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Autore: Selina    10/07/2008    6 recensioni
Ricordi quando siamo diventati amici? [Riku/Sora]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Riku, Sora
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Kingdom Hearts
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Nota legale:

Kingdom Hearts © Square Enix & Disney. Questa Fan Fiction è stata scritta per puro diletto, senza alcuno scopo di lucro. Nessuna violazione di © è dunque intesa.

Collocazione temporale:

Prima dell’inizio di Kingdom Hearts.



:: ONCE UPON A TIME ::



Well I didn't mean to do it

But there's no escaping your love



«Stai pensando di andare via?»

La notte è così silenziosa che la voce di Sora sembra alta in una maniera innaturale. Il buio di gomma rimbalza gli echi.

Lui ruota gli occhi, abbandonando la sagoma della piccola isola che si staglia nerissima sullo sfondo di catrame del cielo per osservarlo.

Sora è accigliato mentre lo guarda. Sembra un’accusa.

«Mh?»

«Ti ho visto. Oggi, alla porta.» Fa una piccola pausa. Inizia a scavare per terra con un piede troppo grande, e studia il vuoto che la scarpa imprime nella sabbia. «Vuoi lasciare l’isola?»

Lui non si è accorto di essere osservato. Stranamente non ne è nemmeno infastidito. È divertito, piuttosto, come se Sora avesse scoperto un piccolo segreto che lui ha nascosto apposta per vedere se si sarebbe dato la pena di cercarlo.

«Forse.»

Sora lo guarda di nuovo, in una maniera fugace, per controllare le sue reazioni. Come se i suoi occhi potessero dare un significato alla sua voce.

«Perché?»

Lui si stringe nelle spalle.

«Non so. C’è un intero mondo, là fuori. E noi non lo vedremo mai. Non ti dà fastidio?»

La sua natura irrequieta ha impresso troppo a fondo il proprio sigillo per poter essere ignorata. È difficile concepire che qualcuno riesca ad essere soddisfatto così, come se oltre non ci fosse ancora qualcosa degno di essere visto, esplorato, posseduto. Come se fosse sordo al suo potente richiamo.

Non ha ancora capito che l’oltre non ha una fine. È ancora convinto di poterlo circondare, inglobandolo nel suo universo allo stesso tempo gigantesco e ridotto ad un francobollo minuscolo come se potesse essere divorato.

Sora ondeggia un po’ la testa, confuso.

«Mh… Non lo so. Penso di sì.»

Lui torna a guardare l’isolotto solitario, con astio, come se fosse una porta chiusa. Il primo dei picchetti che intende superare.

«Un giorno me ne andrò da qui. Vedrò tutto quello che c’è da vedere, poi tornerò a casa.»

«Certo, lo farai.»

È condiscendenza, quella nella sua voce?

Oh, è così insopportabile.

«Non mi credi?» ribatte sdegnato.

Sora lo guarda per un attimo, un po’ perplesso, prima di rendersi conto che il suo tono è stato travisato. Agita le mani come a negare qualcosa. La luce tenue della luna si riflette sulla superficie lucida e convessa dei suoi occhi giganteschi.

«Uh, no, non è questo. Solo che… ricordi quando siamo diventati amici?»



Se qualcuno si fosse disturbato a chiederglielo, avrebbe potuto giurare che il suo era il castello più bello che quella spiaggia avesse mai visto. E non perché fosse il più alto, il più grande, il più massiccio, con le mura più spesse e le guglie più alte -no, quelle erano solo le conseguenze.

Era il più bello perché era il suo.

E poiché gli apparteneva, poiché ci aveva messo tutto il suo impegno e tutto il suo ingegno per costruirlo, non poteva essere che perfetto.

Era quasi commovente la fiducia che riponeva allora nelle proprie capacità, se ci avesse pensato a posteriori. Sapeva quanta sabbia accumulare, con quanta acqua dovesse impastarla per rendere le sue torri alte e forti, e quanto schiacciare la cima delle mura per creare le merlature. Sapeva come fare meglio di tutti gli altri, ed era convinto di sapere quando fosse il momento di fermarsi. Quando fosse giusto smettere di accumulare sabbia alla base della fortezza per non farla troppo tozza, quando smettere di impilarla sulle torri per farle più alte, quando incrociare le braccia sul petto e decidere che il castello era assolutamente perfetto, e qualunque altro ritocco l’avrebbe fatto sforare dall’altra parte e reso ridicolo, o pendente da un lato come una torta cotta a metà.

