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Autore: shinchan_    09/04/2014    1 recensioni
Aomine portò la propria mano dietro la nuca dell’altro per spingerlo a divorare quel centimetro di distanza che ancora li separava, ma Kagami non si lasciò vincere. Ciò che fece, invece, fu cingerlo in un abbraccio goffo, arruffato, vagamente impacciato: non era abituato ai contatti di quel genere, poiché quando si trattava di Aomine il modo migliore per farsi ascoltare erano le maniere forti, non c’era mai stato spazio per gli abbracci. Ma prima o poi arriva la prima occasione per tutto, giusto? Bene, quella era stata la volta del loro primo abbraccio, più simile ad una morsa letale che ad un gesto affettivo, ma era pur sempre qualcosa che Kagami regalò ad Aomine con tutto l’affetto che era capace di provare.
{One-shot AoKaga, la prima che scrivo~}
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daiki Aomine, Taiga Kagami
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eh. Eheheh. Sssalve! ... okay sono consapevole di dover assolutamente aggiornare la fanfiction MidoTaka, perdonatemi, con il Romics di mezzo ho avuto poco tempo per scrivere t__t~ mi sono dedicata giusto a questa piccola one-shot, perché desideravo da tanto poter scrivere di mio pugno qualcosa sull'AoKaga, la mia seconda OTP di KnB. Spero di non essere scaduta troppo nel fluff, dopotutto li vedo più angst che altro, peccato che io non sia molto brava a trattarlo. <<° speriamo vi piaccia!
Pairing: AoKaga (Aomine x Kagami);
Fandom: Kuroko no Basket;
Characters: Aomine Daiki, Kagami Taiga;
Raiting: verde.

improbabile ma non impossibile.

Con tutti gli angoli della stanza su cui la luce del giorno poteva decidere di andare a scontrarsi, il sole delle nove e trenta scelse il viso corrucciato di un Kagami ronfante, a metà fra uno stato di dormiveglia privo di sogni ed un risveglio assai poco piacevole dovuto all’intromissione del bagliore di luce.
Quello che emise fu un grugnito più simile ad un verso animale, prima di an
dare a girarsi su un fianco con la faccia totalmente affondata in un cuscino sbrindellato, non il proprio, bensì quello su cui avrebbe dovuto dormire il ragazzo con cui aveva condiviso il letto e la notte. Vuoto. Però era vuoto.
Perché cazzo questo cuscino fottuto è vuoto?
Non importa. Ho sonno. Voglio dormire.
E ci provò, a riprendere sonno. Si costrinse a tenere gli occhi chiusi per almeno ventisette secondi prima di strapparsi di dosso le coperte e lanciarle giù dal materasso, con uno sbuffo di fastidio incastrato nella gola come una pallina da golf.
Perché quell’idiota non era mai dove doveva essere? Che c’era d’importante da fare di primo mattino, se non starsene a letto fino a mezzogiorno? Insieme? Non che lo avrebbe mai ammesso, ma la cosa cominciava a trasformarsi in quel sassolino nella scarpa di cui era difficile liberarsi: poteva passarci sopra una volta o due, ma dopo la quarta mattina di fila che Aomine non si faceva trovare sotto le coperte dopo che gli aveva riempito il corpo di morsi e segni lividi, cominciava a irritarsi.
Che cazzo era, la sua puttana?
Una scappatella e poi via ognuno per la sua strada, sgattaiolando fuori dal proprio appartamento come un ladro non appena il cielo cominciava a rischiararsi? La prima volta che glielo fece notare, Aomine sembrava non lo avesse proprio sentito. Da quel che ricordava si limitò semplicemente a sollevare un sopracciglio in tutto il suo sarcastico cinismo, ma una risposta vera e propria non gliela diede manco a pagarlo. Fortuna che Kagami sapeva quando era meglio lasciar cadere gli argomenti spinosi prima che essi potessero tramutarsi in un litigio, così non insistette ulteriormente, ma il senso di fastidio che gli attanagliò la bocca dello stomaco persistette per tutto il giorno a venire.
La seconda volta il moro si mostrò un minimo più accondiscendente, e gli rispose semplicemente che sentiva il bisogno di andare a casa propria per farsi una doccia rinfrescante, dopo aver passato la notte fra le fiamme.
“Che cazzo, ce l’ho anche io una doccia in casa”, era stata la risposta impettita del rosso, ma anche in quell’occasione la questione venne abbandonata in una sorta di limbo indefinito, perché Kagami sapeva che quella che Aomine gli aveva dato non era una scusa degna di questo nome, ma l’irrefrenabile spinta dell’orgoglio gli impedì di comportarsi come un bimbo capriccioso e continuare a sbatterci il grugno.
Non gli avrebbe mai fatto capire quanto la cosa lo ferisse irritasse, non in questa vita.
Alla terza ed ultima occasione di cui ha memoria, invece, Aomine reagì in modo decisamente peggiore rispetto alle altre volte, perché tutto ciò che ebbe premura di fare in merito all’accusa di Kagami fu di zittirlo con un gesto impaziente della mano, andando così a gettare le fondamenta per un litigio particolarmente acceso che si raffreddò solo dopo svariati ringhi ed insulti pesanti.
Che cosa gli avrebbe detto, stavolta? “Oh Bakagami gelosone, vuoi che ti stia appiccicato al culo ogni minuto della mia giornata?”, si, probabile che avrebbe detto una cosa del genere, ed il solo pensiero fu sufficiente a far venire a Taiga la voglia di scaraventare il suo cuscino dall’altra parte della stanza.
Sbuffò.
Aomine, che palle.

