L’acqua gocciolava sempre in quel luogo.
Come in una pioggia perenne, attecchendo le ossa contratte per il gelo e per
l’umidità che gli faceva dolere il collo e le giunture.
Avanzava, con una mano a contatto con la parete ferrosa, segnando il suo
passaggio, e i suoi passi trattenuta dalle fila dell’acqua, che gli lambiva le
ginocchia.
La bestia era già sveglia, vigile. Non c’era bisogno d’evitare il suo
risveglio.
Non c’era bisogno di trattenere le sue imprecazioni seccate a quella folle
situazione.
Ed eppure, la parola ‘casa’ gli risuonava nella testa come una nenia infinita.
La bestia lo guardava.
Il figliol prodigo che tornava alla casa del padre, con la coda tra le gambe.
Se era da là che tutto proveniva, se era da là che tutto quel dolore
s’irradiava attorno al suo corpo, avrebbe dovuto fare qualcosa.
L’acqua vorticava attorno alle ginocchia in piccoli vortici, dorata e putrida,
riflettendo la sua immagine meglio di uno specchio lucidato a nuovo.
Evitava di ricambiare il suo sguardo e il suo ringhio, con quanta più
determinazione possibile. Anche se poi non aveva senso.
Lui non aveva chiesto di essere lì.
Ma se un motivo per la sua presenza c’era, era proprio lei.
-Qual buon vento ti porta, ragazzino?-
-Il solito, maledetta volpe-
Ricambiare il suo ghigno con un altrettanto spaventoso era impossibile.
Piegò il fianco, evitò di affondare ulteriormente nell’abisso vorticante su cui
si sentiva di aleggiare come un fantasma.
Non vacillava. Non era lì per chiedere prestiti, né per restituirli. Forte di
questo, quel posto non gli sembrava altro che una tappa inutile di una corsa in
salita.
-Cosa c’è, vuoi che ti paghi l’affitto, eh? Anche questa volta hai bisogno che
ci sia io a reggerti, moccioso?-
-Sto per morire-
-Probabile..- ringhiò -... il motivo per la tua presenza qui è di solito sempre
quello-
Quella consapevolezza non lo spaventò. Gli sembrò molto più naturale sorridere,
rispondere a tono alle frecciatine della sua bestia interiore, ed aspettare.
Non sentiva il reale bisogno di considerare i fatti, né di pensare seriamente a
quel che avrebbe perso, a quel che avrebbe guadagnato.
Quel limbo andava bene.
La volpe andava bene.
Una bella scodella di ramen sarebbe andata molto bene.
-E non cerchi di salvarmi?-
Il demone non era più gigantesco, come la prima volta che l’aveva visto.
Giaceva tranquillo, con la grossa e pelosa coda ripiegata sul corpo rilassato,
tentennando nell’aria e scuotendo il vapore.
Piegava le orecchie, digrignando ogni tanto i denti in lunghi e rimbombanti
sbadigli da tenore sfiatato.
-Forse, stavolta non te lo meriti-
-Già, può darsi- forse non aveva la reale consapevolezza di ciò di cui stava
parlando.
Quei rivoli d’acqua che gli accarezzavano il collo erano molto piacevoli. Ora
che ci faceva caso, in quel posto il calore era allettante e il tempo fermo.
La sua anima imbambolata era già un motivo più che sufficiente per annuire
senza troppi convenevoli, e sedersi là dove il flusso faceva intravedere il
pavimento.
-E tu moriresti con me?-
-Già-
-Non cerchi di salvarti?-
-Non voglio salvare te-
-Perché?-
Avrebbe potuto star facendo le fusa. L’idea non gli dispiaceva neanche.
Vivevano insieme da quando era nato. Sua dannazione e sua compagnia sempre e
comunque. Non le aveva mai sorriso come faceva a tutti gli altri.
Gli aveva dato molto più di quanto chiunque altro non gli avesse mai dato… ma
mai prima di allora aveva avuto l’idea di ringraziarla.
Non ricordava niente. Il momento, l’ora. Non ricordava neanche quanti anni
aveva.
Solo il suo nome, tanti nomi, tanti volti, come fantasmi vorticanti e
inconsistenti intorno a lui, e le strette del cuore che ne corrispondevano.
Poteva essere sul punto di morire a dieci anni, come a trenta. Come l’essere
ormai un Hokage vecchio e blasonato, sul suo letto di morte e la sua ferita
d’onore.