Quello era il tempo in cui credeva ancora di avere il giusto senso della misura. E forse lo aveva davvero, perché quello era anche l’unico tempo in cui non conoscesse Sora.

Poteva passare intere giornate soltanto a lavorare su un castello di sabbia, all’epoca, oppure ad aggredire i vecchi orologi a lancette di sua madre per capire com’erano fatti, soltanto per concludere i suoi esperimenti con un’esplosione di molle ed i suoi genitori che lo sgridavano esasperati. Oppure, con altrettanta dedizione, poteva passare ore ed ore perfettamente immobile a guardare la baia, l’acqua azzurra vicino alla riva che si stemperava nel blu profondo del mare aperto, assediava l’isolotto deserto come un esercito nemico e si perdeva nell’oceano sterminato.

Aveva una capacità di concentrarsi pressoché assoluta, prima di incontrare Sora. Ed era assurdo come tutta la sua vita potesse essere spaccata a metà e ridotta nella sua testa in due momenti distinti, prima di Sora e dopo Sora, come se eliminando tutte le innumerevoli imperfezioni e le sgraziate escrescenze che si erano sviluppate durante la sua esistenza Sora fosse ancora il termine di paragone assoluto, il cardine attorno a cui girava il suo mondo. Se cancellava ogni cosa, restava soltanto lui. E quello che era diventato con lui, per adattarsi alla sua presenza, per punirlo e per proteggerlo, perché Sora non l’aveva mai amato abbastanza, e lui era sempre stato convinto che in fondo fosse colpa sua.

Ricordava di essere sempre stato solo, prima di conoscerlo. Non in una maniera dolorosa, o rabbiosa, o insofferente. Solo e basta, come un animale selvatico.

Gli altri erano troppo rumorosi, troppo petulanti, troppo invadenti, troppo insignificanti, troppo fastidiosi. Troppo e basta, come se invadere il suo spazio con la loro ingombrante ed esosa presenza fosse qualcosa di lecito, di cui andare fieri.

Non era che odiasse le persone. Solo che non concepiva nessuna relazione che implicasse un suo effettivo impegno, un suo sbilanciamento.

Le persone volevano che gli altri dimostrassero il proprio interesse nei loro confronti. E quello era proprio ciò che lui non voleva dargli, perché era il controllo la cosa fondamentale, e perso quello avrebbe perso tutto.

Allora lo capiva soltanto a livello del tutto intuitivo, ma sapeva quello che voleva. Non era poi così diverso dagli altri, in fondo.

Voleva solo essere cercato.

Forse fu questo, alla fine, che sbriciolò ogni resistenza.

Avrebbe mentito, se avesse detto di aver visto Sora prima di quel giorno. Sapeva chi era, naturalmente, ed aveva un vago ricordo della sua faccia abbandonato da qualche parte nella sua testa, in quei cassetti pieni di ragnatele in cui relegava i ricordi degli altri in caso prima o poi dovessero servigli, ma per il resto era esattamente come loro. Un fastidioso rumore di fondo ai margini delle sue percezioni.

Avrebbe voluto saperlo in anticipo quanto potesse essere insistente. Almeno non l’avrebbe colto di sorpresa.

Aveva sei anni, allora. E stava costruendo il più bel castello che fosse mai esistito nell’intero arcipelago quando quel bambino assurdo gli si era avvicinato, come se dalle sue parti potesse esserci qualcosa di straordinariamente interessante ed affatto pericoloso.

Lui l’aveva squadrato con la coda dell’occhio, mentre accatastava sabbia per le mura e la pressava per renderle indistruttibili. Da un lato sperava che cambiasse strada all’ultimo momento e lo evitasse, come una preda quando fiuta un leone, dall’altro era curioso di vedere se c’era ancora qualcuno che non lo considerasse spaventoso. Pensava che passare un pomeriggio ogni tanto a distruggere le costruzioni di sabbia degli altri bambini o picchiarne qualcuno a caso fosse sufficiente a tenerli tutti alla larga e ad ottenere il loro timoroso rispetto, ed anche se era seccante constatare che il suo piano geniale non aveva avuto il successo sperato, d’altra parte conoscere qualcuno di così temerario da sfidarlo poteva essere interessante.

Così continuò a giocare per gli affari suoi, fino a quando il ragazzino non si fermò esattamente di fronte al suo castello. Non pensò neanche per un attimo che potesse dargli un calcio, anche se lui lo avrebbe fatto.

«Ciao» gli disse quello dopo un po’, visto che lui non lo aveva degnato di uno sguardo. «Sei solo?»

