May Rose
Senza
bussare Maximillian entrò dalla porta, il biondo già sapeva
che il moro sarebbe entrato in quella stanza. Era solo questione di
secondi.
“E
il giornale?”
Alexander
non si voltò nemmeno, né tantomeno
distolse lo sguardo dalla vetrata, allungò semplicemente la mano
per prendere
il periodico che l’altro gli stava porgendo.
“L’hai
letto?”
“Sì.
Era quello che aspettavate?”
Maximillian
sorrise quasi impercettibilmente, solo
dal tono traspariva, appena. Il biondo aprì il giornale,
scorrendo rapido con
gli occhi tra le notizie come se sapesse cosa trovare e dove trovarlo
Sorrise
anche lui per poi voltarsi verso l’altro.
“Bingo.”
Gli
porse il giornale, facendo leggere la notizia
anche all’altro. Era inutile per lui leggerlo, già sapeva
a grandi linee cosa
era successo, quella era solo la conferma che il suo non era stato
semplicemente un volo di fantasia. Il servitore cominciò a
leggere ad alta voce
quello che c’era scritto in quel piccolo fondo di giornale senza
nessuna
importanza apparente, semplicemente una notizia come tante agli occhi
di tutti
gli altri. Ma non a quelli dei Nightingale.
“Misterioso
furto nella collezione privata Philippe
Murray, scompare senza traccia il ciondolo di Madame Murray. Sembra che
i ladri
non abbiano rubato altro, nessun segno di infrazione e nessuna traccia
o
indizio. Incerto il movente e le dinamiche. La polizia brancola nel
buio, a
quando la soluzione del caso per Scotland Yard?”
Finito
di leggere piegò il giornale e lo posò sul
tavolo della stanza, il biondo si girò verso Maximillian
fissandolo negli occhi
chiari fermo e deciso. Sapeva già cosa fosse successo.
Lui
l’aveva già visto.
“Chiama
Nicholas e i gemelli, è ora di andare a fare
una visita a un nostro vecchio amico.”
Il
moro si spostò verso l’attaccapanni e prese il
cappotto del suo padrone per poi aiutarlo ad infilarselo, Alexander
inforcò gli
occhiali dalle lenti scure e il cappello mentre l’altro si
congedava con un
leggero e veloce inchino.
Tornò
alla vetrata della finestra, scrutando tra le
case e le sagome dei palazzi di Londra la risposta che cercava.
“Dobbiamo
fare presto.”
Strinse
i guanti nel pugno della mano destra,
deformando appena il suo bel volto con un ghigno.
“Dobbiamo
fare prima di lui.”
“Odio,
odio questo dannatissimo sole.”
“Smettila
di frignare Nicholas, non siamo venuti qui
per lagnarci del tempo.”
Avevano
lasciato i gemelli dentro la carrozza, non
era il caso di portarsi in giro le due pesti dentro gli uffici della
polizia,
bastava che fossero attenti a cosa sentivano. Giusto per pararsi le
spalle.
Alexander
spostò il fratello da davanti a sé,
entrando senza bussare alla porta. Pessimo, pessimo vizio.
“Dov’è
il sergente Atkingson?”
Si
tolse i guanti e si guardò intorno, cercando tra
le scrivanie della caserma il vecchio volto familiare. Un giovane
poliziotto
scattò in avanti avvicinandosi al gruppetto, disturbato dai modi
di fare del
biondo, non a torto visto i metodi alquanto approssimativi del nobile
signorotto.
“Chi
siete? Come vi permettete di irrompere in una
stazione di polizia in questo modo e comportarvi da padroni?
Il
poliziotto agguantò il cappotto del biondo e
Maximillian fece per muoversi e fermarlo ma Alexander alzò
semplicemente la
mano verso il servitore per fermarlo. Con una calma innaturale si
sfilò gli
occhiali scuri, fissando dritto negli occhi il povero agente
scapestrato.
Puro
ghiaccio.
Ecco
cosa sembrava il suo sguardo.
Due
occhi quasi privi di colore, eccezione fatta per
quella punta di grigio e azzurro che era nei suoi occhi. Fissi,
immobili. Quasi
crudeli.
Lo
guardò con sufficienza, odiava essere toccato da
estranei. Abbassò lo sguardo verso la mano del poliziotto che
con uno scatto
quasi impaurito lo lasciò andare, lo aveva riconosciuto proprio
da quegli
occhi.
Povero
giovane appena uscito dall’accademia, non
aveva la minima idea di chi diamine fossero quei tizi così
strani; un
nanerottolo vestito di scuro con tanto di occhiali anneriti e un volto
così
duro e impassibile, un gigante con gli occhiali e una faccia da fesso e
un uomo
sulla quarantina con lunghi capelli neri legati da una coda e profondi,
profondissimi occhi azzurri che Dio solo sapeva cosa nascondessero, un
uomo
misterioso e silenzioso come i suoi movimenti. Temeva quasi a vederli
fissi su
di lui, in quell’espressione di puro disprezzo. Anche se gli
costava fatica
ammetterlo in realtà quello che gli incuteva più timore
era quello che ai suoi
occhi sembrava il più giovane, anche se dall’espressione
mostrava molti più
anni di quelli che gli avrebbe dato ad una prima occhiata.
Quel
“nanerottolo” aveva il volto di un ragazzino e
lo sguardo di un uomo, un uomo che aveva ucciso e non avrebbe avuto
remore nel farlo
ancora. Gli faceva quasi… paura. Sì, paura.
Un
suo collega si avvicinò a lui e lo strattonò,
portando il suo orecchio all’altezza della sua bocca.
“Idiota,
non lo vedi che è uno degli Hamilton?”
Sussurrò
a voce bassa al suo orecchio. Alexander non
si curò del loro parlottare e continuò a guardarlo con
sufficienza, non tanto
perché non lo avesse riconosciuto, non poteva infatti
importargli di meno,
quanto odiasse essere trattato da ragazzino. Era molto tempo che non si
sentiva
tale.
