che riesce ad ottenere con lui alla quiete di
un mondo che, privato della sua presenza, appare spento.
La fanno accedere
da una porta sul retro, che sembra di servizio. Attraversa lunghi corridoi
rivestiti di arazzi e quadri. La tappezzeria è d’epoca, restaurata di recente,
i mobili sono pezzi di antiquariato, i pavimenti sono lucidi, alcune pareti sono
ricoperte da pannelli di legno. Ci sono stanze e saloni raffinati, un labirinto
di eleganza e gusto impeccabile. È come addentrarsi nella lampada di un genio,
nel castello della Bestia delle favole.
“Questa villa…”,
dice Molly, “è di Mycroft, vero?”
Anthea, che la
precede, fa un cenno impercettibile. Si fermano alla fine dell’ennesimo
corridoio, davanti a una porta.
Lui è dietro
quella porta, pensa Molly.
Anthea la
incoraggia con gli occhi.
Entra e la prima
cosa che nota è l’armatura a ridosso del tavolo.
È a metà strada
tra un salotto, una stanza di rappresentanza e una sala da pranzo. Ci sono
sedie dall’alto schienale, comodini, lampade dalla luce soffusa e tende alle
finestre che affacciano sul giardino. Una parte di lei si chiede se l’elicottero
che l’ha portata lì sia ancora dov’è atterrato.
Molly nota il
fuoco acceso, dietro la grata del camino e di fronte, seduto sulla poltrona,
c’è Sherlock, con un aspetto fiero e allo stesso tempo dimesso che le strazia
il cuore.
Vorrebbe correre
da lui e consolarlo nell’unico modo che conosce, ma che lui le permette soltanto
in appropriate circostanze. (“Il contatto fisico è una distrazione e una
seccatura, Molly.”)
C’è una terza
persona nella stanza ed è incontrando gli occhi autoritari di Mycroft Holmes
che Molly frena i suoi passi. Quegli occhi, in effetti, la ancorano sul posto.
“Benarrivata,
Dottor Hooper. Come vede, mio fratello gode di ottima salute. Può
tranquillizzarsi.”
Sherlock rifiuta con
cura di guardare nella sua direzione, quasi respingesse anche solo l’idea di
accettare la sua presenza.
Molly distoglie
lo sguardo da lui, non prima di aver notato una nota di allarme incidergli i
tratti, fargli contrarre la linea della mandibola.
“Sherlock, cosa
succede?” domanda.
“Su, Sherlock”,
interviene Mycroft. È seduto all’estremità del tavolo. “Rispondi al Dottor
Hooper. Dille cosa hai fatto. Glielo devi.” Dietro la patina di cortesia, la
sua voce consegna un avviso di minaccia e ammonimento. Diglielo o lo farò io per te.
Sherlock sembra
schiacciato dal peso del mondo.
Basta, vorrebbe
urlare Molly.
Mycroft non
mostra misericordia. “Mio fratello, Dottor Hooper, ha ucciso un uomo. A sangue
freddo.”
Con la coda
dell’occhio, Molly cattura la maniera in cui Sherlock serra i pugni e chiude
gli occhi, storce la bocca in una smorfia.
“Dottor Hooper?”
la interpella Mycroft. Molly si rende conto che deve essere rimasta a fissarlo
più a lungo di quanto gli risulti gradito.
Cerca di dare un significato
al senso di vuoto. Non prova repulsione o disprezzo. È solo preoccupata delle
implicazioni che comporteranno a Sherlock. Neppure per un attimo la sfiora il
dubbio del perché l’abbia fatto, di cosa lo abbia spinto ad un gesto disperato
e distruttivo di quel tipo, che lo danneggerà a vita, lo marchierà.
“Ognuno ha le sue
brutte giornate”, si ritrova a replicare, facendo ricorso a quell’umorismo
morboso che Sherlock le ha sempre rimproverato. “Oserei dire che la tua debba
essere stata nera”, conclude rivolta proprio a Sherlock e arrischiando un’occhiata.
Le sembra di aver colto di sfuggita lo spettro di un sorriso, del sollievo.
“Miss Hooper.”
Mycroft (da quel momento per lei sarà sempre Mycroft) emette un sospiro esasperato.
“Dottore”, lo
correggono Molly e Sherlock contemporaneamente e si scoprono a guardarsi,
entrambi sorpresi e il viso di lui è lo specchio di quello che deve star
mostrando anche il proprio. C’è un’intensità e una luminosità negli occhi di Sherlock
che le raggiungono l’anima e il sentimento che li anima è inconfondibile, le
ruba il respiro.
“Vedo che la mia
presenza vi è di peso e vi impedisce di scambiarvi liberamente le confidenze
tipiche del caso. Trenta minuti, Sherlock. È superfluo che ti rammenti che ogni
tentativo di fuga è inutile. Ho agenti sparpagliati attorno alla villa e due
fuori da questa porta. Dottor Hooper, Molly”,
Molly ascolta per la prima volta il suo nome pronunciato da lui e non è meno
sbalordita quando le prende la mano e le fa un baciamano ossequioso, “se le
circostanze fossero differenti, sarebbe stato un piacere.”