Lui lo guardò malissimo. Che domanda ovvia. «Sì.»

«Perché sei solo?»

Se non avesse tenuto così tanto alla sua immagine di uomo imperturbabile -sì, aveva ancora sei anni-, avrebbe sbuffato. I suoi coetanei diventavano particolarmente insopportabili quando cominciavano la filastrocca dei perché.

Perché il mare è bagnato?

Perché il sole tramonta?

Perché se tocchi la pentola bollente ti scotti?

Perché non posso fare il bagno dopo mangiato?

Perché? Perché? Perché?

Lui non faceva mai domande così scontate, e di certo non era mai stato così stupido ed irritante. O almeno gli piaceva pensarlo.

Il suo fragile interesse era già morto quando lo guardò male una seconda volta, nella speranza che fosse sufficiente a liberarsene. «Cosa vuoi?»

Il ragazzino non si arrese. Aveva occhi blu giganteschi, decisi e completamente inconsapevoli della situazione in cui si trovava. Gli faceva venire in mente una rana molto stupida ferma in mezzo alla strada.

«Sei solo. Perché?»

Questa volta, sospirò. Forse con un segnale più chiaro il ragazzino avrebbe capito. «Perché mi date fastidio.»

Assurdamente perplesso, quello guardò a destra e a sinistra, prima di indicarsi incredulo con un dito. «Noi?»

Lui si strinse nelle spalle. «Tutti.»

Il ragazzino lo fissò in silenzio per un lungo momento, e lui pensò con soddisfazione di averlo spiazzato. Quello era il momento in cui di solito se ne andavano. Il momento in cui realizzavano che qualcosa non andava.

Ma il bambino assurdo scosse la testa come un cane bagnato e gli ripeté, come se avesse riavvolto qualcosa nella sua testa per tornare al principio: «Non dovesti stare solo.»

Fu il suo turno di restare perplesso. Quel ragazzino aveva di certo qualcosa che non andava, e non era troppo sicuro di voler sapere cosa.

Così riprese a lavorare al suo castello, nella speranza che se l’approccio diretto non era stato un messaggio sufficientemente chiaro, l’essere del tutto ignorato sarebbe stato almeno recepito. Dopo quello conosceva soltanto i pugni. E visto che sua madre stava prendendo il sole a neanche trecento metri non gli sembrava esattamente un’idea geniale. I suoi genitori tendevano a non reagire molto bene quando rompeva qualcosa o qualcuno negli unici giorni in cui non dovevano lavorare come muli.

Neppure l’approccio indiretto servì a qualcosa. Dopo un breve silenzio, il ragazzino si accucciò vicino al suo castello e lo studiò attentamente. Solo sua madre lo trattenne dal cercare di aprirgli la testa con la paletta per controllare se sotto tutti quei capelli ci fosse effettivamente qualcosa di simile ad un cervello. Non sopportava che qualcuno guardasse con aria critica lui o qualcosa che lui aveva costruito.

Men che meno un bambino chiaramente ritardato.

«Il tuo castello pende da un lato» dichiarò quello dopo un po’, come se non stesse rischiando la vita.

Lui gli rivolse l’occhiata peggiore del suo repertorio, quella che faceva scappare anche i bambini più grandi.

Se una zanzara l’avesse punto avrebbe avuto un effetto migliore.

«È perfetto» sibilò, offeso a morte, ma l’altro non sembrava avere nessuna intenzione di mollare.

«Invece no. Dovresti sistemarlo qui» suggerì, inginocchiandosi ed avvicinando la testa ad un punto assolutamente impeccabile del suo castello.

«Non toccarlo!» gli ordinò, sperando di spaventarlo, ma quello lo guardò offeso e sbottò: «Voglio aiutarti!»

«E chi te l’ha chiesto? Vai via!» strillò, lasciando andare la paletta che stava stritolando e lanciandogli una manata di sabbia in faccia.

Il ragazzino sussultò e cadde pesantemente sul sedere, ma invece di scappare gli fece una smorfietta oltraggiata e gli tirò addosso altra sabbia. Lui lo guardò allucinato e gli sbatté sul muso la paletta.

Dopo di quello, restò soltanto sua madre, che gli urlò dietro così a lungo che pensò che avrebbe continuato a farlo per tutto il resto della sua vita.



Che domanda stupida, la sua. Come se per lui fosse possibile dimenticare.

