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Autore: _Arika_    11/07/2008    17 recensioni
La storia del primo bacio tra Bulma e Vegeta, ricordata da Mirai no Bulma in un giorno di pioggia.
I tuoi passi verso al cucina erano i soli riconoscessi sempre. una cadenza come ritmica, se avessi misurato la frequenza l'avrei trovata perfetta, lo so.
Sono passati tanti anni, eppure di notte mi sembra ancora di sentirli, i tuoi passi.
La tua voce no, poco per volta sta sparendo, ma quel ticchettio è un ticchettio che non potrò dimenticare.
Sono passati tanti anni, eppure, di notte, sogno ancora di sentirli.
I tuoi passi.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bulma, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SETTEMBRE

by Chiara (lealidiicaro@libero.it O http://lantrodidedalo.iobloggo.com)



Sono passati anni, da quella sera di settembre, eppure la pioggia che ticchetta sembre la stessa di quel giorno.

Sono passati anni, diciotto, a contarli, da quella sera di settembre.

Sono passati anni, che sembrano secoli o momenti a seconda dell'umore.

Trunks ha sedici anni, e ogni giorno ti somiglia di più.

E' in camera coricato in terra, lo so, con gli occhi chiusi e le cuffie nelle orecchie. Ascolta un grupppo che non conosco e non apprezzo, di quelli rumorosi che mettono a tacere le guerre intorno.

Di quella musica che si ascolta e si dimentica. Dentro cui ci si perde, e non si pensa ai Cyborg.

Trunks ascolta musica e io sto qui in questa cucina, seduta sulla stessa sedia di quella sera.

Quando la corrente è andata via Trunks non ha detto niente. Il buio fa piacere, quando è autunno e tutto oltre che grigio è distrutto.

A tutti e due questo buio piace. A Trunks perchè fa dimenticare, a me perchè ricorda quella sera.

Sono passati anni, da quella sera di settembre.

Eppure, se guardo fuori dalla finestra, mi sembra che l'edera sulla parete del gt non sia mai cresciuta.

E che la città sia ancora tutta intera.

Era una giornata tiepida e serena. Il sole appena tramontato lasciava che gli ultimi raggi accarezzassero lentamente le foglie ormai sul punto di cadere. Era una sera magica, straordinariamente rossa e d'ambra. Ricordo i riflessi perchè tornando a casa quella sera non notai altro.

Ero a piedi, con la rabbia e la frustrazione che spingevano le mie gambe a muovere ogni passo.

-Credo sia inutile continuare a stare assieme. Lo sappiamo entrambi che non è più come prima.

L'avevo detto.

Avevo preso coraggio, ero uscita di casa ed ero andata fino a campo da baseball rigirandomi quella frase tra le dita della mente. L'avevo detto. Ma non era vero che mi sarei sentita meglio.

Lo sapevamo entrambi, io e Yamcha non eravamo più una coppia. Lo sapevamo entrambi, ma nessuno dei due voleva addossarsi la colpa di essere "il cattivo".

Lo sapevamo entrambi, ma ogni volta c'era sempre un ma...

-Non sono io che non sono più come prima, Bulma. E non guardarmi così, sai benissimo a cosa mi riferisco.

Ancora quella storia.

-Piantala con queste stronzate, Yamcha. O credi di darmi a bere che sei andato a letto con quella puttanella perchè sei geloso che io parli, e attenzioni, parli, niente di più, con Vegeta?

Perchè tu gli davi fastidio. Vegeta. Tu hai idea, di quanto Yamcha non soportasse la tua presenza.

Eppure tu eri un pretesto, un pretesto perchè usato da chi non voleva capire che ti parlavo solo se avevo bisogno.

Per dirti che uscivamo tutti tranne te, per dirti di lasciare le scarpe all'ingresso. Per dirti che se volevi il cibo era in frigo.

Ma per Yamche tu eri il pretesto di ogni cosa. Per litigare, per scoparsi un'altra, per giustificare, il fatto che si scopava un'altra.

Era sempre la stessa storia, come una canzone col repeat per giorni e mesi e settimane.

Qualche mese prima avevo creduto di essere in grado di perdonare. Avevo creduto di essere in grado di non comportarmi da Bulma Brief, una volta tanto.

Ma avevo fallito.

Miseramente, oltretutto.

Quella sera sono arrivata in cortile senza rendermene conto.

La frustrazione era diventata rabbia. Sentivo le lacrime premermi sugli occhi.

Sempre la stessa storia. E non la storia che lui mi tradiva.

La storia che io, magari, avevo pensato di tradirlo.

Pensato.

Solo pensato.

Entrai in cucina sbattendo la borsa sul divano.

L'umiliazione era una bestia esotica che non conoscevo. Non mi era mai successo, di essere umiliata.

