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Autore: Equilibrista Bendata    08/04/2014    1 recensioni
– Fai podismo?
Domanda curiosa, e anche strana, irriverente e maleducata se è la prima domanda che vi fa un estraneo.
E' esattamente questo che pensa Cassandra, una diciassettenne qualunque, quando incontra l'affascinate e arrogante Feibush, appena arrivato in città. E ancora più fastidioso è ritrovare questo ragazzo ovunque: a scuola, al parco, fuori di casa.
Ma chi è questo intrigante sconosciuto? E cosa nasconde lo zio di Cassandra, il bonario e paffuto Denis? E la voce che perseguita la ragazza fin da bambina, che significato ha? E' solo pazzia quella che l'affligge, o c'è dell'altro?
Tutto inizia dal podismo per portarci nel mondo di tutti i giorni, un mondo, però, che nasconde mille e una insidie in cui Cassandra si ritroverà immersa, in un caleidoscopio di personaggi, luoghi e storie straordinarie.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PROLOGO

 
Circa 5.000 anni fa
 
I piedi nudi di Tepki calcavano tranquilli la sabbia rossa della savana silenziosa; portava in spalla una grossa antilope, bottino della caccia mattutina, e stava tornando al suo villaggio, dove l’avrebbe offerta al grande sciamano Traktut. Nonostante l’altezza notevole, il viso serio e le lunghe cicatrici che brillavano sulla pelle scura, Tepki aveva soli diciassette anni: viveva in una piccola comunità semi-nomade, installatasi su un altopiano a parecchi chilometri di distanza da dove era in quel momento, abbastanza in alto da sfuggire ai grandi felini e alle altre tribù. Non era solo un giovanissimo cacciatore in grado di abbattere un’antilope adulta con la sua lunga lancia acuminata, ma era anche un forte e abile guerriero, iniziato ai misteri del fuoco e del sangue, cioè un adulto agli occhi della sua gente.
Il giovane camminava sereno sotto il sole cocente; non aveva paura di essere attaccato né dai leoni né da altri cacciatori: le lunghe cicatrici sul corpo servivano da monito ai suoi aggressori poiché testimoniavano i suoi innumerevoli scontri e le sue innumerevoli vittorie: per ogni vittoria riportata, gli uomini si infliggevano quelle ferite, così da mostrare a tutti il loro valore. Famoso fra la sua gente, Tepki era temuto dai clan nemici e nonostante altri cacciatori si nascondessero fra i cespugli vicini in quel preciso istante, nessuno decise di muovere un attacco al ragazzo, sebbene fosse solo e loro fossero in quattro.
Sarebbe dovuto andare dritto a casa, ma decise che una deviazione non avrebbe fatto male a nessuno; svoltò a destra e si diresse verso un gruppo di colline, zigzagando fra gli alberi alti e secchi che adornavano quella savana brulla e arida. Con grosse falcate, raggiunse la sommità della collina più alta e guardò giù, godendosi uno spettacolo unico: una verde pianura si srotolava davanti agli occhi di Tepki, punteggiata da grandi mandrie di zebre e gnu che pascolavano placidi nella calura estiva; più lontani brillavano alla luce del sole i due fautori di tanta rigogliosità: i due fiumi blu, i silenti signori di quella piana fertile e rigogliosa.
Tepki fece vagare il proprio sguardo su quella distesa silenziosa e pacifica, e si sarebbe voltato per tornare a casa, se qualcosa non avesse attirato la sua attenzione. Una mandria di gnu stava scappando frenetica da qualcosa, alzando dietro di sé una gigantesca nuvola di polvere; il ragazzo aguzzò la vista, alla ricerca di un branco di leonesse o di un ghepardo, ma non vide nulla di tutto questo: gli animali sembravano fuggire lontani da un grande baobab che dominava la pianura con la sua mole titanica. Veniva chiamato il Grande Dio dai vecchi del villaggio e Tepki sapeva essere l’ultimo della sua specie dell’intera zona; era molto rispettato e considerato il padre di tutti loro.
Il ragazzo strizzò gli occhi e poi li sgranò di colpo; stava accadendo qualcosa all’albero: un grosso squarcio si era aperto lungo il tronco e si allargava, istante dopo istante. Avrebbe dovuto abbandonare l’antilope lì dov’era, girarsi e correre dagli sciamani, riferendo ciò che aveva visto, ma Tepki era, e rimaneva, un ragazzino e anche se poteva essere ritenuto un uomo fatto, la sua curiosità era e rimaneva quella di un diciassettenne.
Posò l’antilope a terra e dopo aver controllato che non ci fosse nessun felino in zona, si diede a una corsa a perdifiato lungo il pendio ripido delle colline, scendendo passo dopo passo verso la piana. Grazie alle agili gambe lunghe, raggiunse l’albero in breve tempo e rimase a bocca aperta, terrorizzato e stupito allo stesso tempo.
