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Autore: L_aura_grey    07/04/2014    4 recensioni
Tanto, tanto tempo fa, questa terra era ricca di bestie di ogni tipo: spaventose, pericolose, mortali. Vivevano di sangue e pianto, dolore e paura.
Gli uomini erano soli e indifesi, contro quella natura che li aveva creati ma che non li voleva più, perché non erano più Puri. Si erano sporcati con la loro voglia di conoscenza e sapere, perdendo mano a mano la loro parte animale, e divenendo sempre più umani.
Ma erano soli, pochi e indifesi, contro qualcosa di molto più grande e potente di loro.
Fu quando vide morire sotto ai propri occhi una giovane coppia, sbranata viva da una di quelle bestie che Lilith, la dea dei venti che era stata esiliata, si rivide in noi e ci riconobbe come proprie creature.
Da quel momento fu per noi la Grande Madre, e infuse in alcuni di noi il suo spirito. Ci distinse; a coloro che usavano la mente donò il Genio, e a chi ancora rimpiangeva quella libertà dettata dalla Purezza, donò il suo sangue bianco, il Volo affinché potessero librasi in cielo con lei, sfidando apertamente quella natura selvaggia e crudele, che ci aveva ripudiato.
Genere: Avventura, Guerra, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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5

Prime menzogne






 

“Come va l’occhio?”
“Fa male.”
“Tempo due settimane, ancora, e dovrebbe essere rigenerato.”
“Capito.”
“Bene. Se hai bisogno di altro, ricorda che ti basta suonare il campanello. Per qualsiasi cosa.”
“Lo so.”
“Bene… anche se vedi qualche movimento strano. Pare ci sia qualche ratto, in giro per il reparto. Ora riposa. Buona notte, dieci-cinquantadue.”
“Grazie.”
“...”
“Sono andati via, puoi uscire da sotto al letto.”
“Meno male che li hai sentiti. Altrimenti mi avrebbero trovata.”
“Ti hanno paragonata a un ratto.”
“Le ho anch’io le orecchie. Sono carini, i ratti, non trovi?”
“Ne ho visto solo uno, una volta. Gli mancava un occhio.”
“Come a te.”
“Già.”
“Solo che a lui non ricrescerà.”
“Già.”
“Non ti pare ingiusto?”






 

"Mika."
"Dj... Djbril..?"


Il Puro scoppiò a ridere sonoramente, stringendosi nella coperta, quasi piegandosi su sé stesso.
La persona che Mika aveva davanti aveva di certo tutte le caratteristiche che avrebbe avuto il suo Compagno se non fosse scomparso, quel giorno di un’eternità prima;  i lineamenti erano ancora dolci e gentili, i capelli nivei raccolti in una lunga coda. L'Impuro poteva riconoscere quelle labbra delicate, le spalle aperte e la postura fiera. Si ergerva sulla maggior parte di loro, sicuro di sé nonostante la coperta rossa e i vestiti alieni, scuri e larghi, che portava. Come sempre, Djbril era a suo agio ovunque egli fosse.
Eppure vi era qualcosa... qualcosa che non gli permetteva di riconoscere nel fantasma che aveva davanti una persona vera. Djbril era morto.
Tutto in lui aveva gridato per anni quella frase, molto si era spezzato, molto era stato cancellato.
Chi era, quindi, il ragazzo che si trovava di fronte a lui, il volto stanco e sporco ma sorridente?
Di chi erano quegli occhi che parevano aver visto più di quel che avrebbero dovuto?
"Non dirmi che ti sono bastati cinque anni per dimenticarti di me! Io ti ho pensato ogni giorno, immaginando come potevi essere cresciuto. C'è da dire, però, che quella non la ricordavo" disse, indicando la cicatrice che andava dallo zigomo destro fino al mento.
Mika si portò una mano a coprirla, quasi la cosa lo imbarazzasse.