“Mi…
mi scusi signor Hamilton. Non… non vi avevo
riconosciuto.”
Il
giovane si scusò con un lieve inchino
e senza dire nulla Alexander abbassò lo sguardo sulle sue mani,
sfilandosi i
guanti per poi metterseli nella tasca della giacca.
“Che
cosa diavolo vuole da me il duca
Hamilton?”
La
voce veniva da qualche scrivania più
in là dove un uomo stava leggendo un libro con i piedi sul
tavolo, sembrava
completamente solito a scene di questo tipo. Alzò lo sguardo dal
libro e lo
posò sul biondo e i due che lo accompagnavano, spostando lo
sguardo su uno o
sull’altro mentre cercava di capire per quale motivo stessero
interrompendo la
sua “attività”.
Nicholas
si avvicinò all’uomo di mezza
età dai capelli brizzolati che masticava rudemente un pezzo di
tabacco. Aveva
lo sguardo annoiato, quando quei due si presentavano alla porta non
c’era mai
nulla di buono.
“Siamo
venuti a farti una visitina,
zietto.”
Il
più giovane fece un sorriso, che
risultò in realtà abbastanza inquietante.
“Non
vedete che sono occupato?”
Nicholas
allora prese dalle mani del
sergente il libro dalla copertina anonima, cominciando a leggerne il
contenuto
ad alta voce.
“…
-Oh James, non potresti fare di me
donna più felice! Prendimi, sono tua! James allora la cinse a
sé con le sue
braccia possenti e la gettò sul giaciglio dove cominciò a
sbottonare la sua
camicetta e…- Caspita, anche io
vorrei
essere occupato così.”
Il
vecchio sbuffò scocciato, togliendo i
piedi da sopra il tavolo e appoggiandosi con i gomiti ad esso.
“Che
cosa vuoi? Quale pista stai
seguendo per l’ennesima baggianata nella Town?”
Chiese,
ancora più scocciato di prima,
se possibile. Anche Alexander si appoggiò alla scrivania,
arrivando all’altezza
della sua vecchia conoscenza.
“L’amuleto
che è stato rubato, che ne
sai?”
Prima
di capire a cosa si stesse riferendo
il sergente lo guardò confuso, cercando di capire a cosa si
riferisse questa
volta. Ci mise un po’prima che l’illuminazione lo cogliesse.
“Non
mi dirai che sei venuto fin qui
solo per questo, signorino. Cosa vuoi che importi di un furtarello di
un ladro
così stupido da lasciare tutte le cose di valore per prendersi
quella collana
ridicola?”
“Non
credo che un semplice ladro
riuscirebbe a eludere la sicurezza della casa per prendersi solo
quell’oggetto
senza nemmeno lasciare traccia. E comunque lascia decidere a me se
è una
sciocchezza o no.”
Ci fu
qualche secondo di silenzio tra i
due, dai quali uscì vincitore Alexander visto che il sergente si
arrese a
quella battaglia di sguardi tirando una profonda sbuffata e girandosi
dall’altra parte, andando a rovistare tra le carte e i documenti
che teneva nei
cassetti.
“Quando
smetterai di darmi grattacapi,
Alexander?”
Il
biondo si mise le mani sui fianchi e
lo guardò scocciato, non avrebbe mai ammesso che in fondo aveva
ragione quel
vecchio sergente di Scotland Yard.
“Insomma,
vuoi aiutarmi o no Ronald? Ce
l’hai un disegno dell’amuleto?”
Chiese,
giusto per essere sicuro che
quello era proprio quello che aveva visto in quella specie di visione.
Sapeva
già che era stato rubato ma voleva essere sicuro che si
trattasse proprio di
quell’oggetto che cercava già da tanto tempo e che ancora
non era riuscito a
trovare. Spulciando tra le carte trovò un foglio in particolare
che consegnò
nelle mani del duca davanti a lui.
“Non
vedo come possa aiutarti, visto che
non sappiamo praticamente nulla. Non si sa come possa essere entrato,
nessuna
delle guardie agli ingressi l’ha visto, non ha lasciato tracce se
non un po’ di
cenere vicino alla vetrina dove era custodito l’amuleto. Ha preso
solo quello e
di certo non perché gli mancasse tempo o altro visto che la
tenuta era vuota in
quel momento. Non so dirti altro.”
“Cenere
hai detto? Non c’era scritto
questo sul giornale.”
A
Ronald comparse un ghigno sulla faccia
che si tramutò presto in una sana e grassa risata.
“Se
dicessimo ai giornali tutta la
verità perderemmo tutta la nostra credibilità.”
“Pensavo
l’aveste persa quando hanno
messo te come sergente.”
Fece
Nicholas, appoggiato al muro lì
accanto, troppo impegnato a guardarsi intorno più che a
impicciarsi di cosa
dicessero quelle carte.
“…
cenere, questa non me la aspettavo. E’
questo è il disegno dell’amuleto?”
Prese
un foglio più ruvido tra le mani,
studiandolo con attenzione. Il disegno raffigurava una collana con un
pendaglio
al cui centro c’era una pietra di rubino esagonale, con un
incisione
nell’anello dorato che la circondava.
“Cum
finis principium cursus fiat”
Alexander
passò il foglio al fratello
che si era avvicinato sentendo quella frase così familiare. La
sua espressione
passò da serena a preoccupata in una frazione di secondo, anzi,
decisamente
preoccupata. Sapeva benissimo quello che voleva dire quella frase, e
sapeva che
quella era solo la prima parte della frase.
“E’
quello che penso io?”
“Direi
proprio di sì.”
“E
ora?”
“E
ora giochiamo di vantaggio, per
nostra fortuna siamo ancora in tempo.”