Incredibilmente appare
sincero. Incredibilmente Molly gli crede.
“Non ti ho voluto
io qui.”
È la prima cosa
che le dice, non appena Mycroft si chiude la porta alle spalle.
Molly cerca di
non mostrarsi ferita, come se non l’avesse appena pugnalata in pieno petto. Sherlock
sa essere brutale, specie quando non è sua intenzione esserlo.
“Cosa intendeva
dire?” chiede per cambiare discorso. “Mycroft”, precisa, “poco fa. Hai davvero
ucciso un uomo?”
“Charles Augustus
Magnussen meritava di morire”, ribatte Sherlock. Tamburella le dita sul
bracciolo della poltrona, una testa di leone intagliata nel legno.
“Molti uomini
meritano la morte”, ribatte Molly. “Perché hai dovuto farlo tu? Sappiamo
entrambi che se esiste una persona a questo mondo con l’intelligenza di
orchestrare un crimine perfetto, quella sei tu.” C’è qualcosa che le sfugge. Deve esserci. “Quel nome… Magnussen.
Non è l’uomo dell’inchiesta? Quello per cui è stata convocata la commissione
parlamentare mesi fa?”
Invece di
risponderle, Sherlock la fissa come se fosse un enigma particolarmente complesso
da decifrare. “Non capisco.”
“Cosa?”
“Perché non sei
sconvolta? Ho ucciso un uomo, Molly.”
Molly sorride, stanca
e avvilita. “Ti aspettavi una sfuriata sul valore della vita e su quanto
immoralmente scorretto sia privare un uomo di quest’ultima? Ti conosco da anni,
Sherlock. So che non lo avresti mai ucciso se non fossi stato costretto, quindi
cosa ha fatto?”
Sherlock appare
incupito. “Ha tentato di uccidere John e ricattato Mary.”
“E adesso che è
morto, non c’è alcuna possibilità che le informazioni che erano in suo possesso
passino in altre mani?”
“No.”
“Bene.” Molly trae
un sospiro. “Non era la prima volta che uccidevi.”
“No.”
“Smantellando la
rete criminale di Moriarty?”
“Solitamente se
ne occupavano gli uomini di Mycroft. Li prendevano in consegna per metterli al
sicuro in penitenziari statali sotto falso nome, ma in occasioni particolari –”
accompagna l’interruzione brusca con un gesto indeterminato della mano. “Ora lo
sai. Sai tutto.”
“No, non tutto.”
Molly scuote la testa, si inginocchia ai piedi della poltrona. “Perché non
volevi che venissi?”
Sherlock ha un
moto di noia. “Molly, quale sarebbe il punto?”
Lei non si lascia
incantare dai suoi modi scontrosi. In quell’ora di sconforto ha intravisto qualcosa,
qualcosa di concreto, fondato, a cui si aggrappa con la forza dirompente di una
pianta a cui per anni sono stati recisi i rami. “Stai partendo di nuovo, vero? Come
tre anni fa.”
Sherlock non
risponde. E Molly deve obbligare ogni cellula del suo corpo alla paralisi, per evitarsi
gesti inconsulti. Avventatezze che potrebbero minare il loro rapporto.
È un istante. Basta
un istante perché tutto cambi. Basta una scintilla di fuoco incustodito ad
appiccare un incendio. Nel loro caso è uno sguardo. Sherlock si curva in
avanti, le afferra il viso tra le mani e la bacia. La bacia con forza e
disperazione e urgenza, i loro nasi cozzano per l’irruenza del movimento, ma
nessuno dei due ci fa caso.
Otto
anni. Otto anni di amore non corrisposto e ora questo.
“Una volta eliminato
l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”, le
mormora Sherlock all’orecchio. Ha il respiro corto.
“Cosa dici?”
Sherlock preme la
fronte contro la sua. “Che c’è sempre qualcosa che mi sfugge.”
La bacia ancora e
ancora, quasi che voglia sopperire all’assenza di baci.
“Aspetta.” Molly si
stacca, posa le mani sui suoi avambracci. “Sta andando tutto troppo veloce? Non
hai bisogno di pensarci sopra? Di rifletterci un po’? Posso aspettare. Io…”
viene interrotta da un ulteriore bacio.
“Molly”, la sua voce
ha una vena scanzonata e impaziente, “ho avuto gli ultimi tre anni per venire a
patti con questo.”
“Cosa vuol dire… tre
anni?” Lo allontana, mentre il significato di quello che ha detto s’incunea
nella nebulosa della sua mente. “Tu, tutto questo tempo?” gli tira un pugno sul
petto. “Per tutto questo tempo?” Credeva di essere
lei il tipo paziente. “Come hai potuto non dirmi niente?” lo aggredisce.
“Cosa avrei
dovuto dirti?” ritorce Sherlock, rotea gli occhi. “Eri fidanzata, Molly. Felicemente.”
“Avrei preferito
la verità. Ho sempre preferito la verità da te, anche se terribile. Non stava a
te la scelta. Non era tua, non solo. Perché non puoi essere egoista?”