Un enorme porta si era aperta nella corteccia dell’imponente albero; aveva i contorni frastagliati, quasi fosse stata ricavata strappando il legno con le unghie e si apriva sul… cielo. Tepki stava guardando un frammento del cielo stellato che amava rimirare la sera, sdraiato sul ramo di un albero, contando le stelle e cercando di capirne il movimento; era come se qualcuno ne avesse intrappolato un pezzo nel legno del baobab o se il firmamento si fosse aperto e reso accessibile nella corteccia dell’albero.
Stringendo la lancia con forza, si avvicinò per osservare meglio. Le stelle sembravano alla sua portata, avrebbe potuto infilare una mano là dentro e afferrarne una, brillante e viva. Stava per farlo, quando la superficie scura e liscia fu disturbata da qualcosa, increspandosi in mille cerchi concentrici; il giovane arretrò e attese.
Prima un piede, poi una mano e infine un viso uscirono dall’albero; un uomo alto e dai capelli chiari come i raggi del sole si erse davanti ad un tremante Tepki in tutta la sua straordinaria altezza. A differenza del ragazzo che indossava un semplice perizoma polveroso, l’uomo portava una strana tuta nera, aderente e cangiante, ed era munito di un immenso scudo triangolare e di una peculiare spada a forma di saetta.
Si guardò attorno con fare fiero, osservando la grande pianura piena di vita, e posò i suoi occhi verdazzurri sul giovane, tremante nonostante il caldo afoso che li circondava. Tepki fu travolto dalla forza di quello sguardo e un pensiero folgorante gli attraversò la mente: quello che aveva davanti era un dio, un dio maestoso e terribile che lo avrebbe bruciato vivo se non avesse abbassato lo sguardo immediatamente e non si fosse inginocchiato al suo cospetto. Il giovane fece esattamente questo: lasciò cadere la lancia a terra e si prostrò ai piedi dell’uomo, il viso nella polvere; lui, Tepki l’impavido e Tepki il guerriero, si piegava per la prima volta davanti a un uomo, davanti a un dio.
L’uomo sorrise, bonario e disse qualcosa in una lingua strana; il ragazzo lo guardò, timoroso e il colosso sorrise nuovamente, facendogli segno di alzarsi.
Meeltà – sussurrò Tepki, prendendo la lancia e facendo dei piccoli inchini col capo; quello era il nome con cui gli sciamani del suo villaggio chiamavano il Grande Dio, signore di ogni cosa.
Ci fu un altro fruscio e un’altra figura emerse dalla porta di stelle. Un ragazzo dai capelli biondo fulvo armato di arco affiancò l’uomo raggiante e Tepki capì al volo, dagli occhi verdazzurri e dalla stessa fierezza nel portamento, che il nuovo venuto doveva essere figlio dell’uomo-luce. Si inchinò nuovamente, conscio che gli dei avrebbero potuto in qualsiasi momento ucciderlo.
In pochi minuti altre figure, altrettanto maestose uscirono da quella strana porta; tutti indossavano la bizzarra tuta iridescente, erano muniti di armi che non aveva mai visto ed erano belli e perfetti oltre ogni dire. Quelli erano dei venuti dal cielo e dalle stelle che il giovane cacciatore amava osservare la sera, dei grandi e potenti e terribili che avevano iniziato a parlare fra loro in una lingua incomprensibile. Sembrava stessero discutendo sul da farsi e alcuni indicavano con insistenza Tepki; anche se sarebbe voluto fuggire al villaggio per riferire tutto ai grandi saggi, il ragazzo tentò di controllare le proprie emozioni e si raddrizzò, guardandoli con decisione.
L’uomo-luce stava porgendo l’orecchio alle parole di un alto uomo dai capelli neri e riccioluti, con una barba ispida e gli occhi grigi, e a quelle di una donna dai capelli di fiamma; l’uno aveva una voce suadente e calma, l’altra interveniva con fervore e contrarietà che persino Tepik, per quanto non riuscisse a capire di cosa stessero parlando, riusciva ad intuire. Entrambi furono ascoltati con pazienza e educazione, perché l’uomo-luce era un capo calmo e molto saggio, e altrettante domande furono fatte loro per giungere alla soluzione del problema presentatosi.
Il cacciatore li stava osservando, tentando di capire quale fosse questo problema quando alcune risate lo fecero voltare. Un gruppetto di ragazzi si era allontanato dall’albero e si stava dirigendo verso un gruppo di leonesse, placidamente sdraiate a parecchi metri da loro; c’erano il ragazzo dai capelli ramati, una ragazza con bei capelli color della terra bagnata, anch’essa armata con un lungo arco, e un alto ragazzo con lunghi capelli scuri, disarmato. Tepki li guardò nervosamente: avevano idea di quello che stavano per fare? Le leonesse avevano dei cuccioli e non avrebbero permesso a quei di tre di avvicinarsi troppo.