Lasciò
i fogli sulla scrivania del
sergente e prese i suoi occhiali, inforcandoli al naso. Si girò
verso l’uscita
e fece per andare via seguito dagli altri, per poi tornare indietro e
prendere
il foglio con il disegno da sopra al tavolo.
“Se
non ti dispiace questo lo prendo io.
Grazie per l’aiuto, vecchio.”
Al
che il poliziotto si alzò in piedi e
sbraitandogli contro cercò di fermarlo e farlo tornare indietro,
cominciando ad
urlare.
“Si
può sapere che storia è questa? Ti
dispiacerebbe darmi delle spiegazioni, ragazzino?”
Ma
lui si limitò ad alzare la mano in
segno di saluto, avviandosi verso l’uscita di
quell’ufficio. Non c’era tempo
per le spiegazioni, ora non dovevano semplicemente trovare il ladro e
l’amuleto.
Forse
erano ancora in tempo per evitare
il peggio.
Dovevano
cercare l’amuleto gemello.
Lawrence
non si sarebbe dato per vinto,
no.
Avrebbe
scoperto cosa diamine era
successo a Stephen. Purtroppo stavolta non poteva rischiare di essere
visto
dalla servitù, allora quale momento migliore per provare a
rientrare dentro la
casa del suo amico se non di notte?
Aveva
dovuto aspettare che i suoi
genitori e i suoi domestici si fossero tutti ritirati nelle loro
stanze, piazzò
nel suo letto un fagotto di vestiti che imitasse la sua forma e
tirò su le
coperte affinché tutti pensassero che effettivamente ci fosse
lui nel letto.
Sgattaiolò fuori dalla sua stanza mentre tutti credevano che
stesse dormendo e
si diresse verso la casa dell’amico.
“O
la va o la spacca!”
Aspettò
che la notte fosse calata per
entrare dalla porta di servizio e stette attento che nessuno lo
vedesse, forzò
la porta con un ferro da calza che si era portato e si fece come
un’ombra,
stando attento a non fare il minimo rumore o sarebbe stata la fine per
lui, non
voleva che i tizi dell’altra volta lo scoprissero e lo buttassero
fuori a calci
nel sedere minacciando di morte lui e la sua famiglia.
Doveva
esserci qualcosa di grosso sotto
o non l’avrebbero di certo minacciato in quel modo.
Lentamente,
con passi silenziosi
attraversò il soggiorno e arrivò fino alle scale, le
salì piano e si diresse
verso la camera di Stephen. Prese un profondo
respiro mise la mano sulla
maniglia, la girò appena fino a quando non sentì lo
scatto della serratura;
cercò di aprirla piano per non farla cigolare e non far
svegliare l’amico che
dormiva profondamente nel suo letto. Lento entrò nella camera e
si guardò
intorno, c’erano libri ovunque.
Uno
di quelli però sembrava attirarlo
più degli altri, era quello che aveva già visto prima.
Con
passo leggero si avvicinò alla pila
di libri accanto alla finestra, una volta arrivato lì davanti
sentì come
qualcosa che lo affascinava, che attirava le sue mani proprio per
aprirlo e
cominciare a leggerlo. Appena toccò la copertina però lo
sentì come vibrare e
questo lo spaventò molto, cosa diavolo era?
“Fermati!
Non toccarlo!”
Stephen
si era svegliato e gli stava urlando
contro, più che arrabbiato però sembrava spaventato. Fu
solo questione di un
attimo che i suoi occhi dal verde normale a cui era abituato tornarono
rossi
come l’ultima volta in cui l’aveva visto, quella cosa aveva
ripreso il
controllo su di lui e il ragazzo era tornato in quella che sembrava
essere una
possessione di un demone. Il ragazzo si alzò dal letto e
cominciò ad
avvicinarsi verso di lui a passi lenti, cadenzati.
Sul
suo volto c’era il ghigno gelido che
aveva visto qualche giorno prima. Lo stesso ghigno che gli aveva fatto
gelare
il sangue la prima volta, l’avidità per cui qualsiasi
cosa, qualsiasi persona
avesse avuto non gli sarebbe mai bastata. Non sarebbe mai stata
abbastanza.
La
disperazione, la profonda solitudine,
il vuoto. Erano ancora tutti lì, nei suoi occhi.
La
paura gli aveva gelato le gambe, non
riusciva a fare un passo. Lasciò andare il libro dalle sue mani
che si aprì una
volta caduto a terra. Non riuscì a capire quale fosse la pagina
che si era
aperta né tanto meno cosa ci fosse scritto, ma si sentiva
irresistibilmente
attratto da quel libro. Era come se lo stesse risucchiando verso di
sé, non
sapeva quanto a lungo sarebbe potuto resistere. Non sapeva nemmeno se sarebbe potuto resistere.
“Vieni
Lawrence, vieni con noi. Non ti senti solo?”
Non
sapeva cosa fare il ragazzo. Era
immobile in mezzo alla stanza, senza poter fare un passo per togliersi
da
quella situazione. Sentiva il proprio cuore esplodere, batteva
all’impazzata
contro il suo petto mentre quella voce continuava a rimbombargli nella
testa.
Non c’erano parole per descrivere come da quell’essere che
aveva preso il
controllo dell’amico tutta la luce sembrava essere risucchiata,
anche quella
flebile della luna che entrava dalla finestra.
Ma
solitudine sì, quella riusciva a
percepirla distintamente.
“Noi
possiamo darti tutto quello che vuoi, Lawrence. Tutto quello che hai
sempre
desiderato…”
Era
al centro del cerchio più grande
nella stanza, quello che aveva visto la prima volta che era entrato
lì dentro.
Davanti a lui c’era un pendaglio, una specie di collana dalla
pietra rossa che
risucchiava la luce e dava le stesse vibrazioni che mandava Stephen
davanti a
lui.