 

-§ Cinque anni prima §-




 

Fu il caldo a svegliarlo, o almeno riuscì a portarlo fuori da quello sconfortevole limbo in cui si trovava.
Quando riuscì a prendere coscienza di sé, cercò di chiamare a raccolta i suoi ultimi ricordi, una spiegazione per il dolore che provava, ma riuscì appena ad afferrare il proprio nome: Dij… Djbril. Lui era Djbril. Cosa ciò comportasse, ancora gli era sconosciuto.
Lentamente socchiuse gli occhi e la penombra del luogo dove si trovava gli facilitava il compito. Sbatté le palpebre un paio di volte, prima di cercare di studiare il posto. Sopra di lui vi era un soffitto scuro, probabilmente in legno, piuttosto basso. Mosse un poco le dita, comprendendo finalmente che si trovava in posizione supina. Tastò delle lenzuola ruvide e un cuscino, basso e duro, su cui poggiava la testa.
Con un mugolio contrario la alzò con lentezza e fatica; probabilmente era molto che si trovava in quella posizione. Ma così almeno riuscì ad avere una visuale più completa. La stanza era molto piccola, arredata dal letto, su cui si trovava, un catino, una cassa e la porta. Le pareti erano fatte di pietra, ma erano molto lisce. Il pavimento, così come la porta e il soffitto, era di un legno duro e aspro.
L’unica luce che sembrava sfidare il buio della camera proveniva dai bordi irregolari e dai numerosi spifferi della porta.
Sempre con lentezza, Djbril tentò di mettersi a sedere, operazione che fece gorgogliare lo stomaco; aveva davvero poche energie, soprattutto a confronto con la fame che aveva. Bene o male riuscì a tirarsi su, per quanto il fianco continuava a mandargli fitte di dolore. Si sollevò il lembo della camicia che aveva addosso, osservando con un po’ di timore: sembrava tutto a posto, giusto del rossore e una cicatrice di piccole dimensioni che pareva però avere intenzione di andarsene di lì a poco.
Posò con delicatezza i piedi nudi per terra e, appoggiandosi alla muro, riuscì a mettersi in piedi. Pian piano raggiunse la porta. Attese qualche istante che si aprisse da sola ma quando questo non accadde, con titubanza, posò la mano sulla maniglia. Tirò prima verso sé, poi infuori. Infine la abbassò e con un
click finalmente si socchiuse.
“Che cosa… strana” commentò, le corde vocali arrochite dal tempo che avevano passato inutilizzate. Si schiarì la gola, prima di partire all’esplorazione di ciò che si trovava fuori da quella stanza. Un altro borbottio confermò che la tappa doveva essere del cibo.
Si ritrovò in un angusto corridoio, ancora più basso, illuminato da fredde luci al neon. Ancora appoggiato alla parete, proseguì tenendo la destra, dato che dall’altro lato era cieco.
Piano, proseguì fino ad arrivare all’angolo.
D’improvviso si ritrovò la visuale coperta da una possente schiena.
Si lasciò scappare un “Oh” di sorpresa, che fece girare l’uomo che, alto e grosso, rispose al suo sguardo stupito con un gelo che fece tremare Djbril fino alle ossa, tanto che arretrò di un passo.
Più che dalla sua imponenza, però, il giovane parve attirato dal capo completamente privo di capelli. L’uomo vi passò una mano, forse per fargli capire quanto fosse difficile non notare quell’imbarazzante sguardo, ma l’Angelo continuò senza farsi scrupoli.
“Ti sei svegliato, ragazzino!” esclamò con voce possente, un tono così alto che fece nuovamente sobbalzare l’albino. Djbril si rimpicciolì, sotto quello sguardo nero, così scuro… Sembrava quasi un mostro.
Allungò una mano, sfiorando le guance ruvide di una barba di due giorni. Sgranò gli occhi, stupito da quel contatto alieno.
“Sei così strano.”
“Mai quanto te, pulcino.”
Djbril piegò la testa di lato, prima di notare che effettivamente dietro a quella montagna d’uomo vi era qualcos’altro, che consisteva in un corridoio più corto che terminava con un’altra porta. L’Angelo ne osservò le sbarre e il lucchetto, che impedivano a chiunque non avesse la chiave di passare, prima di tornare alla questione pulcino.
“Che cos’è?”
“Cosa?”
“Quello che hai detto.”
“Pulcino?”
“Sì.”
“È un piccolo di uccello.”
Djbril lo fissò ancora per qualche secondo, perplesso, prima di annuire. Non sembrava ancora del tutto convinto.
“Mi fa male” disse, invece, indicando il fianco che continuava a dolergli, se muoveva troppo il busto.
“Il vecchio dice che non hai più nulla.”
“Mi fa male. E ho fame.”
L’uomo scoppiò in una risata, prima di battere giocosamente la mano sulla minuscola schiena, a confronto, del dodicenne “Ti sei appena svegliato e già impartisci ordini e pretendi che vengano esauditi tutti i tuoi desideri.”
Questi lo guardò interdetto “Beh… ho fame” ripetè.
“Torna nella tua stanza, ti faremo avere qualcosa da sgranoccchiare… per quanto non te lo meriti.”
“Ho fame, e la ho adesso!” continuò a protestare l’Angelo, saltando sul posto. Si buttò quindi sul colosso, allacciandoglisi al collo con le braccia: “Datemi da mangiare!”