Come se col tempo il sassolino fastidioso del loro primo incontro non si fosse rivelato un diamante grezzo, da custodire gelosamente con la cura infinita che si riserva a qualcosa di terribilmente prezioso e terribilmente fragile.

«È difficile scordarsi qualcosa di così stupido.»

Sora scava più a fondo con la scarpa, come se maltrattando la sabbia riuscisse a punire lui.

E Sora, Sora lo ricorda?

«Non dire stupido, non è carino!»

Lo ricorda come se fosse in grado di riassumere la sua intera esistenza, dando forma a necessità inconcepibili e pretese furiose, allentando il controllo su quella cosa nera e appiccicosa che si dimena in fondo al cuore?

«Assurdo va meglio?»

Lo ricorda come se in fondo fosse la cosa più terrificante che gli sia mai capitata?



Ci mise pochissimo a capire quanto fosse effettivamente matto quel ragazzino. Fu difficile ammettere di averlo sottovalutato, soprattutto perché non gli capitava spesso -e non perché fosse generoso nei suoi giudizi, ma perché raramente la gente era migliore di quello che lui presumeva.

Ma quel ragazzino, beh, di sicuro lo sorprese quando un pomeriggio gli si avvicinò curioso come un animaletto selvatico e gli girò un po’ attorno, nella speranza di essere notato.

Lui doveva ammettere di aver pensato ben poco a quello che il ragazzino avrebbe potuto fare dopo il loro primo, burrascoso incontro, però gli sembrava che le uniche reazioni logiche fossero cercare di vendicarsi o girargli al largo. Non conosceva ancora Sora abbastanza da capire che il suo territorio di caccia andava ben oltre il sensato, il ragionevole o il razionale. E con il tempo avrebbe realizzato che la terra di nessuno in cui si muoveva doveva essere più caotica di un cielo tempestoso, e di certo altrettanto spaventosa.

Al momento, comunque, gli sembrò più sensato fare finta di non vederlo. Avrebbe dovuto immaginare che non avrebbe funzionato.

«Ciao» gli disse infatti il ragazzino dopo un breve silenzio, avvicinandosi a lui con cautela. «Che stai facendo?»

Lui impiegò un lungo, lunghissimo attimo per realizzarlo. Di tutto quello che avrebbe potuto fare, il ragazzino si stava limitando ad insistere. Come se non avesse sbattuto il muso contro le mura più spesse e più dure dell’intera spiaggia. Come se fosse profondamente convinto che avrebbe potuto abbatterle a testate, se solo si fosse applicato abbastanza.

Era così stupefatto che non riuscì ad elaborare nessuna risposta particolarmente arguta.

«Niente» sibilò soltanto, guardandolo di sbieco.

Si avvicinava alla verità abbastanza da infastidirlo. Guardava l’orizzonte e basta, senza fare nulla per afferrarlo. Come aveva sempre fatto.

Il rosso del sole al tramonto ricopriva l’isolotto solitario come fuoco liquido, sciogliendosi in lingue arancioni che serpeggiavano lungo il mare in fili scintillanti. All’epoca pensava che tutto l’oltre di quella terra potesse essere racchiuso nell’isola piccola e selvaggia assediata dal mare, deserta e silenziosa, su cui nessuno -secondo lui- era mai approdato prima. Poteva essere la sua terra inesplorata, per un po’. La sua avventura.

Ancora non sapeva che sarebbe stata soltanto un debole palliativo, che avrebbe consumato prima ancora che la sua brama feroce ed inestinguibile fosse stata almeno temporaneamente soddisfatta.

Voleva tutto, Riku. E più riusciva ad averne, più grande diventava il suo bisogno, come se quello che avrebbe dovuto saziarlo fosse soltanto benzina gettata sul fuoco. Più cose riusciva ad afferrare, più si sforzava di tendere la mano per agguantarne altre.

Per questo lo sguardo con cui osservava l’orizzonte era sempre così determinato. E gli sarebbe mancato quel tempo, quando sarebbe diventato disperato.

Il ragazzino si accucciò accanto a lui, come se rispondergli avesse compreso il permesso di avvicinarlo. Lui lo guardò con la coda dell’occhio, palesemente infastidito.

«Sembri molto impegnato per non stare facendo niente. Allora, cosa c’è di interessante?»

Roteò gli occhi. «L’isola.»

Il ragazzino sbatté una mano per terra e si girò di scatto verso di lui, gli occhioni giganteschi sul faccino tondo. «Vuoi andare sull’isola?!»