Lento
ma incessante si avvicinava
l’amico a lui, con le mani tese come per prenderlo.
Vedeva
però che era molto più rallentato
dell’ultima volta, come se stesse combattendo una lotta interna,
come se
qualcosa da dentro tentasse di fermarlo. Non sapeva contro che cosa
stesse
lottando ma quella cosa probabilmente era quello che rimaneva del suo
amico. Stephen
da dentro riuscì a fargli piegare le braccia e portarsele al
volto per
impedirgli la vista dell’altro, lui lanciò un urlo e cadde
a terra, come se
fosse indebolito all’improvviso. Per un attimo gli sembrò
di vedere gli occhi
dell’amico tornare normali ma sapeva che qualsiasi cosa avesse
fermato l’altro
non sarebbe durata molto.
Radunò
tutta la forza che aveva e si
coprì le orecchie, cercò di togliere quella voce che
sentiva da dentro di lui
per quanto quello non servì a nulla. Provò allora a
distogliere lo sguardo e lo
fissò ancora una volta sulla gemma al centro di una delle
inscrizioni nei
cerchi.
Senza
pensarci la prese in mano, il suo
calore sembrava quasi bruciargli la mano eppure era la stessa cosa che
lo
attirava così tanto. Prese tutto il coraggio che aveva e lo mise
nelle gambe,
si alzò in piedi vacillante e corse via aprendo la porta e
fuggendo da quella
casa mentre i genitori di Stephen e tutti i servi uscivano fuori dalle
loro
stanze svegliati dalle urla nel cuore della notte.
“Fermati!”
Intimò
il padre del ragazzo, per poi
essere rincorso da quello che sembrava il servo che lo aveva sbattuto
fuori
l’altra volta. Doveva correre, doveva correre più veloce
che poteva.
“Miller,
ho detto di fermarti!”
Gli
intimò la madre di Stephen, lui però
corse più forte e veloce spinto dal terrore e uscì da
quella casa, correndo
come un pazzo. Uscì dalla porta e
corse
ancora e ancora, l’adrenalina era a mille e gli dava la forza per
non fermarsi.
Si
fermò solo quando non fu sicuro di
essere abbastanza lontano. Nella mano stringeva ancora quello strano
amuleto,
si rese conto solo allora che gli stava bruciando la mano così
lo lasciò cadere
a terra. Si accovacciò e cercò di leggere quello che
c’era scritto attorno alla
gemma.
Quando
la fine torna inizio.
Era
la stessa frase che era incisa sui
muri e sul pavimento della stanza di Stephen. Ancora la stessa frase
ritornava
nella sua mente. Ma cosa diavolo voleva dire?
In
qualsiasi caso sapeva già che cosa
avrebbe dovuto fare con quella “cosa”.
Doveva
nasconderla da qualche parte.
Sì,
ma dove?
“Dovremmo
smetterla con questo gioco.”
Mormorò
Alexander affacciato alla
finestra, come al solito. Si girò verso l’altro e porse la
mano, chiedendo
quello che sapeva l’altro aveva portato.
Per
quanto da un lato era stanco di quel
continuo rincorrersi, di quel continuo giocare a nascondino, doveva
ammettere
però che non gli dispiaceva. Anzi no, non gli dispiaceva affatto.
Non
era che semplicemente lo aveva
sentito arrivare, no. Lui sapeva che sarebbe venuto, sapeva che cosa
gli
avrebbe portato, sapeva quando sarebbe entrato dalla porta della sua
stanza,
senza bussare, senza fare il minimo rumore. Se riusciva a concentrarsi
poteva
sentire i passi lenti e silenziosi dell’uomo, sentirlo
avvicinarsi, sentire il
suo respiro regolare. Se solo si concentrava riusciva a sentire il
battito del
suo cuore sempre più vicino, quel ritmo lento che lo affascinava
ogni volta.
E
poteva quasi sentirlo quel sorriso
divertito sulle labbra dell’altro, poteva sentire anche il
divertimento che gli
provocava essere anticipato di un solo secondo.
Lui
lo sapeva.
Dovevano
smetterla sì, ma quel gioco
divertiva entrambi.
“Dammela.”
Senza
dire nulla Maximillian porse al
biondo una fialetta che conteneva la cenere che era stata ritrovata nel
luogo
del furto dell’amuleto, era riuscito ad entrare negli archivi
della polizia per
prenderla, proprio come voleva il suo padrone.
“Non
ti chiederò come hai fatto a
prenderla, ho i miei seri dubbi che sia qualcosa di legale.”
Maximillian
sorrise sghembo, portandosi
una mano al viso per spostare una ciocca di capelli da davanti i suoi
occhi. Sapeva
perfettamente come aveva fatto a prendere quel reperto, semplicemente
preferiva
non chiederlo per non avere guai. Il biondo era sempre e comunque a
conoscenza
di ogni sua mossa, ovunque si trovasse. Fece fatica a fermare la
piccola risata
che uscì dalle sue labbra, come una piccola cascata da un
torrente. Era uno
splendido suono, puro e cristallino.
E
anche incredibilmente raro. Per quanto
non risparmiasse sorrisini e risatine era raro sentirlo ridere di cuore
in quel
modo e doveva ammettere che gli piaceva, molto.
“Perché,
abbiamo mai fatto storie su
questioni legali?”
Alexander
alzò la fialetta e la mise controluce,
analizzandola per quello che poteva. Purtroppo non riusciva a vedere
molto, non
riusciva a percepire nulla da quell’indizio. Anche se si sforzava
non riusciva
a vedere nulla, neanche se si concentrava al massimo. Evidentemente
quella
capacità andava oltre il “dono” che gli era stato
dato.
La
smosse ancora un po’ cercando di
carpirne i segreti ma nulla, era buio totale.
“Andiamo,
so chi mi può aiutare.”
“Aaaah
Josephine, Josephine!”