Quando effettivamente entrò in contatto con lui accadde qualcosa che Djbril non si riuscì a spiegare. Come se fosse stato attratto da una forza invisibile, l’uomo si ritrovò sbalzato contro al muro di pietra, seguito per inerzia dal dodicenne. Il suono della testa che cozzava contro la parete rimbombò per tutto il corridoio.
Il mostro si accasciò sul pavimento, lasciando una scia rossa contro il grigio del muro. Il Puro gli rimase ancorato al collo ancora per poco, poi si mise a sedere e lo scosse per una spalla. Attese qualche secondo, ma quando il silenzio fu interrotto dall’ennesimo brontolio del suo stomaco, cominciò a dargli qualche calcio.
“Ho fameee…”
Non ottenendo altre risposte, sospirò e si alzò, dirigendosi alla porta, che però continuò a rimanere chiusa anche quando rifece il gioco della maniglia. Giù e sù, ma non accennò a muoversi. Evidentemente era un gioco più complicato. Cominciò a scuoterla, senza risultati, e quindi cominciò a studiarla. Nel lucchetto vi era un buco, e una serratura significava che vi era una chiave. Si morse le labbra, voltandosi nuovamente verso il mostro. Magari l’aveva lui, ma continuava a inquotergli un certo timore, per quanto fosse ancora immobile. Gli si avvicinò e cominciò a tastarlo finché, in una delle tasche, trovò un anello che raccoglieva ben più di una chiave.
Ci mise parecchio a trovare quella giusta ma, quando finalmente il lucchetto si aprì, di fronte al volto impaziente del ragazzino. Si ritrovò di fronte dei gradini che si apprestò a percorrere senza particolare attenzione, cosa che lo fece inciampare diverse volte e finire col naso per terra. Quando arrivò in cima aveva il naso rosso e sbucciato, ma pareva troppo interessato a trovare qualcosa da mettere sotto ai denti per curarsene.
Proprio sotto l’apertura delle scale vi erano altri due uomini che gli davano le spalle, differenti, però, da quello che era rimasto nel corridoio. Parlavano avidamente e rumorosamente fra di loro, riguardo taverne, notti e fiori da cogliere e colline dalle morbide promesse. Djbril decise di non chiedere a loro da mangiare, temendo in una risposta simile a quella che gli era appena stata data e gli scivolò, in punta di piedi, dietro. Dovevano essere su quella che pareva una balconata che curvava verso l’interno, ma il soffitto era basso anche lì e oltre la balaustra non potevano esserci più di una ventina di metri, prima di trovare un’altra ringhiera. A quanto pareva si trovava su un piano ricco di porte che, in un circuito circolare, finiva dove iniziava, formando un ovale o un tondo. Da dove si trovava Djbril non riusciva a capirlo bene. Poteva vedere, però, che erano in sette, lui compreso, sul piano, anche gli altri posti a coppie a guardia di altre porte.
“Ehi!” sentì gridare dietro di sé; le due guardie l’avevano visto. Il Puro si voltò, vedendoli armeggiare per tirare poi fuori delle pistole simili, ma molto più scure e brutte, a quelle che aveva già visto. Perse qualche istante ad analizzare quel pensiero, dato che non ricordava dove, potesse averle usate. Istanti che acconsentirono ai due uomini di avvicinarglisi.
“Stai fermo dove sei, ragazzino, e metti le mani in alto” disse il più basso dei due, che era anche il più massiccio; anche lui gli incuteva un certo timore.
“Mi darete da mangiare..?” domandò lui, non riuscendo a trattenersi dall’indietreggiare di qualche passo. Questo fece allarmare l’altro, che fece partire un colpo. Un oggetto piccolo, duro e scuro gli sfiorò la guancia, facendolo sobbalzare. La sentì bruciare e, spaventato, seguì l’istinto. Con un balzo, si gettò oltre la balaustra.
“Cretino, che diamine hai fatto?!” ringhiò quello che aveva parlato, mentre si sporgeva per vedere la brutta fine aveva fatto il dodicenne: “Il vecchio lo voleva.”
“Non so… non so che mi sia preso, era così… alieno…” le parole gli morirono in gola, quando l’Angelo passò loro davanti a grande velocità, diretto verso l’alto: “Oh… cazzo.”
Man mano che saliva lo spazio aereo diveniva maggiore, ma anche sempre più occupato da cavi, prima, e poi ponti sospesi, funivie e travi. Rischiò più volte di andare a sbattere contro ostacoli che comparivano all’improvviso, mentre sentiva grida di stupore e spavento provenire da ponti e spalti, evidentemente popolati. Djbril guardò, sempre più spaventato, i grandi anelli di roccia divenire sempre più distanti, mentre un soffitto azzurro si avvicinava sempre più, fino a quando non andò a sbatterci contro,picchiandovi con le mani e i pugni, senza un motivo logico. Sentiva solo un grande senso di claustrofobia farsi strada in lui, strisciante e maligno, mentre il panico l’attanagliava, afferrandolo per i piedi con l’intento di tirarlo giù.