Mi sedetti su una sedia senza accendere la luce.

Sul tavolo un post-it bianco diceva in mezzo a cuori e fiori stilizzati: "Io e papà siamo andati a cena con i Lambert. In frigo c'è lo stufato. Baci baci."

Lo stufato a settembre, come il gelato a Natale. Fuori dalla casa c'era un tempo splendido, fuori era una giornata splendida, e io riuscivo solo a pensare a quanto fosse sbagliato tutto quanto, a cominciare dallo stufato per cena a settembre.

In quella giornata tutto andava male, a cominciare dal tempo troppo bello.

Ma la notte scese in fretta, e in due ore si oscurò il cielo.

Verso le dieci cominciò a tuonare, poi a piovere.

I tuoi passi verso la cucina erano i soli riconoscessi sempre. una cadenza come ritmica, se avessi misurato la frequenza l'avrei trovata perfetta, lo so.

Sono passati tanti anni, eppure di notte mi sembra ancora di sentirli, i tuoi passi.

La tua voce no, poco per volta sta sparendo, ma quel ticchettio è un ticchettio che non potrò dimenticare.

Sono passati tanti anni, eppure, di notte, sogno ancora di sentirli.

I tuoi passi.

Lo scroscio dell'acqua copriva tutto, ogni singolo rumore, ma quando sei rientrato ti ho sentito forte e chiaro. La cadenza lenta e l'appoggio deciso sul pavimento. Il cik ciak degli stivali intrisi d'acqua e fango. Dio, quanto odiavo vederti camminare sul pavimento con gli stivali sporchi.

Ho nascosto la mano con la sigaretta in mezzo alle ginocchia, un gesto istintivo e involontario. Non avrei potevo sopportare il tuo sarcasmo, non in quella sera.

Ricordo di aver tenuto la testa china, quando sei entrato in cucina. Nel buio più totale, un lampione fuori sulla strada proiettava una lama di luce sulla mia schiena. La sigaretta bruciava lenta sotto l'incavo del mio ginocchio, speravo solo che te ne andassi.

Avevo mangiato e letto e passato l'aspirapolvere e cucinato una torta e mangiato un pezzo della torta, pur di non pensare.

Ma non ho mai sopportato la pioggia.

Avevo fatto mille cose per convincermi, ma la pioggia coglie sempre impraparati.

E quando la corrente era saltata aveva posato il piatto, mi ero seduta sulla sedia e avevo acceso una sigaretta.

Volevo solo che te ne andassi. Volevo restare sola, in quel buio, a piangere senza che nessuno lo sapesse mai.

Ma tu sei rimasto. Con noncuranza ti sei appoggiato ai fornelli proprio dietro a me. Sentivo in rumore delle tue palpebre che battevano.

-Voi donne terrestri siete proprio sciocche. Non avete paura di prendere in casa sterminatori di interi pianeti ma avete paura di parlare con uno stupido terrestre.

La tua voce dura. Quel tono di accusa, di scherno. Ti stavi divertendo, ammettilo, a vedere Bulma Brief piangere in silenzio?

Avrei voluto dirti di andare al diavolo, che non stavo piangendo, che io potevo avere uomini duecento volte migliori di Yamcha.

Avrei voluto dirti che ero forte. Che non stavo al buio per paura che qualcuno mi cogliesse in quel momento.

Eppure...

-Forse perchè voi sajan se vi scopate un'altra non date la colpa a noi che non vi capiamo.

E tu sei rimasto lì, appoggiato al quel cazzo di fornello. Le braccia conserte e gli occhi su di me.

Non m'importava di Yamcha, non me ne importava, davvero.

Stavo male per me, come sempre, stavo male per me e basta.

Perchè io non gli bastavo. Perchè dentro me sapevo che, Vegeta o non Vegeta, lui mi avrebbe tradito comunque.

L'immagine di quella diciannovenne bionda e alta come un palo della luce mi fluttuava davanti. Bella, bellissima, mortalmente stupida. Ma pur sempre bellissima.

Cos'aveva...

Lei che mi porgeva la collana impacchettata e mi dava il resto. Lei che non sapeva, chi ero io.

quelli lì...

Lei che mi salutava con il sorriso idiota di chi vede il mondo a cuori e stelle e fiori.

Cosa aveva lei più di me?

Cosa?

Volevo che mi lasciassi in pace. Che capissi che non era il momento per litigare.

Che non avevo nè la forza nè la voglia di discutere con te, Vegeta.

Volevo che capissi, e per una volta provassi pietà e mi lasciassi sola.

Ma tu sei rimasto lì, appoggiato ai fornelli, con il panino che mia madre ti aveva preparato prima di uscire in una mano. Senza mangiare, solo immobile a guardarmi.

Sentivo il tuo sguardo perforarmi la schiena.