Nicholas
continuava a sventolarsi con
una lettera davanti ai gemelli. L’arrivo di quella lettera gli
aveva dato alla
testa, era tutto il pomeriggio che non faceva altro che vantarsi di
averla
ricevuta. Se la portò alle narici e ne prese il profumo a pieni
polmoni.
“Aaaah,
che uomo fortunato che sono!”
Davis
fece un profondo sospiro,
appoggiando la testa alla spalla del fratello Damian.
“Basta
Nicholas, non ti sopportiamo più!
Saranno tre ore che non fai altro che vantarti di quella stupida
lettera,
dovresti smetterla e ricominciare a lavorare.”
Il
biondo allora prese la carta e la
sventolò davanti ai due, mostrando loro il contenuto della
missiva romantica e
smielosa. Damian girò la testa dall’altra parte,
arrossendo lievemente. Come se
quelle erano cose da far leggere a dei ragazzini.
“Ma
non vedete? Lei mi ama, mi ama!
Guardate qui, ha pure lasciato il segno del rossetto con le sue labbra
sulla
carta, non è fantastico? E’ pazza di me, me lo
sento!”
Davis
si rabbuiò per un solo attimo,
corrugando le sopracciglia con disappunto. Certe volte Nicholas sapeva
essere
un vero idiota.
“No
idiota, non vedo.”
Nicholas
si fermò un attimo e si rese conto
di quello che aveva appena detto. Non ci aveva fatto caso quando aveva
fatto
uscire quelle parole dalla sua bocca, Davis era cieco dalla nascita
ovvio che
non potesse vedere nulla.
“Scusa,
non volevo..”
Damian
lo guardò con un po’ di rabbia
senza dire nulla, dopotutto non poteva
dire nulla. Si limitò quindi a restare in silenzio senza dire
una parola,
guardando Nicholas come se fosse l’essere più stupido al
mondo.
“Dai
Damian, lo sai che non l’ha fatto
apposta.”
Mise
una mano sulla testa dell’altro,
scompigliandogli un po’ i capelli e regalandogli un sorriso
radioso. Non voleva
che l’altro avesse del rancore per una cosa così stupida.
“Vogliamo
smetterla con queste
stupidaggini, che cos’è questo casino?”
Alexander
entrò nella stanza, seguito da
Maximillian. L’uomo era sempre la sua ombra, si separavano solo
per poco e quel
tanto che bastava per svolgere i propri compiti, dopotutto era il
secondo paio
di occhi di Alexander, tutto quello che il biondo non riusciva a vedere
lo
vedeva per lui il suo servitore fedele, anzi, fedelissimo.
“Nicholas
si sta pavoneggiando perché ha
ricevuto una lettera romantica da miss Heglett.”
Disse
Davis, come un ragazzino che fa la
spia alla mamma, incombendo così nell’ira del biondo e
prendendosi la sua
rivincita, segnata da una linguaccia da parte del ragazzino.
“Ah
sì?”
Il
più grande si avvicinò al fratello e
gli strappò dalle mani la lettera tanto preziosa senza dire
nulla, la portò ai
suoi occhi e cominciò a leggerla con un’espressione sul
viso sempre più
disgustata. Prese la lettera e la strappò davanti ai suoi occhi,
Nicholas
rimase pietrificato, avrebbe cominciato a piangere se solo ne avesse
avuto la
forza e un minimo di orgoglio virile non gli avesse impedito di farlo.
“Ma…
perché?”
“Dimentica
quell’arrampicatrice sociale
e lasciala perdere, vuole solo i nostri soldi.”
“…perché?”
“Perché
lo sanno tutti che è una
baldracca alla ricerca di denaro, non sei il primo a cadere nelle sue
grinfie.”
Alla
parola “baldracca” Davis coprì le
orecchie a Damian, ridacchiando per quello che era appena successo tra
i due.
Di sicuro si era preso la sua agognata rivincita, se così si
poteva chiamare.
Il cuore di Nicholas sembrava fosse andato in frantumi, era da un
po’ che la
biondina amata gli girava intorno e aveva fatto di tutto per fargli
capire che
lei era interessata a lui, anche se non voleva credere a quello che suo
fratello gli stava dicendo doveva ammettere che anche lui aveva pensato
a
questa possibilità.
“Piuttosto,
smettila di fantasticare su
donnine allegre e dammi una mano.”
Alexander
si avvicinò al fratello e gli
mostrò la fialetta, Nicholas la prese in mano e la smosse
guardandola molto da
vicino. Continuò a girarla tra le dita verso la luce,
studiandone ogni minimo
dettaglio, per quanto potesse vedere senza un esame più
approfondito.
“E’
quello che penso?”
Il
maggiore alzò gli occhi al cielo e
fece un sospiro, suo fratello era sempre il solito idiota, mai una
volta che
capisse tutto al volo.
“Sì,
è quello che pensi. Voglio che tu
mi dica esattamente cos’è questa cenere.”
“Ora?”
“No,
domani. Ma certo che lo voglio
adesso Nicholas, e cerca anche di sbrigarti.”
Nicholas
sbuffò e prese la fialetta in
mano, si alzò dalla poltrona e andò a prendere i suoi
occhiali sul tavolo del
laboratorio. Continuò ad ispezionarla attentamente tenendo le
dita sul mento,
non sembrava ma era molto concentrato sul suo compito
“Ci
vorrà un po’ prima che i macchinari analizzino
cos’era, perché si è bruciata e come è
avvenuta la combustione.”
Alexander
si mise una mano sulla fronte
e cercò di mantenere la calma, a che serviva avere un dono se
poi uno si
rifiutava di usarlo? Suo fratello poteva benissimo capire cosa era
successo a
quella cenere se solo si fosse concentrato un pochino sulle sue
abilità.
“Non
potresti semplicemente sforz…”
“NO!”