Dov’era?
Come ci era finito lì?
Il cielo, dov’era il cielo?
Dov’era Mika?

Il sentire suonare quel nome in mezzo ai pensieri impazziti riportò la completa calma, assieme a tutti i ricordi, compreso quello del volto di Mika, sempre più distante, sempre più spaventato, mentre cadeva con la freccia piantata dentro di lui.
“Ragazzo! Angelo! Vieni qui o sparo!” sentì, una voce tanto poderosa che gli pareva gli stesse trapanando le orecchie, tanto che andò a coprirsele con le mani, mentre cercava l’origine del suono.
“Qua, ragazzo, qua!”
Djbril portò lo sguardo su un ponte sospeso fatto in spesso legno su cui era radunata una folla ben minore rispetto a quelle che aveva superato in volo. Tra quelli vi era un uomo ancora più grosso e scuro di quello che aveva incontrato subito dopo essersi svegliato. Teneva in mano un oggetto conico e cavo, che sembrava amplificare il suono della sua voce.
“Avvicinati senza fare gesti avventati e nessuno ti farà del male.”
“Chi siete?!” gridò di rimando, mentre istintivamente si allontanava sempre più.
“Ti ho detto di avvicinarti o… Charles, deficente!”
Djbril sentì una veloce corrente d’aria spostargli i capelli. Avevano sparato anche se non aveva fatto niente. Come era possibile?
L’Angelo inorridì, mentre riprese a scappare, in direzione opposta a quella dei colpi, che cominciarono a volargli attorno, sempre più pericolosamente vicini; uno gli sfiorò il polpaccio. Djbril si aspettò la scarica elettrica che producevano le pistole a cui era abituato. Invece avvertì un bruciore che gli fece storgere la bocca in una smorfia, ma comunque riuscì a continuare la propria traiettoria, fino a quando non si ributtò oltre una ringhiera, dell’anello più alto di quella semisfera rovesciata che pareva costruire gran parte della struttura. Lì almeno era protetto, ma dai due lati cominciarono ad arrivare altri uomini, sempre vestiti con abiti alieni e scuri, scoordinati fra loro. Planò oltre una porta, ritrovandosi in angusto labirinto di roccia, dove a ogni curva rischiava di andare a spiaccicarsi contro la parete. Sempre più nel panico, si ritrovò a strisciare per terra, complice l’inerzia della spinta con cui aveva volato fino a quel momento. Era troppo stanco e senza energie, nonché spaventato, per continuare ad avventarsi in quel dedalo.
Incespicò, alzandosi insicuro, andando ad aggrapparsi alla prima maniglia che trovò, che si abbassò senza resistenza.
Si ritrovò in quello che doveva essere un salone o una mensa, dato che era ricca di tavoli e panche. Seduta su uno di queste vi era una giovane, una ventenne, e aggrappato alle sue labbra vi era un ragazzo che mostrava mezzo decennio meno di lei. Le mani di lui si muovevano con curiosità sul petto della ragazza, finché gli occhi di Djbril non incontrarono quelli di entrambi.
“Oh, grande madre!” saltò in piedi lei, strillando e additandolo con una smorfia spaventata.
“L’Angelo!”
Djbril si appiattì alla parete, il petto che si alzava e abbassava all’impazzata, più spaventato di lei.
“Olive, stai indietro” si fece avanti il ragazzo, dai corti capelli scuri e due enormi pozzi neri per occhi. Era alto quanto lui, studiò Djbril, ma più massiccio, e si muoveva nella sua direzione, guardingo, coi pugni alzati. La posa gli risultò così ridicola che quasi si tranquillizzò. Quasi.
“Che cosa vuoi?” ringhiò, mentre fra loro lo spazio veniva sempre meno, tre metri al massimo.
“Io…” un suono proveniente dal suo stomaco spezzò il pesante silenzio e gli fece abbassare lo sguardo. Non aveva mai avuto così tanta fame e si portò le mani alla pancia, spaventato. Crollò anche a terra, le gambe improvvisamente impossibilitate a tenerlo in piedi.
“Ho fame…” pigolò ancora una volta, mentre la necessità di mettere qualcosa sotto ai denti tornava a essere la sua priorità. Poi avrebbe dovuto trovare un modo di uscire da lì, trovare la Torre e tornare da Mika. Un ottimo piano, che non poteva mettere in atto con la pancia vuota.