Lui non ci aveva mai pensato davvero, ma tutta quella incredulità gli dava ai nervi. Gli sembrò che stuzzicarlo fosse una buona idea.

«Forse.»

«Ma è pericoloso! - sbottò il ragazzino, aggrottando la fronte - I miei genitori non me lo permetterebbero mai. Come sei riuscito a farti dare il permesso?»

«Io non ho bisogno del permesso di nessuno!» dichiarò lui in tono oltraggiato. Non era proprio esatto, ma il ragazzino lo guardò con ammirazione totale, e di certo lui non avrebbe rettificato.

«Quindi ci andrai» esclamò quello in tono eccitato, guardando l’isolotto come se non l’avesse mai visto prima.

Lui esitò, per la prima volta. Era di certo un’idea stupida, ma ormai non poteva tirarsi indietro.

«Certo che ci andrò!» annunciò, come se fosse stato assolutamente ovvio.

Ormai era fatta. E di certo non avrebbe perso la faccia di fronte a quell’irritante ragazzino, che lo fissava come se fosse la cosa più incredibile di tutto l’arcipelago.

Si concesse un sorrisetto sottile. Decise che gli piaceva essere guardato in quel modo, nel modo in cui si guarda la concretizzazione delle proprie aspirazioni. Nel modo in cui si guarda qualcosa di troppo brillante per poter essere ignorato.

Un modo, realizzò, che almeno in parte appagava la propria fame divorante.

Tornò a guardare l’isola, ed il suo sorriso si ampliò, e divenne più profondo, più spontaneo, fiducioso in una maniera esaltante e sottilmente eccitante, che gli risuonava nelle ossa come una vibrazione. Ancora non lo sapeva, ma da allora in poi sarebbe stata quella la forma di tutti i suoi sorrisi.

Il ragazzino non aveva smesso di fissarlo.

«Davvero? Allora posso venire anch’io?»

«…NO! »



«Non credo che definirlo assurdo vada molto meglio» risponde Sora, un po’ offeso. «Ma non fa niente. Non è quello l’importante.»

Può esistere nel loro universo ristretto qualcosa che lo sia di più?

«Perché, c’è qualcosa di importante?»

«Ma certo, stupido Riku!»

«Tipo, stupido Sora

È seccante ammettere che stava soltanto cercando di catturare il suo broncio.

È esasperante riconoscere di essere soddisfatto, dopo averlo preso in punta di dita come le ali di una farfalla.



Stava sciogliendo gli ormeggi della propria barca, quando si rese conto di aver sottovalutato il ragazzino. Di nuovo.

«Ma si può sapere cosa vuoi da me? Vai via!» gli ordinò, senza troppe speranze di essere ascoltato.

Quello scosse la testa fortissimo, agitandola come un cane bagnato, e saltò sul molo. «Voglio venire anch’io» dichiarò, iniziando a slegare la sua barca.

Lui lo guardò con autentica esasperazione. Mai, mai nella sua vita aveva incontrato qualcuno di così insistente, così disperatamente, insensatamente cocciuto. Persino più cocciuto di lui, e riteneva un’offesa la sua esistenza.

«Sei troppo piccolo. Io non ce li porto in giro i bambini come te!» sbraitò, nel tono più spaventoso che gli riuscì.

La sua minaccia non ebbe prevedibilmente il minimo effetto, così lui saltò sulla barca e decise di lasciarlo indietro. In fondo era notte -beh, era sera tarda, ma lui era abituato a tornare a casa quando c’era ancora chiaro-, erano soli sulla spiaggia ed il mare era infinito, gigantesco e pericoloso come una foresta selvaggia, e tutti i bambini sapevano che c’erano gli squali. Squali che secondo i loro genitori si triplicavano quando non c’erano mamma e papà in giro a controllare la situazione, ma lui era grande e non era per niente stupido, e sapeva riconoscere una favola quando ne incrociava una.

Comunque era una situazione abbastanza terrificante da togliere coraggio a qualunque bambino che non fosse ovviamente lui, quindi non ci pensò due volte ad abbandonare il suo sgradito compagno ed a remare verso l’isolotto. Si sarebbe sicuramente spaventato e sarebbe tornato a casa, lasciandolo solo a compiere la sua mirabolante impresa. O meglio ancora, sarebbe rimasto sulla spiaggia ad aspettarlo, testimoniando il ritorno a casa dell’eroe trionfatore.