Urlò
contro l’altro alzando la testa dal
microscopio, sembrava piuttosto offeso e scocciato, come se già
sapesse dove l’altro
voleva andare a parare. Dopotutto era sempre la solita storia.
“Non
possiamo basare un esperimento su
intuizioni personali, supposizioni e improvvisi lampi di genio! Bisogna
trovare
una risposta su basi scientifiche, non sensazioni!”
L’altro
si limitò a massaggiarsi le
tempie dopo le urla dell’altro. Che scocciatura, era sempre la
stessa identica
storia. Forse era inutile sperare che un giorno l’altro si
arrendesse all’evidenza
che c’erano cose nel mondo che non erano spiegabili con la
scienza. Il mondo
era pieno di fenomeni che esulavano da essa e che l’intelletto
umano non poteva
spiegare semplicemente con la razionalità. Loro stessi venivano
da un mondo che
aveva poco a che fare con cose matematicamente ed empiricamente
spiegabili.
Sarebbe
bastato lasciarsi andare e dire
quello che pensava fosse successo, lasciar fare il proprio
“dono”.
Dopo
averla esaminata attentamente al
microscopio mise la polvere in un macchinario che faceva un rumore
assordante e
disegnava sulla carta dei grafici con dei pennini in base alla
composizione
chimica, tutti gli strumenti presenti in quel laboratorio erano stati
creati da
Nicholas stesso e potevano considerarsi all’avanguardia rispetto
a tutti gli
altri strumenti scientifici a disposizione di ricercatori e professori
in tutto
il Regno Unito.
D’altronde
Nicholas aveva sempre avuto
una passione sfrenata per tutto ciò che riguardava la scienza,
ogni volta che da
piccolo chiedeva spiegazioni al fratello su quello che non capiva
rifiutava
sempre ciò che gli diceva basate su credenze e leggende, voleva
sempre cercare
la spiegazione logica dietro ogni cosa, anche se apparentemente non ce
n’era.
Era difficile per lui affidarsi completamente a quelle che lui chiamava
“intuizioni”
e che in realtà erano qualcosa di ben più grande che gli
permetteva di vedere
oltre le cose, nel passato, a quello che già era successo. Ecco
il suo “dono”.
“Sembra
che sia carta bruciata, la fonte
di calore è stata di sicuro molto alta ma non doveva essere
semplicemente
fuoco. Quello che posso dire è che c’era scritto qualcosa
su questa carta, di
sicuro non con semplice inchiostro visto che la composizione di questo
è molto
simile al sangue. Di sicuro non ci sono segni di acceleranti nella
cenere, si
direbbe quasi che ha preso fuoco da sola, ma questa è solo la
mia impressione.”
Alexander
prese dalle mani dell’altro il
foglio appena uscito dalle macchine analizzatrici, studiandolo per
quanto
poteva capirci, dopotutto quelle macchine erano fatte dal fratello per
comprensione di quest’ultimo, non sperava di capirci qualcosa.
“E
se fosse… un incantesimo di
traslocazione?”
Mormorò
piano verso Maximillian, attento
a non farsi sentire. Peccato che non fosse stato abbastanza silenzioso.
“Non
dire stupidaggini, quante volte
devo dirti che la magia non esiste? Penso che ormai a ventisette anni
tu sia
abbastanza grande per capire queste cose da solo, Alexander.”
Il
biondo si limitò a guardare storto il
fratello, piegando i risultati dell’analisi e lasciandoglieli sul
tavolo.
Sorrise appena e incrociò le braccia sul petto, quasi con aria
di sfida appoggiandosi
al tavolo.
“Vediamo,
Nicholas: hai una sorella
veggente, un fratello sensitivo e due medium che vivono sotto il tuo
stesso
tetto. E anche se non vuoi ammettere che sei un sensitivo anche tu,
eppure
ancora non credi nell’esistenza del paranormale?”
Rise
appena, incrociando lo sguardo di
Damian. Avrebbe incrociato anche quello di Davis se avesse potuto e
inoltre
quello se la stava ridendo di gusto, cercando di trattenersi almeno un
po’, tra
una risata e l’altra sentiva chiamare Nicholas
“idiota”. Se non fosse stato d’accordo
con lui l’avrebbe sgridato, quella peste.
“Non
sai dirmi altro?”
Chiese
al fratello che lo guardava
storto a sua volta. C’era rimasto ancora scottato per quello che
gli aveva
detto.
“Secondo
me, e ripeto secondo me, la carta proviene da un
libro piuttosto antico. Facciamo dal Medioevo, anzi… facciamo
dal tredicesimo
secolo. Non so perché ma quello che penso è che sia uno
di quei vecchi libri di
amanuensi che scrivevano in latino, qualcosa pieno di formule
alchemiche e
pseudo-magiche che usavano un tempo.”
Alexander
si avvicinò stavolta
incuriosito al fratello e si mise ad ascoltare attentamente quello che
aveva da
dirgli, sempre più interessato e finalmente più presente
a quello che gli stava
dicendo. Nicholas teneva la testa bassa, quasi come se una parte di lui
si
vergognasse di quello che stava dicendo, quasi come anche se lo
sentisse dentro
di sé si rifiutasse lui stesso di credere a quello che era
apparso nella sua
mente.
“Mi
sembra di dire una cosa assurda eppure non mi viene in mente
altro.”
Il
fratello maggiore sorrise e gli mise
una mano sulla spalla, dandogli delle leggere pacche d’affetto.
Gli sembrava di
rivederlo quando era un ragazzino, sempre distrutto dal fatto di non
riuscire a
trovare una spiegazione sensata per tutte le cose che gli accadevano
alle quali
non sapeva dare una spiegazione, per tutti i ricordi e le immagini che
gli
venivano in mente senza che gli appartenessero. C’erano giornate
in cui gli
sembrava di impazzire, giornate in cui gli sembrava di vivere dentro i
sogni e
dietro gli occhi di qualcun altro.