Il giovane alzò un sopracciglio, sul volto un’espressione disgustata, prima di notare i movimenti di Olive.
“Dove… cosa stai fancendo?!”
“Gli sto andando a prendere qualcosa” rispose la giovane, mentre si dirigeva verso una porta più piccola e laterale, continuando a tenere d’occhio Djbril.
Il ragazzo la guardò, esterefatto: “Stai scherzado? Vuoi mettere mano alla dispensa per…
lui?”
“È qui da una settimana, no? Sette giorni che non si sveglia e non mangia, se togli le zuppe che gli faceva bere il vecchio” replicò lei, mentre apriva sulle ennesime scale. A Djbril salì un conato di vomito, e avrebbe effettivamente rigurgitato qualcosa, se avesse avuto qualcosa da rigurgitare. La zaffata di umido e cibo gli era arrivata potente alle narici, odori che, uniti a molto altri che, per colpa del panico, non aveva assimilato fino a quel momento.
Quello, più unito ai colori scuri che lo circondavano, assieme al senso di claustrofobia, gli fecero girare la testa. Gli pareva di essere finito in un buco nero e puzzolente, sprovvisto di via d’uscita.
“Olive! Non abbiamo cibo da buttare! Chiudi quella cazzo di porta e chiama qualcuno.”
“Thomas!” assottigliò gli occhi lei, un tono gelido.
Se Djbril percepiva astio provenire dal giovane, dalla ragazza arrivarono delle lance gelide di rabbia.
“Non hai alcun diritto di dirmi cosa devo o non devo fare,
principino. Avessi voluto questo sarei rimasta a Babilonia.”
Il soprannome, sputato fra le labbra carnose di Olivia come il peggiore insulto, fece tornare alla mente dell’Angelo un altro ricordo.
“Tu… sei quello delle gallerie. Quello che mi ha fatto cadere” aprì la bocca Djbril, mentre abbinava contorni sfumati dal dolore al volto contrito dalla rabbia che aveva davanti. Ricordava lui, un anziano, e due femmine. Nessuna delle due, però, era quella che era appena scesa nella dispensa.
“Già. Avrei dovuto stapparti la freccia dal fianco e ficcartela in gola.”
Djbril rabbrividì, mentre un’altra ondata di astio lo raggiungeva: “Che… cosa ti ho fatto? Perché mi odi tanto?”
“Perché?” ringhiò di rimando l’altro, neanche l’Angelo gli avesse appena fatto la domanda più idiota dell’universo: “Perché sei uno di quegli scherzi della natura, perché fai schifo e l’unica cosa che ti meriteresti è finire col collo spezzato, non un pezzo di pane. Dovendo scegliere fra te e quello ti lancerei  in un burrone senza rimorsi.”
Djbril avrebbe voluto far notare che gli sarebbe bastato prendere il volo per rendere vano quella strana e insensata proposta, ma favorì  rimanere in silenzio. L’attimo dopo, poi, l’entrata della sala si spalancò con violenza, mentre un uomo lungo e secco faceva il suo ingresso, puntando gli occhi sui due giovani, di nuovo in silenzio.
“Mat…”
“Thomas, vai a chiamare tuo padre, è andato più avanti, in direzione della sala del consiglio.”
Il giovane parve pensarci per qualche istante, prima di correre via.
L’uomo tirò fuori una pistola dalla cintura, mentre andava a sedersi su una panca, la canna sempre puntata sull’espressione contrita dell’Angelo.
“Ti sei messo in un bel pasticcio. Pare che abbiano trovato Albert; spero per te che riescano a salvarlo, o avrai la vita di un uomo sulla tua pedina penale. Allora neppure il vecchio potrà salvarti.”
Djbril aveva capito praticamente nulla dalle parole dell’uomo, ma il significato della pistola era abbastanza esplicito da tenerlo ancorato al pavimento, con la speranza che se non si fosse mosso non gli avrebbe sparato. Prima, però, gli avevano detto che non sarebbe accaduto se non si fosse mosso. Quegli uomini erano pericolosi.
Il ritorno di Olive con dei pezzi di carne secca e un tozzo di pane lo distolse dai suoi pensieri.
Spalancò gli occhi, mentre la pancia si faceva di nuovo sentire.
“Ma come, giochi alla crocerossina, Olive?” sogghignò l’uomo, che fu ignorato dalla giovane. Questa si avvicinò con prudenza, sotto lo sguardo affamato di Djbril e quello arcigno di Mat.