Il vuoto del suo petto non era un indizio chiaro.
-Te l’ho detto, non te lo meriti-
-Era un forse-
-Non più- altra acqua sul collo, sul petto.
-Perché?-
-Per lui-
-Lui?-
Poteva grugnire d’impazienza, ma non lo fece. Le sbarre tintinnarono e
vibrarono l’una contro l’altra, violentemente.
Quel buio, in cui viveva da un numero di anni che aveva dimenticato, gli sembro
una gabbia molto più difficile da rompere, tutt’ad un tratto.
Non poteva crederci. Osservando il pelo rossastro galleggiare nel liquido
dorato, un ringhio cupo gli risaliva la gola.
-Vuoi ancora salvarlo?-
-Si-
-Non c’è niente da cui tu debba salvarlo, moccioso-
-Si, invece-
-È per questo che non ti salvo-
Lui. Lui l’avrebbe portato alla morte. Lui lo stava già facendo morire dentro.
Lo stava facendo appassire. Sentiva pena per quel fiore rigoglioso, se ne
sentiva sciocco allo stesso tempo.
Lui era indispensabile, non poteva essere dimenticato, non poteva scomparire da
quel luogo neanche se lo si pregava.
Lui era lì, e se non ci fosse stato sarebbe stato peggio.
-Io non posso morire-
-Ah no?-
Appoggiò la fronte al ginocchio, rimanendo immobile nel centro dello strano
vortice che rendeva visibile il fondo della stanza.
L’idea di rimanere lì per sempre lo terrorizzava. L’idea di non poter più
vedere lui non poteva essere accettata senza dolore.
Improvvisamente, l’idea di lasciarsi morire era la più assurda possibile.
Semplicemente non ne aveva il diritto, non poteva. Una regola scritta da
qualche parte gli ordinava di vivere. Doveva chinare la testa, e lasciarsi andare
avanti come aveva sempre fatto. E non perché la sua vita potesse avere un
qualche valore.
Non aveva senso cambiare idea, annullare la sua prenotazione con la morte
proprio mentre aveva innalzato in aria la sua falce.
Incassando la fronte sul ginocchio appuntito, si mise ad aspettare.
Dimenticò di aver lasciato languire la conversazione. La volpe mugolò afflitta,
si raggomitolò nello spazio che gli si ristringeva attorno.
L’acqua saliva di livello, portando via il pelo scarlatto a cui teneva più
della sua stessa vita. L’aria si faceva umida e bloccava il respiro.
-Stai sanguinando dal collo, moccioso-
-È soltanto acqua-
Un ringhio di scetticismo –Tsè, se ne sei convinto-
Alzò il muso verso l’estensione infinita della stanza, di cui non si vedeva il
soffitto. Non erano mai stati tanto tempo insieme.
Non uno davanti all’altro, per lo meno. Lui aveva rovinato tutto… lui l’aveva
fatto desistere dal combattere.
Lui li aveva divisi.
-Non tornerà-
-Io non posso morire.. finché non sarà tornato-
-Non è una decisione che spetta a te.. non del tutto almeno-
Un sorriso -… scusa se non ho chiesto la tua opinione- sibilò, sarcastico.
-Non ti potrai mai liberare di me- il ragazzino rise, consapevole di qualcosa
che l’animale non sapeva.
-Neanche di lui.. se è per questo-
Annuì, inconsapevolmente, ascoltando il rumore dell’acqua che scalava le pareti
e i loro corpi.
Non avrebbe detto più nulla fino alla fine, o fino al nuovo inizio. Avrebbe
potuto farcela, anche privo del suo aiuto.
Questa consapevolezza lo fece sentire ancora più prigioniero.
Osservò la piccola macchia arancione sciogliersi negli abissi dorati.
Gli Uchiha erano proprio la loro condanna.
Salve a tutti!
Questa fic è nata in un ora di lezione e in una di completo ozio (che poi più o
meno sono la stessa cosa XD) quindi, se non è granché, non stupitevene!
Non sono molto brava nel nonsense, ma spero comunque che possiate riuscire a
dare un vostro significato.
Questo passo doveva essere contenuto molto probabilmente nella mia fic “Kuroi
ooba”, ma dato che molto probabilmente non la continuerò ho pensato di postare
questa scena come in una fic a parte, dato che ce l’avevo in testa da
tantissimo tempo.
Va buo, spero vi sia piaciuta XD
Owari.