La quantità
formidabile di informazioni da accettare è insostenibile. Molly ne è
sopraffatta.
“Lo sono ora”, lo
sente dire.
Non capisce.
“Ti aspetterò e
quando tornerai…” Le parole le muoiono sulle labbra di fronte allo sguardo di
puro dolore con cui Sherlock la sta fissando.
“Molly”, dice, la
calma apparente stride con quello che i suoi occhi mostrano, (Molly inizia a
capire, a ricollegare i tasselli. Vorrebbe non averlo fatto.) “non tornerò.”
“No… no. Tu sei… sei Sherlock. Non puoi. Ci sei riuscito. Lo hai già
fatto.”
“Questa volta è
diverso. Non è come in passato.” Sherlock le accarezza la guancia, ripercorre
il contorno del suo viso con i pollici, le sfiora le tempie, l’arco delle
sopracciglia, la curva della gola.
“John lo sa?”
Sherlock scuote
la testa, in qualche modo la furia, l’energia, quell’impeto entusiasta e
appassionato si spegne. Molly si pente di averglielo chiesto. “Non ha sospetti.
Nessuno ha idea. Solo Mycroft e adesso tu.”
Molly non può
dirsi sorpresa. Non suona strano o stonato. Per due anni è stata l’unica
persona a saperlo vivo mentre il resto del mondo lo credeva morto. Ora sarà l’unica
a saperlo morto mentre il resto del mondo lo crederà vivo.
“Stai andando a
morire”, qualcosa dentro di lei si spezza definitivamente nel dirlo ad alta
voce. “Stai andando a morire e per tutto questo tempo mi hai nascosto che anche
tu… è crudele. Lo è anche per te.”
“Molly.”
“Ti amo”,
confessa Molly. Odia il fatto che la prima volta che glielo dice sia anche l’ultima.
Odia il fatto che suoni come una sentenza di morte. Odia le lacrime che le
offuscano gli occhi e che sente scottarle lungo le guance, ma che non nasconde.
“Finalmente l’ho detto. Anni e questa è la prima volta che lo dico ad alta voce
e tu sei qui e mi hai ascoltato, ma se fosse dipeso da te io non avrei mai
potuto dirtelo. Se fosse dipeso da te io starei piangendo tutte le lacrime che
ho, chiedendomi se sia possibile amare tanto qualcuno che non ti ricambia,
sapendo che non lo farà mai. E per tutto il dannato tempo…”
“Io ti amavo.”
Le sfugge un
singhiozzo e Sherlock la bacia fino a risucchiarle il fiato, come se volesse assorbire
il grumo di dolore e angoscia.
“Potrei odiarti.
Dovrei odiarti per questo”, bisbiglia Molly.
“Dovresti”, acconsente
Sherlock gravemente. “Ma non potresti mai. Non tu.”
“Perché?”
Sherlock sorride,
di un sorriso sgualcito. Aveva previsto la sua domanda. “Perché sei
Molly. La mia Molly.”
Molly
si asciuga le lacrime e lo bacia. Se è l’ultima occasione per stare insieme non
vuole che l’ultimo ricordo di lei sia in lacrime.
Sherlock la
afferra per la vita e la fa sedere sulle proprie gambe. Molly appoggia la testa
sulla sua spalla. Sherlock le accarezza i capelli, le bacia la tempia. “Ti
avevo promesso che sarei tornato per Capodanno.”
Molly si lascia
cullare dalla sua voce. Respira il suo profumo, la sensazione delle dita sulla
nuca, la punta del suo naso che preme di quando in quando contro la pelle del
collo.
Non sa cosa
succederà. A breve Mycroft potrebbe entrare per cacciarla e Molly dovrà dirgli
addio.
Non sa cosa
succederà. Ma ormai la soddisfazione di quello che ha ottenuto supera di gran
lunga l’insoddisfazione di tutto quello che l’ha preceduto.
Molly non ha
scelto di amarlo, non lo ha chiesto. Ma se dipendesse da lei, se l’amore che
prova per Sherlock fosse una scelta, sceglierebbe sempre di amarlo.
“Dovresti
odiarmi.”
“Non
posso.”
“Perché?”
“Perché
non ho scelta.”
N/a:
Ho fatto le ore
piccole per scriverlo, sono due giorni che quasi non faccio altro e il
risultato, il frutto delle fatiche, non mi convince del tutto. Alcune scene mi
sembrano forzate, di altre sono abbastanza soddisfatta, ma questo lavoro è
valso solo per aver scritto l’ultimo pezzo, quello che ha richiesto più tempo e
che non sembrava voler finire. Molly e Sherlock si strappavano baci e parole e
chi ero io per fermarli?
Spero che la
lettura sia stata piacevole e che la resa di Mycroft (Dio, non l’ho storpiato,
vero?) non appaia storpiata. E di Molly che posso dire? È un personaggio
grandioso, forte, sincero, leale e materno. Mi auguro di aver mostrato una
minuscola parte della sua bellezza.
Un abbraccio!