“Sai che mi piace adattarmi a ruoli diversi” si limitò a rispondere lei, apparentemente calma. A Djbril però tornarono a colpire lame di furore.
L’uomo, invece, scoppiò in una fragorosa risata: “Ah, lo so bene! Lo so bene.”
L’Angelo accettò riconoscente il cibo. Si rigirò una striscia di carne secca fra le mani prima di addentarlo con circospezione. Ancora una volta fu travolto da sapori mai provati, o almeno non a quella intensità. La lingua gli prese a bruciare e gli salirono le lacrime agli occhi, ma si costrinse a masticare. Buttare giù il primo boccone fu una tortura assieme a un piacere, e riprese a mangiare, con voracità sempre maggiore.
“Grazie.”
“Quindi parla!” esclamò Mat, a voce così alta da farlo sobbalzare: “Credevo li tenessero allo stato animale.”
“È facile che tu creda qualcosa di sbagliato” si limitò a rispondere la ragazza, che era sembrata essere stata però rasserenata da quel ringraziamento. Gli si inginocchiò di fronte.
Si bagnò il pollice con la lingua, avvicinandolo poi con lentezza al volto di Djbril. Questi si irrigidì, smettendo di mangiare. Seguì il dito con lo sguardo, chiudendo poi gli occhi quando glielo posò sulla guancia, strusciandolo dove il primo proiettile lo aveva graffiato. Sobbalzò per il dolore, allontanando il viso. Cosa stava cercando di fargli?
“Beh, fossi in te non mi avvicinerei troppo. Non ho mai desiderato divertirmi con i cadaveri.”
“È un bambino” sibilò lui.
“È una macchina assassina. Albert sta lottando fra la vita e la morte, in questo momento, il cranio mezzo scassato, e la colpa è sua.”
Olive si voltò in direzione dell’Angelo: “Perché hai colpito Albert?”
Djbril la guardò smarrito, continuando però a masticare.
“L’uomo che doveva sorvegliare la porta della tua camera.”
“Quello a cui hai aperto la testa” intervenne l’uomo mentre, annoiato, cominciava a giocchichiare col grilletto della pistola.
Il Puro fece scorrere lo sguardo da una all’altro: “Io… davvero gli ho fatto questo? Gli ho solo chiesto di avere da mangiare, ma quando è caduto non si è più alzato…”
“Non solo gli insegnano a parlare! Ma anche a mentire. Bisogna stare ben attenti, da questi” ridacchiò Mat, finendo sotto l’ennesima occhiata gelida della giovane.
Ancora una volta, le porte si aprirono con violenza, facendo trasalire sia Djbril che Olive, che si alzò in piedi, allontanandosi dall’Angelo. Riconobbe lo stesso uomo che gli aveva parlato con il cono cavo, affiancato da Thomas e altri due figuri, una di questi una femmina abbastanza anziana, sul viso un espressione ancora più paurosa di quella dipinta sulla faccia di Mat.
Nella mensa calò il silenzio, mentre le pistole puntate sull’Angelo divenero due, dato che l’ultimo entrato aveva alzato la propria. Quello che invece aveva parlato sul ponte si limitò a fissarlo.
Anche i suoi occhi erano due enormi buchi neri. Djbril si sentì risucchiato, dalla calma piatta che percepiva vigere in lui e, istintivamente, strinse con forza le dita attorno alla carne secca e il pane, nel petto una paura sordida. Perso nell’oscurità di quello sguardo, temeva non sarebbe più riuscito a vedere l’azzurro del cielo.
Una lacrima gli scese per la guancia non ferita, cosa che parve sconvolgere l’uomo.
“Papà…” accennò a parlare Thomas, ma questi alzò una mano a fermarne le parole.
Si avvicinò a Djbril, inginocchiandoglisi davanti, sull’enorme volto un sorriso dolce e delicato.
“Hai un nome?”
Aveva una voce calma, vissuta, un po’ roca ma calda, notò l’Angelo, per quanto differente da quella che gli aveva trapanato le orecchie, poco prima.
Il ragazzino annuì mestamente, mentre si appiattiva il più possibile contro la parete.
“Djbril…”
“Bene, Djbril…” l’uomo gli porse la mano, perché si facesse aiutare ad alzarsi “Io sono Chris. Farai meglio a rendere a me, d’ora in avanti. Benvenuto nella tua nuova casa.”