Aveva fatto appena una decina di metri, quando si rese conto che la situazione non era esattamente come l’aveva immaginata. Le onde erano molto più potenti di quanto pensava, e doveva metterci tutto il suo impegno, tutta la forza che un bambino di sei anni testardo come un mulo poteva mettere insieme per contrastarle. La barchetta che suo padre gli aveva costruito un paio d’anni prima ondeggiava come una foglia nella corrente, e sentiva la potenza delle onde che si infrangeva contro il remo che tuffava ostinatamente in acqua. Il legno sotto le sue ginocchia sussultava e tremava nella corrente.

Era stata un’idea davvero, davvero stupida, gli diceva la sua testa appena un poco spaventata, di quell’ansia insopportabile che genera il buon senso, quella che uccide qualunque piano, qualunque idea, qualunque tentativo di arrivare più in là, più avanti, più in alto.

Ma il suo cuore, il suo cuore inflessibile, zittiva quella voce insolente e lo spronava come uno spillo conficcato nella pelle.

Fino a quando, da qualche parte alle sue spalle, sentì qualcuno che lo chiamava.

«Aspettami! Aspettami, Riku!»

Quella fu la prima volta che Sora chiamò il suo nome. E fu quando Sora iniziò ad affiancare un altro nome al suo che acquistò un’intollerabile importanza.

Lui chiuse gli occhi. Poi li riaprì e riprese a remare.

Ma la voce non diede segno di essersi zittita, anzi, non sembrava neppure più lontana, e quando quello riprese a chiamarlo si girò lentamente e vide l’altra barchetta in mezzo al mare, faticosamente governata da un bambino grande la metà di lei.

Li guardò entrambi incredulo, ma non aveva nessuna voglia di tornare indietro e picchiare quel bambino insopportabile fino a quando non si sarebbe neanche più avvicinato ad una barca, figuriamoci seguirlo. Non aveva nessuna voglia di fermarsi sul più bello per recuperare qualcuno che non solo non era stato invitato, ma che lo stava deliberatamente infastidendo, e di certo non esisteva, al mondo, niente e nessuno che per Riku fosse più importante di quello che Riku voleva. Perché nella sua testa non c’era distinzione tra desideri e bisogni, e per quanto il tempo passasse, rosicchiando tutto quello che trovava sulla sua strada, tutto quello che aveva pazientemente costruito e che aveva accatastato come un tesoro prezioso, questo non sarebbe mai cambiato.

Così continuò a remare, fino a quando l’isola non si stagliò enorme di fronte a lui, così grande e così scura da inghiottire il cielo. Le onde si schiantavano sulla roccia a picco sul mare, ma la luna era chiara abbastanza da illuminare la spiaggia. E stava per arrivarci, quando sentì le grida del ragazzino farsi più spezzate, più faticose, incrinate da quello che dopo un lungo momento riuscì a decifrare come panico.

«Riku, aspettami, per favore! Riku

Si girò, con il remo ancora in mano, e vide la macchia scura della barchetta stagliarsi in controluce di fronte alla spiaggia, appena più scura dell’oceano, con le luci della città alle sue spalle. Il suo profilo spezzava il riflesso della luna sul mare, e lui sentiva il rumore fradicio e frenetico dell’acqua che si schiantava contro le pareti e contro il remo.

La barchetta dondolante sul pelo dell’acqua ci mise un secondo a rovesciarsi.

Un attimo prima il ragazzino stava lottando contro le onde del mare agitato, un attimo dopo era in acqua, a dibattersi come un gatto in procinto di affogare.

Lui ci mise un po’ a decidere cosa fare. L’isola era così vicina e così eccitante, come una scarica lungo la schiena, ed il ragazzino sicuramente sapeva nuotare benissimo, come tutti i bambini dell’arcipelago. Forse gli sarebbe servito di lezione, a non seccare quelli più grandi con i suoi capricci.

Ma poi il ragazzino strillò di nuovo il suo nome, forte come un’invocazione, come se fosse sicuro che chiamandolo abbastanza a lungo lui sarebbe sicuramente arrivato, e forse fu proprio questo che alla fine lo spinse a girare la barca. La fiducia totalizzante nella sua voce, come un brivido sottopelle, che neppure il panico riusciva a zittire.

«Arrivo, se riesci tu aggrappati a qualcosa!» gli ordinò, senza nascondere l’irritazione. Il ragazzino si dibatté ancora un attimo e poi strillò: «Va bene!», chiaramente senza fiato.

Fermò la barca accanto a lui, facendo forza con il remo e dondolandosi attentamente per evitare che si rovesciasse. Più il mare si agitava, più fatica faceva a controllarla, ma non l’avrebbe ammesso neanche morto.