Non ci volle molto perché le preoccupazioni di Tepki divenissero realtà; due leonesse si alzarono appena i ragazzi furono a meno di due metri da loro, fissandoli con i loro gelidi occhi gialli. Il ragazzo con l’arco e la ragazza si fermarono appena se ne resero conto, ma l’altro ragazzo proseguì, puntando proprio verso i felini. Altre leonesse si volsero a guardarlo e iniziarono a lamentarsi, infastidite; se non si fosse fermato subito, pensò Tepki, l’avrebbero sbranato vivo.
Il ragazzo con i capelli fulvi gli urlò qualcosa, ma l’altro parve non sentire e continuò la sua marcia; ormai tutte le leonesse si erano alzate e ruggivano rabbiose, senza più nascondere l’ostilità verso l’intruso. Due di loro si staccarono dal gruppo; una si spostò sulla destra e l’altra sulla sinistra del giovane, andando a disegnare un semicerchio. Tepki strinse la lancia; sapeva quale sarebbe stata la mossa successiva dei felini, glielo aveva visto fare tante volte con prede più grosse come giraffe ed elefanti, e il giovane poteva anche essere un dio, ma non sarebbe sfuggito a quelle zanne.
Una terza leonessa, la più grossa e forte del branco, iniziò a camminare verso il ragazzo; le scapole si alzavano e si abbassavano sotto il manto color miele, e le zampe possenti alzavano lievi nuvole di polvere a ogni passo felpato. Il ragazzo si fermò di colpo e Tepki temette che si fosse reso conto solo in quel momento del guaio in cui si era cacciato; lanciò un’occhiata ai suoi compagni e notò che lo fissavano, senza alcuna intenzione di intervenire, e lo stesso si poteva dire per gli altri, ancora intenti a discutere animatamente. Il cacciatore portò nuovamente la propria attenzione sul ragazzo.
Le leonesse si erano fermate e formavano un triangolo attorno alla loro preda; le loro code sferzavano l’aria e la terra, frenetiche, e i loro fianchi vibravano, eccitati. Il ragazzo fissava la leonessa davanti a sé e nonostante non fosse armato, non cercò l’aiuto di nessuno, neppure dei compagni a pochi metri da lui.
In un sol colpo, le due leonesse ai lati fermarono le code e balzarono, le bocche spalancate in un ruggito silenzioso. Velocissimo e senza apparenti problemi, il ragazzo le schivò; prese le teste dei felini e le fece cozzare con forza fra loro. Tepki le vide scivolare a terra, immobili.
La grossa leonessa non si fece sfuggire neppure un attimo e andò all’attacco a sua volta; saltò in pieno petto al giovane e lo fece cadere a terra. Era pronta a chiudere le fauci sul delicato collo del ragazzo, ma questi la fermò, tenendo aperta a pochi centimetri dal viso l’enorme bocca dell’animale. Il felino tentò di concludere il colpo, ma il ragazzo era più forte di qualsiasi altro umano avesse ucciso in vita sua e si stupì quando questi gli staccò di netto la mandibola con un movimento deciso; il sangue iniziò a fiottare dalla gola scoperta e la leonessa rovinò a terra, soffocando.
Coperto di sangue e polvere, il ragazzo si alzò e gettò a terra la mandibola del felino; avanzò con fare languido e lento verso i cuccioli e le altre leonesse fuggirono, impaurite. Spaventato, Tepki osservò i felini scomparire nel folto della savana; non le biasimava poiché quello sconosciuto appariva cento volte più temibile del re della savana; lo guardò soffocare senza pietà i piccoli leoncini piangenti, quasi a voler sancire con quel gesto chi fosse il vero signore di quella terra.
Finito il massacro, si volse verso i compagni; una luce folle brillava nei suoi occhi e un’espressione terribile sfigurava il bel viso, schizzato di sangue.
Fra i propri dei, Tepki non venerava alcun dio sanguinario o malvagio, ma solo grandi dei e dee buone e dispensatrici di fertilità e ricchezza. Rabbrividì quando il giovane tornò indietro verso gli amici e fu solo quando l’uomo-luce lo interpellò che riuscì a distogliere lo sguardo.
– Guidami dai tuoi padri – gli ordinò l’uomo nella sua lingua e l’idea che quelli fossero dei si consolidò ulteriormente nella mente del cacciatore vedendo la leggera luce che emanava la sua pelle. Il ragazzo annuì e fece strada all’uomo, mentre gli altri restarono attorno al baobab.
Giunti sulla cima della collina dove aveva lasciato l’antilope, Tepki si volse a guardare la pianura sotto di sé; persino da lassù poteva distinguere i corpi delle leonesse, il loro sangue e i loro cuccioli strangolati. Rabbrividì e volse le spalle a quello spettacolo: sperava che quegli dei portassero con loro pace e prosperità, ma aveva un brutto presentimento.
 
  
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