Il rombo di un tuono mi fece sobbalzare. La mano che stringeva la sigaretta scattò verso l'alto. La parte accesa colpì la pelle nuda della coscia.

-Ah!

Ed eccole lì, le bastarde. Lacrime grandi e grondanti lungo le mie guance. Lacrime di dolore fisico e mentale. Di rabbia. Di rancore.

Lacrime di umilazione, di cocente umiliazione.

Un segno rosso e circolare pulsava sulla mia pelle ma il dolore non era nulla, in confronto a quel che avevo dentro.

Presi a frizionarmi la ferita con la frenesia di chi vuole farsi ancora più male per non sentire la ferita originaria.

Frega frega, e intanto lacrime che cadevano dalle guance sulle gambe e dalle gambe scivolavano fin sulla pelle dei sandali.

Ero patetica, a pensare che tu potessi pensare quelle lacrime fossero solo per la bruciatura, ma avevo bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi.

Ero come un guerriero nudo sul campo di battaglia. Se qualcuno mi avesse detto anche per scherzo che avevo una spada mi sarebbe andato bene.

Non avevo più nulla da perdere, l'orgoglio scivolava via in ogni nuova gocca d'acqua salata.

Ed è stato allora che ti sei staccato dai fornelli, che hai aperto la credenza e preso l'aceto. Che ti sei tolto uno dei guanti per versarti il liquido giallo su un dito.

Io piangevo e mi frizionavo la gamba come se così facendo me la fossi potuta staccare e con essa avessi potuto staccare anche il ricordo di quella puttanella alta come un palo della luce.

-Piantala di dimenarti così per un taglietto. Non ti hanno mica frustata a sangue.

A quelle parole mi sono bloccata.

Non ti hanno mica frustata...

Ti ho guardato.

Mi hai intimato di alzarmi, di girarmi e darti le spalle.

-Adesso non ti muovere. D'accordo?

Non avevo paura, lì da sola al buio con te. Uno sterminatore. Un assassino. Ma pur sempre meglio di Yamcha, pensavo in quel momento.

Ho sentito che ti chinavi sulle ginocchia in modo di avere il viso all'altezza delle mie cosce. Ho sentivo una tua mano appoggiarsi sulla pelle sopra il ginocchio per farmi cenno di divaricare leggermente le gambe.

Non avevo paura.

Non ne avevo, neanche un po'.

-Voglio solo tapparti la ferita. Quindi non pensare nemmeno di mollarmi un calcio, capito, donna?

Ho fatto cenno di sì con la testa, poi d'improvviso un dolore lacerante mi ha invaso il corpo.

Un dito intinto di aceto su una bruciatura appena fatta.

Un male che non avevo mai sentito. Il male inflitto da chi non si cura di soffrire. Da chi non sa neanche cosa sia, un'anestesia.

Non ero abituata a soffrire. Non ero abituata a non bastare a qualcuno. Non ero abituata a sentirmi in colpa.

Tutto quella giornata mi coglieva alla sprovvista.

Eppure il dolore si è placato in un momento subito. Una scarica poi più nulla.

E tu che ti alzavi di nuovo, che mi tornavi davanti, ti reinfilavi il guanto e posavi l'aceto nella credenza.

Da quanto conoscevi la credenza? Da quanto sapevi dove trovare le cose?

Da quanto ti muovevi come se fossi in casa tua?

Ti muovevi con la naturalezza del padrone di una casa. Come se fossi qui da sempre. Come un leone nel terreno attorno alla propria tana. Con una mano mi tastai la parte dietro della coscia. Una piccola bolla gialla era ora al posto della bruciatura.

-Gli acidi sono vasocostrittori, è per questo che non senti dolore.

Ti guardai senza sapere cosa dire. Non era mai successo.

Il tuo tono freddo. Come quello di chi ti ritiene troppo stupido per curarti da solo.

Come quello di un sayan verso una stupida terrestre.

Ma c'era una nota diversa, il solo fatto di avermi aiutata era stato bello.

Il solo fatto di non avermi schernito troppo. Avesti potuto fare di peggio, se avessi voluto.

Avresti potuto ridere ancora delle mie lacrime, ma non l'hai fatto, come se per una volta avessi capito il mio dolore in quel momento fosse poco per i tuoi canoni ma fin troppo per i miei.

Ti ho visto prendere il panino e fare per uscire dalla stanza.

La nostra converazione sarebbe finita lì. Forse tutto sarebbe stato diverso, se fosse finita lì.

Ma avevo bisogno di saperlo. Avevo la possibilità che aspettavo.

Avevo bisogno di capire.

-Vegeta?

Tu che ti voltavi. -Cosa?

Uno sguardo al cadavere di sigaretta sul linoleum. Poi gli occhi fissi in terra. -Tu pensi che...se fossi il mio ragazzo...mi tradiresti?