«Ok, ci sono» disse invece, sforzandosi di sembrare soltanto infastidito, e non concentrato nello sforzo di non ribaltarsi. «Avvicinati alla barca. Lentamente

E riuscì a sorprendersi ancora, quando il ragazzino, ignorandolo in tronco, annaspò fino al bordo della sua barca e ci si aggrappò come una scimmia ad un albero. Quella ovviamente si ribaltò, ed altrettanto ovviamente finirono entrambi in acqua, a dibattersi come gatti selvatici mentre le loro barche andavano alla deriva ed il ragazzino perdeva il remo che era riuscito a recuperare.

«Lentamente! Avevo detto lentamente! Cosa nella parola lentamente non hai capito?» sbraitò lui inferocito, appena riuscì a tenere la testa fuori dall’acqua. Per fortuna il ragazzino non gli si era aggrappato addosso, ma era solo una questione di tempo. Se si fosse stancato e gli avesse impedito i movimenti, sarebbero annegati tutti e due.

Fu quello il momento in cui si rese conto che se i suoi genitori l’avessero trovato ancora vivo l’avrebbero sgridato così tanto che non avrebbe più sentito le orecchie per una settimana.

«Mi dispiace! - stava urlando intanto il ragazzino, disperatamente - Mi dispiace, scusami, scusami, non lo farò più!»

«Puoi scommetterci che non lo farai più, la prossima volta ti lascio affogare!»

«Ho già detto che mi dispiace!»

«Ma questo non ci ha fatto uscire di qui!» sbraitò, continuando ad annaspare.

Fu in quel momento che si rese conto di avere ancora in mano il remo. E che se la riva era lontanissima, come aveva angosciosamente constatato, l’isolotto incombeva su di loro come una roccaforte gigantesca.

«Aggrappati a questo, e nuota verso l’isola» ordinò al ragazzino. Nutriva molti dubbi su un suo eventuale apporto, ma quello gli obbedì subito senza discutere, e mentre si avvicinavano alla piccola baia pensò che in fondo non era così inutile, se non si teneva in conto che tutto quello era colpa sua.

Arrivarono a riva distrutti, così stanchi che rimasero fermi sul bagnasciuga per un tempo apparentemente infinito, con i vestiti bagnati appiccicati alla pelle e le braccia e le gambe spalancate, mezzo dentro e mezzo fuori dall’acqua. La luna piena era luminosa come un faro nel cielo ormai nerissimo.

Fu lui il primo a muoversi. Si alzò a sedere e si passò le dita tra i capelli, sentendoli appiccicosi per l’acqua salata e per la sabbia. I vestiti gli sfregavano umidi sulla pelle.

«Ti avevo detto di non seguirmi» borbottò, anche se l’essere arrivato al suo obbiettivo mitigava almeno un po’ il suo disappunto.

Il ragazzino si strinse nelle spalle. Lui pensò spassionatamente che qualcuno doveva aver maledetto i suoi capelli, perché nessun essere umano normale poteva averli così di natura. Anche bagnati fradici stavano in piedi come spilli.

«Dove vai tu, vado anch’io.»

Lui sbuffò. Non lo conosceva neanche. «E da quando?»

Il ragazzino gli rivolse un sorriso enorme, luminoso, persino alla luce fioca della luna. «Da adesso.»

Riku fece per protestare, ma ricordando quanto fosse testardo quel bambino, e quanto poco potere avesse lui sulla sua estrema, ottusa cocciutaggine, non poté fare altro che ridere. Non aveva scampo, e sospettava che non ne avrebbe mai avuto.

Fu allora che si ricordò il suo nome. Era Sora. Ed in quel momento seppe che non lo avrebbe più dimenticato.

La loro piccola, stupida avventura durò tutta la notte. Si tolsero i vestiti per farli asciugare, e Riku si scottò ad accendere un fuoco sulla spiaggia. Fecero a gara per costringersi l’un l’altro ad ammettere di avere paura, anche se al minimo rumore saltavano tutti e due come conigli. A due ore dall’alba, le prime barche salparono dal porto dell’isola principale e si diressero verso la piccola baia, e loro agitarono le magliette come avevano visto fare in TV. I loro genitori li usarono prevedibilmente come punching-ball emotivi per almeno un mese, e sarebbero dovuti passare anni prima che fosse loro permesso di tornare sul pericoloso isolotto.

Nel frattempo, qualcuno lo ribattezzò isola dei bambini. Lui non sapeva chi l’avesse fatto, né quando, e non gli importava.