 

-§ Oggi §-





 

Mika tentò di smettere di torturarsi le mani, ma i dorsi erano già stati largamente graffiati e mordicchiati. Non importava. Sarebbero guariti di lì a poco. Quello che davvero, davvero, aveva una qualche ragione, era ciò che si trovava al di là dell’enorme porta bianca, scorrevole, che si trovava di fronte. L’aveva fissata per tutte le ore che erano passate dal ritorno di Djbril, da quando lo avevano spintonato su per l’ascensore centrale, diretti ai piani alti, avendogli lasciato solo il tempo di dirsi quelle due insoddisfacenti parole. Gli avevano permesso di seguirla da dietro, comunque col divieto di poter dire altro. Lui si era limitato a farlo in assoluto silenzio, mangiando con gli occhi ogni centimetro di schiena che spuntava fa le spalle degli Angeli che lo scortavano.
Sperando che si voltasse, ogni tanto.
Cosa che fece, a ogni curva, a ogni minima occasione in verità, sul volto sempre presente lo stesso sorriso, lo stesso sguardo rassicurante. Ogni volta che si voltava verso di lui, la tempesta si placava e i pensieri si fermavano, in adorazione di quel piccolo gesto. Quando il sole che era Djbril poi, scompariva di nuovo, la mente di Mika tornava a essere dilaniata da mille taglienti considerazioni.

Chi era, ormai?
Lo considerava ancora il suo Compagno?
Dove era stato?
Perché non era tornato?
Perché solo ora?
Era ferito?
Gli era davvero mancato?