Quando le luci si abbassano le difese vanno giù, diceva una volta qualcuno.

In quell'oscrità non esistevano più Bulma Brief e Vegeta, Solo due sagome scure su uno sfondo indefinito e traballante.

Ma sentivo la domanda gravarmi addosso.

Sentivo il mio muro sgretolarsi troppo in fretta.

Non avevo avuto paura a saperti chinato con una mano tra le mie gambe, ma ora mi sentivo male.

Avevo paura di cosa avresti potuto rispondermi. Della stupidità della mia stessa domanda. Avevo paura che quella conversazione sarebbe stata ripresa, di giorno per schernirmi.

Come avresti riso. Quanto avresti riso, di me grazie a quella domanda.

Mille camice rosa non sarebbero bastate a sotterrare la vergogna. Ti avevo dato la vendetta in mano.

Ero il guerriero che ti aveva sbeffeggiato e ora stavo solo e nudo in mezzo a un campo di battaglia.

Ti avevo definito il mio ragazzo. Il mio ragazzo. Avevi sterminato migliaia di persone e io ti avevo definito ragazzo.

Come avresti potuto ridere, se solo avessi voluto.

Non quella sera non sapevo, quel che sarebbe venuto dopo.

Mi aspettavo di vederti andare via ridendo. Invece sei rientrato nella cucina. -In che senso tradirti?

Non mi aspettavo mantenessi un tono serio. Non mi aspettavo, volessi darmi una risposta.

-Nel senso di tradirmi. Andare con un'altra perchè io non sono abbastanza qualcosa.

Un respiro.

-Insomma, voglio dire...

Forza.

-...io...

No, non ce la faccio.

Di nuovo occhi a terra, Di nuovo lacrime.

-Perchè io non sono abbastanza?

Non ero abituata a soffrire. Non ero abituata a non essere abbastanza.

Non ero abituata come te, a vivere nel male.

E mi aspettavo mi avresti deriso. Mi aspettavo che mi avresti voltato le spalle come facevi sempre e te ne fossi andato.

Con quel cik ciak di stivali infangati e intrisi d'acqua e sudore. Lasciando orme che poi avrei pulito pensando a quanto fossi stata stupida.

Non mi avevi mai vista debole e insicura, mi ero imposta, che tu non mi vedessi mai debole e indifesa. Me ne ero curata, di non mostrarti mai il fianco da colpire.

Ma la pioggia è sempre la pioggia.

Quando anche il cielo piange come si fa a essere forti?

Ho continuato a fissare il pavimento e la sigaretta morta. Poi ho sentito i tuoi passi.

La tua mano che posava il panino sul lavello. Tu di fronte a me, immobile.

Ho alzato di nuovo gli occhi. Avevi un'espressione diversa. Profonda.

Per la prima volta mi sono resa conto di quel buio così avvolgente.

Tu, io, tu, immobile di fronte a me.

Per la prima volta.

Tutto quel buio.

Non dimenticherò mai quella frase.

-Il problema di voi terrestri è che vi preoccupate troppo di cosa pensano gli altri.

E poi il primo bacio. Stranamente lento e profondo. Come il fragersi di un'onda sulla battigia di una spiaggia sabbiosa.

E tutto quel buio, che di colpo diventava bello. Con le lacrime ormai asciutte, per quel contatto che era tutta la mia risposta.

-Specialmente gli insulsi terrestri.

Fuori la pioggia batte sui vetri e sull'erba del cortile. E' novembre ma sembra quella sera. La stessa luce dello stesso lampione proietta la stessa lama sulla mia schiena.

Mi alzo dalla sedia e vado alla finestra. Sono passati diciott'anni, da quella sera, eppure sembra ieri.

Lascio che il mio sguardo accarezzi quel cortile sempre uguale, che non vada oltre, verso la strada coperta di buche e i palazzi crollati in lontananza.

I cyborg sono arrivati dopo, quando la magia di quella sera aveva lasciato il posto all'indifferenza.

Quando era tornata la luce, ed eravamo tornati ad essere Bulma Brief e Vegeta, non più della sagome indistinte.

Se fossi qui in questo momento rideresti, dell'impegno che sto mettendo in quella macchina del tempo.

Mi manda avanti il pensiero, la speranza, che in una qualche dimensione resterai con me.

Che mi ringrazierai.

E in fondo avevi ragione.

Noi terrestri ci preoccupiamo troppo di quello che pensano gli altri.

Ma mi manda avanti la speranza, e il ricordo dei tuoi passi.

Mi manda avanti il ricordo, amaro e bellissimo, della sera in cui tutto è cominciato. Stranamente e d'improvviso.

Come un temporale dopo il sole di settembre.

  
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