Per Riku sarebbe sempre stata la loro isola. Come se non ce ne fosse nessun’altra.



«Non pensare di lasciarmi qui.»

Sembra così deciso mentre lo guarda, come se lo stesse sfidando a contraddirlo.

Normalmente lo farebbe.

Normalmente la sua fame di conferme non sarebbe così lancinante e disperata, come una bestia incattivita e chiusa in gabbia per tanto tempo da aver scordato il sole.

«…mh?»

«Dove vai tu vado io, come l’altra volta. Se vuoi andartene, ti seguirò.»

Forse non c’è tutta questa fretta di spiccare il volo.

«Dappertutto?»

«Dappertutto.»

Forse la sua ansia angosciante può aspettare ancora per un po’.

«Anche oltre la porta?»

«Certo! Dappertutto!»

Forse può rimanere ancora per un giorno. Uno solo non lo ucciderà.

Ed anche se lo pensa ogni giorno, ed ogni giorno la sua trappola si chiude su di lui inesorabile come una tempesta tropicale, è inevitabile la sua sconfitta. Non può fare altro che rassegnarsi, ancora una volta, ed assuefarsi alla dolcezza stordente del suo miele.

La sua risata si alza pigra, come le fusa di un animale addormentato.

«In fondo non credo che quella porta vada da qualche parte. È solo uno scarabocchio sul muro.»

Il tempo si è fermato. Possono continuare per sempre.

Cercherà di sgusciargli tra le dita un’innumerevole quantità di volte, la mano protesa ad afferrare la coda di qualcosa che riesce solo ad intravedere, ma a dispetto delle sue proporzioni minuscole la sua stretta sarà così forte che lo riporterà indietro. Mille e mille volte, come una fiaba ripetuta così a lungo da diventare vera.

«Allora che facciamo?»

Alza le spalle.

All’improvviso sente di avere tutto il tempo del mondo.

«Non so, potremmo costruire una zattera e provare a spingerci al largo, prima o poi.»

Non c’è decisione nella sua voce, mentre si affievolisce lenta e confusa come la risacca, ma l’esclamazione improvvisa di Sora gli fa alzare la testa di scatto.

«Ah!»

Sora ha la testa rovesciata verso il cielo notturno, e stringe nervosamente la spada.

Anche la sua mano corre per istinto alla propria. «Che c’è?»

Il cielo è un delirio di luci, nella follia accecante di una pioggia di meteore. Il respiro di Sora è velocissimo, terrorizzato, e lui gli prende una mano e gli assicura che lo proteggerà da qualunque cosa.

Non ha paura. Nessuna tempesta scintillante può infrangere il suo mondo, perché nulla può scalfire ciò che è eterno ed invincibile, immutabile come la pietra grezza ed il cielo immenso.

Non è cambiato niente. E, con la mano piccola e calda di Sora stretta alla sua, Riku è certo che niente cambierà mai.



«Chi sei tu? Da dove vieni?»



We were once

Upon a time in love



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Note dell’autrice:

Ho come l’impressione che non mi sia uscita esattamente come volevo, ma l’ho appena scritta, quindi mi riservo un parere più obbiettivo tra un mese o due XD

C’è poco da dire. Era da un po’ che volevo scrivere una shottina RiSo pre-KH, ed ora sono soddisfatta è_é Doveva essere pucci, ma è dal POV di Riku, quindi l’angst era inevitabile. Il SoKai non è esplicito ma c’è, in maniera piuttosto chiara, però visto che la povera Kairi non compare neanche ho deciso di considerare la shot una RiSo e basta.

Non ho idea di come sia stato adattato il manga in Italia, ho la versione americana, comunque l’ultima frase è dell’inizio del primo numero. Riku e Sora che si tengono per mano durante la pioggia di meteore è un gentile fanservice offerto dalla Square in Reverse/Rebirth<3, o almeno credo. La canzone citata è la cosa più vergognosamente RiSo in cui sia mai incappata, Accidentally in love dei Counting Crows. Io la amo, ovviamente<3 Infatti per citare i due pezzettini che vedete ho scritto un’intera storia -e non scherzo, la shottina che avete appena letto è nata proprio per questo nobile scopo *_*;

Che altro? XD Sto rigiocando a KH1 e devo scriverci sopra ancora una storiella, quindi vado a lavorare *run*

Commentate, se passate di qui. Dai, è una RiSo, e se fate i bravi prometto che ve ne darò altre ;*;

Seli



  
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