“E’
la cosa più sensata che tu abbia
detto oggi, Nick.”
Decise
di chiamarlo così, come faceva un
tempo. Dopotutto quell’uomo alto quasi il doppio di lui era
sempre il suo
fratellino adorato.
Lento
saliva i gradini che lo portavano
al piano superiore della villa.
Non
avrebbe mai voluto chiedere il suo
aiuto per una cosa di così poco conto, avrebbe preferito
“usarla” solo in caso
di pericolo. A dire il vero non avrebbe voluto farlo per niente.
Bussò
alla sua porta, entrando prima che
lei potesse rispondergli.
La
trovò che pettinava le sue bambole,
sistemate intorno a lei che se ne stava seduta sul letto. Alzò i
suoi occhi
grigi verso Alexander, accennando un piccolo sorriso.
“Lo
so perché sei venuto qui.”
Lui
non aveva il coraggio di dire nulla,
si limitò a sorridere triste continuando a guardarla appoggiato
alla porta.
“Fammi
vedere quel disegno.”
Sorrise
anche lei, triste.
Alexander
avanzò di qualche passo, cercò
nella tasca della giacca il disegno che aveva preso alla stazione di
polizia e
lo porse a quella ragazza dagli occhi di bambina, quella che per girare
nella
casa non portava mai scarpe sotto il vestitino leggero. Quella che
sembrava
vivesse in un altro mondo, completamente diverso dal suo.
Un mondo pieno di gigli sempre in fiore.
“Sai
dove posso trovarlo?”
Interruppe
il silenzio dopo essere
rimasto ad aspettarla per qualche secondo, si avvicinò al letto
e si sedette
accanto a lei. La guardava dolcemente e cercava di non allungare la
mano per
accarezzarle i lunghi capelli biondi.
Peccato
non fosse più una bambina,
avrebbe potuto coccolarla come facevano quando erano piccoli.
“Non
è più nel posto in cui lo cerchi,
qualcuno l’ha portato via.”
“Chi?
Dov’è?”
“Non
lo so ora, ci devo pensare.”
Chiuse
il foglio e lo porse all’altro,
accennò un lieve sorriso e il biondo le prese la mano.
“Grazie
Lilian, mi dispiace averti
chiesto una cosa del genere. Lo so che non sopporti essere…
usata, ma credimi è
importante.”
La
ragazza sorrise davvero, più dolce e
gentile di quanto non avesse fatto prima. Accarezzò con la sua
mano il viso
dell’altro, cercando di fargli capire che non era arrabbiata con
lui.
“Lo
so.”
Rimasero
in silenzio per qualche minuto,
senza dirsi nemmeno una parola. Non ce n’era bisogno.
Alexander
scostò i capelli dal viso
della ragazza fissandoglieli dietro le orecchie e posò un bacio
leggero sulla
sua fronte, si alzò e fece per andare alla porta. Si volse a
guardarla ancora una
volta e sorrise di nuovo, ma sempre triste.
“Assomigli
tanto alla mamma.”
Alexander
sapeva di aver sbagliato a
dirle quello, lo aveva capito dall’espressione sul suo viso
quando glielo aveva
detto. Non ci aveva neppure pensato, gli era venuto in automatico.
I
suoi occhi così chiari e luminosi, i
capelli come il fieno. Le labbra sottili e quel modo di sorridere
così
dolce delicato, le mani calde e morbide.
Il suo stare in silenzio, non dire mai una parola di più,
compensare con un
sorriso e una parola da niente, dolce come il miele. Era bella,
bellissima.
Come solo il ricordo di una madre può rimanere nella mente di un
figlio
Le
mancava così tanto.
Lo
sguardo di Lilian diventò triste e
abbassò gli occhi sul proprio letto, rimanendo per qualche
secondo in silenzio.
Era
tutta la vita che non facevano che
dirglielo, anche se lei non l’avesse mai conosciuta glielo
ripetevano sempre. Pensavano
che potesse farle piacere ma non credevano che questo la rendesse
davvero
triste.
Dopotutto
era solo colpa sua se era
morta.
“Lo
so.”
Alexander
era nel giardino della villa,
accarezzava il muso del suo cavallo. Lo fissava nei profondi occhi
scuri, dolci
e mansueti. Passava la mano nella criniera, ogni tanto dava qualche
zolletta di
zucchero all’animale. Poggiò la testa su quella del
cavallo, chiudendo gli
occhi.
Odiava,
odiava se stesso quando si
comportava in quel modo. Odiava il fatto che probabilmente aveva ferito
sua
sorella ancora una volta, senza nemmeno rendersene conto. Eppure non
poteva
fare a meno di guardarla con quegli occhi, lei che gli ricordava tanto
sua
madre.
Sorrise,
sentendo come un soffio dietro
il suo collo.
“Dovresti
smetterla di arrivarmi alle
spalle cercando di non fare rumore, Maximillian.”
“Dovrei?”
Bassa
la sua voce arrivò come un
sussurro all’orecchio dell’altro. Lo scosse come un
fuscello, facendolo
tremare, appena, quasi in modo che nessuno se ne sarebbe accorto.
Ma
non Maximillian, lui sapeva benissimo
che nonostante fosse l’altro a “comandare”, ad essere
il suo padrone, quella
tra loro due era una lotta tra pari. Peccato che non ci fossero
né vincitori né
vinti. Ognuno era nelle mani dell’altro che aspettava di cadere
nella prossima
trappola, in una guerra senza fine.
Il
passo avanti di uno era il passo
indietro dell’altro.
Quando
uno si faceva avanti l’altro si
nascondeva, per vergogna, per pudore, perché semplicemente
entrambi sapevano
che di tutte le cose quella che stavano facendo loro era la più
sbagliata da
fare.