Mika si ritrovò a chiedere se avrebbe potuto riaccettare la presenza dell’altro accanto a sé, dopo tutto quello che aveva fatto per diventare irraggiungibile e inattaccabile.
Aveva perso il conto delle ore che era rimasto in quella saletta sterile di qualsiasi cosa, anche del colore. Vi era solo il divano su cui sedeva a ginocchia aperte, i gomiti piazzati su di esse e la fronte sui pugni che quasi tremavano.
Avrebbe potuto riprodurla, quella porta, granello di polvere per granello, tanto la conosceva a memoria.
Erano passate ore, da quando lo avevano fatto entrare lì, ordinandogli di aspettare.
Erano passate ore e finalmente la porta si aprì.
Mika tornò eretto, alzandosi poi, trattenendo a stento dal manifestare la delusione quando a entrare dalla porta non fu Djbril ma una donna, un’umana. Quando però si scostò la figura del Puro gli fece trattenere il fiato.
Indossava gli abiti degli Angeli di nuovo, bianchi e intonsi, attillati, i capelli sciolti e puliti gli ricadevano sulle spalle  lunghi, lisci, ma sulle labbra vi era sempre lo stesso sorriso, sempre quel potere di placare le tempeste.
Senza neppure accorgersene Mika si distese, abbassando le spalle.
“Dieci-cinquantadue, Mika, giusto?” domandò la donna, riportandolo alla realtà. Annuì, mentre questa andava ad annotare qualcosa sulla propria cartellina.
“Sono Miss Edgard, mi occupo della riabilitazione di nove-cinquantadue, quindi sarò sempre presente nei vostri colloqui.”
“Colloqui? Nel senso che…”
“In qualità di suo Compagno ti sarà concesso di visitarlo con regolarità. Fino a quando non sarà ritenuto idoneo rimarrà qui, nella sezione dedita ai casi specifici. A quel punto potrà tornare e reinserirsi nella Classe” concluse la donna, mentre andava a sedersi.
“Prego, fate come non ci fossi. Ma se avete domande non abbiate problemi a parlarmi.”
Mika la osservò, indeciso, prima di tornare a guardare Djbril. Era rimasto per tutto il tempo immobile, quasi non si stesse parlando di lui. Solo, sul volto la perenne espressione di calma.
Ancora una volta, l’Impuro si ritrovò a cibarsi della sua presenza come un assetato aveva bisogno di una fronte nel deserto.
“Dj..” cercò di iniziare, quando poi l’abbraccio del Puro lo avvolse, inaspettato e potente. Gli tolse il fiato, neppure lo avesse colpito in pieno petto, con tutta la propria forza. Rimase rigido, mentre l’altro affondava il proprio viso nell’incavo del collo. Persino senza vederlo, semplicemente sentendo le sue labbra sulla pelle, poteva percepire il suo sorriso.
Con lentezza andò a stringergli la schiena, gli occhi che cominciavano a pizzicare. Per un attimo si chiese cosa gli stesse accadendo, poi ricordò che era accaduto anche cinque anni prima, quando Djbril era
morto.
Allora aveva sentito un dolore nel petto che lo aveva costretto a nascondere il volto sfigurato nel cuscino, per non far vedere quell’ennesima anomalia che lo rendeva un Impuro.
In quel momento sentiva qualcosa di ben diverso. Non era
triste. Perché piangere, allora?
“Mika…” sussurrò l’altro, abbastanza piano da non farsi sentire dalla donna, abbastanza vicino da toccargli timpani e cuore. Non ricordava la sua voce così morbida, così calda, così piacevole.
Ancora una volta le lacrime rischiarono di scivolare giù.
Poi ricordò quando avevano volato assieme, giù per la torre, l’ultimo giorno che aveva vissuto con Djbril. Anche allora aveva pianto. Perché era felice.
“Mi sei mancato tanto, Mika” disse Djbril, semplicemente “Sono felice di essere a casa.”
Ancora una volta tutto andò in pezzi e Mika pianse, singhiozzò, aggrappandosi a un fantasma che era tornato per tormentarlo, forse, o per cancellare tutti i suoi tormenti.
E davvero non sapeva, se erano lacrime di gioia o di terrore.






 

“Pensi che papà approverebbe?”
“Non avrei proposto questa linea di azione, se non fossi stato certo di non offendere il ricordo di tuo padre.”
“Metterlo in pericolo in questo modo…”
“Quindi è questo il problema. Sei preoccupato per lui.”
“Ovvio che no! Pensavo solo a papà.”
“Quindi sei geloso?”
“Può essere. No. No, ovvio che no. Perché dovrei esserlo? Non lo sono.”
“Come credi, Thomas, come credi… Piuttosto, notizie di Billy?”
“No. Olive non mi ha più detto niente.”
“Capisci che Djbril è l’unica chance di quel ragazzo. E nostra…”
“Certo che lo capisco, vecchio.”
“Bene.”
“Bene.”
“...”
“...”
“Dovresti andare a chiamare Cornelia. Stiamo finendo il carburante.”
“Già, dovrei…”
“Continuare a fissare la Torre di Babilonia col canocchiale non aiuterà il tempo a passare più velocemente.”
“Lo so, vecchio! Lo so! E non rompere.”







 
Intanto mi scuso per l'incredibile ritardo con cui ho aggiornato. Davvero, capisco che torto ho fatto a chi mi sta seguendo, e me ne spiace terribilmente. Allo stesso tempo, voglio cogliere l'occasione per ringraziare chi segue questa storia, Djbril, Mika e tutti gli altri. Spero che l'attesa sia valsa almeno in minima parte la candela.
Vostra, L'aura.






 
   
 
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