Che
gioco pericoloso era quello tra loro
due, come due funamboli nel vuoto giocavano a chi dei due sarebbe
caduto prima,
senza sapere che se cadeva uno sarebbero caduti entrambi. Da dieci anni
andava
avanti questa storia, se così la vogliamo chiamare; cose non
dette, sguardi non
visti, tocchi segreti. Senza mai spingersi oltre il baratro, senza mai
osare,
come un peccato che si ha paura di consumare non per la paura di esso,
ma per
il terrore di doverlo poi confessare.
Alexander
non si girò, rimase con gli
occhi chiusi a seguire lo sguardo dell’altro sulla sua schiena,
pur non
potendolo vedere lo sentiva come fuoco sulla sua pelle, sotto lo strato
dei
vestiti. Bruciava come un miliardo di parole rimaste sulle labbra che
nessuno
dei due aveva il coraggio di dire. Sarebbero rimasti per sempre uno
accanto all’altro
a lasciarsi consumare dalla loro stessa passione senza mai poterla
esprimere
all’altro?
Erano
davvero così codardi?
Avrebbe
voluto girarsi, poter guardare
negli occhi l’uomo che aveva davanti, avvicinarsi al suo viso,
lentamente,
respirare sulle sue labbra per poi… per poi nulla, non avrebbe
mai fatto un
passo in più su quel filo teso nel vuoto.
La
paura era troppo, troppo grande.
Se
solo si fosse avvicinato a lui avrebbe
potuto assaggiare quello che erano anni che si negava, provare il
sapore del
proibito, concedersi alla passione e al desiderio. Se solo avesse
potuto si
sarebbe concesso a quel desiderio avrebbe finalmente capito che sapore
aveva
quella bocca, che calore c’era in quell’abbraccio, avrebbe
sentito il profumo
dei suoi capelli e forse sarebbe riuscito a dirgli quello che sentiva,
quello
che gli lacerava ogni volta la carne e il cuore quando lo guardava
negli occhi.
Se
solo non avesse avuto paura di
perdere la sua ombra.
Se
solo quel corpo che si portava dietro
non fosse qualcosa di cui vergognarsi, l’eterno ragazzo, il punto
fermo nel
tempo.
Sarebbe
potuto essere sincero e se
stesso una volta tanto. Sarebbe potuto essere se stesso. Sarebbe andato
oltre
il muro, le barricate che si era costruito per proteggersi da tutti gli
altri.
Sarebbe stato coraggioso e non avesse avuto paura di perdere
l’altro.
Sarebbe,
sarebbe, sarebbe… sarebbe
caduto forse un giorno, ma non ora.
Poteva
sentire il suo naso sul proprio
collo, il respiro che scivolava sulla nuca per poi infilarsi sotto i
suoi
vestiti. Provava a resistere, continuava a mordersi il labbro e tenere
stretti
i pugni nella vana speranza di farsi forza in questo modo.
Doveva
resistere.
Maximillian
richiamò l’attenzione del
biondo, teneva un fiore nella mano, una splendida rosa. Era di un rosso
sangue,
quasi scuro. Il suo profumo era inebriante, acerbo ma ancora pieno dei
ricordi
di erba tagliata, di rugiada e gelo dei mesi precedenti.
Alexander
spalancò gli occhi, lasciando
sfuggire un flebile sorriso per poi tornare a nasconderlo subito. Non
poteva
permetterselo.
“Cos’è?”
“E’
la prima del giardino, la prima di
maggio.”
Alexander
chiuse gli occhi. No. Doveva annegare
ogni sentimento, ogni singola emozione. Non poteva permetterselo, non
lui, non
con Maximillian no. Non voleva cadere nella trappola.
Era
incredibile però come solo con lui
riuscisse a essere sincero, anche se provava a nascondere ogni cosa
alla fine
era sempre se stesso e l’altro lo sapeva. Anche se non glielo
diceva, anche se
non diceva nulla, anche se non lo guardava lui lo sapeva. Sapeva che
non era un
muro che aveva davanti, conosceva l’altro da troppo tempo ormai
per non sapere
che il viso dell’altro, anche se non lo poteva vedere, aveva un
flebile rossore
e un sorriso tenero. Anche se Alexander non avrebbe mai ammesso che se
l’era
lasciato andare.
Posò
la mano sul suo petto, sentendo che
dentro la gabbia toracica il suo cuore batteva forte.
Non
c’era bisogno di parole, bastava
anche solo questo a Maximillian. Non c’era bisogno di parole
quando le poteva
leggere nei suoi occhi e ascoltarle nel suo battito.
Erano
troppo vecchi per confessioni
melense e sdolcinate da ragazzini innamorati.
Il
biondo prese la rosa tra le mani e la
portò al viso, sentendone il flebile odore.
La prima di maggio.
Diciamocelo, come
update me la sono presa piuttosto comoda.
Non so neanche quanti anni sono passati dall'ultima volta in cui ho
messo mano a questa storia, fortuna che mi ero presa degli appunti
sui vari accadimenti e situazioni che volevo far accadere.
Ecco qua dunque in nuovo capitolo in cui impariamo a conoscere meglio i
personaggi, prometto però di essere più esplicita ed
indagare meglio su tutta la famiglia Hamilton e gli altri. Ci sono cose
che non avete capito? Qualsiasi dubbio chiedete, cercherò di
svelare i misteri nei prossimi capitoli.
Ma veniamo alla romance... vi piacciono Alexander e Maximillian? Io li adoro e spero imparerete ad amarli anche voi... vedrete, ci sono tanti segreti che nascondono... ma non svelo niente!
Spero che mi seguirete con amore, o anche solo che mi seguirete... abbiate pazienza però! Secondo voi dovrei spostare la storia nella sezione romantica? Ricordate, un commento è sempre gradito, fatemi sapere se sto andando nella giusta direzione, ma sopratutto fatemi sapere le vostre opinioni!<3