Ragionare con lui era come decidere di andare a buttarsi nella gabbia dei leoni e pretendere pure che non ti mangiassero. Ogni giorno era una lotta a chi resisteva di più senza esplodere per la minima sciocchezza, ogni mattina era come se cominciasse l’ennesima e monotona prova a cui si sottoponevano per stabilire chi dei due fosse il più debole e passivo della coppia, e ci fosse stata anche solo una giornata in cui la riusciva a spuntare. In qualche modo l’aveva sempre vinta Aomine, non perché Kagami fosse un debole, ma perché riteneva più saggio concedergli quella che il moro credeva fosse una vittoria schiacciante, per poi riscattarsi una volta messo piede nel letto.
E gliene aveva fatte pagare tante.
Oh, tantissime.
Ed Aomine non se n’era mai lamentato, anzi, sembrava ci provasse un malcelato piacere intrinseco nell’essere sottomesso di violenza. Questa era una delle poche cose che stavano bene ad entrambi.
Ma se la loro doveva definirsi una relazione, allora quel cretino di un Aomine non poteva fare come gli pare. E poco importava che fosse una relazione basata sul sesso sulle scommesse sulle sfide o sull’amore, era pur sempre una relazione, e queste hanno delle regole che Kagami pretendeva venissero rispettate.
Come ad esempio, evitare di lasciarlo solo come un idiota tutte le mattine prima che si svegliasse, facendolo sentire l’ultima ruota del carro. Non gli aveva mai chiesto cosa avesse da fare di così importante da non potersi trattenere da lui per qualche ora in più, e non pretendeva nemmeno che Aomine gli desse delle spiegazioni perché oh andiamo non era sua madre, ma nelle cose che faceva avrebbe dovuto metterci almeno un minimo di tatto.

Kagami rimase ancora per qualche minuto sdraiato sul letto con il cuscino superstite premuto sulla faccia, con le braccia e le gambe allargate a stella marina per tutta la superficie del materasso. Allungò il braccio verso il comodino andando prontamente alla cieca, alla ricerca del cellulare. Magari gli aveva lasciato un messaggio. Improbabile ma non impossibile.
Si ma dove diavolo è il telefono?  Tastò la superficie di legno riuscendo a toccare di tutto meno che il telefono, finché non sentì il chiaro e fragoroso suono della lampada da tavolo che andava a frantumarsi in mille pezzi sul pavimento.
Ahia.
Bene. Un’altra lampada andata. Era la terza che faceva fuori da quando aveva intrecciato quel rapporto masochistico con Aomine, e le altre due non avevano di certo fatto una fine migliore, anzi, erano state spaccate più o meno allo stesso modo, ma per motivi differenti. Kagami si morse il labbro inferiore con forza, perché l’ultima cosa a cui voleva pensare in quel momento erano le scottanti notti brave che Aomine gli aveva regalato nelle settimane precedenti… magari ci sarebbe tornato su più tardi.
Scagliando contro il muro anche il secondo ed ultimo cuscino, Taiga si trascinò di malavoglia verso il bordo del letto sfatto, cercando di allungarsi quel tanto che bastava affinché potesse raccogliere da terra i cocci dell’oggetto infortunato, ma tutto ciò che ottenne fu di cascare sul pavimento con tutto il proprio leggiadro peso da giocatore agonistico di basket.
Prima il letto vergognosamente vuoto, poi una lampada rotta, adesso la craniata a terra.
Che dire, se quel giorno lo avesse anche investito un autobus o si fosse rotto una gamba agli allentamenti, non ne sarebbe stato stupito. Ecco, se in quel momento c’era qualcosa che avrebbe fatto volentieri  era telefonare a Midorima e farsi dire quanto alto era il tasso di sfortuna per lui oggi, e magari farsi dire pure quale eventuale lucky item comprare.
Non che credesse a queste mattate da svitati, ma a volte la forza della disperazione era più grande di qualsiasi altra cosa.

«Kagami.»

Taiga non era sicurissimo che qualcuno l’avesse effettivamente chiamato, probabilmente se l’era sognato, così non trovò nessun pretesto soddisfacente per liberarsi da quella posizione scomoda. Rimase con la faccia sul pavimento come fosse un corpo senza vita, con le gambe e parte del busto ancora sopra il materasso. Si concesse solo l’ennesimo grugnito animale che gli solleticò la gola in modo repentino,che se avesse tenuto il volto sollevato probabilmente si sarebbe trasformato in un ringhio.

«Kagami.»

Eh, no, stavolta l’aveva sentito sul serio, non se l’era sognato. Alex? No, Alex non ha la voce di un orso incazzato. Kuroko? Nemmeno Kuroko. La coach? Probabilmente se fosse stata la coach gli avrebbe tirato un pallone da basket in testa e gli avrebbe assordato le orecchie con un fischietto, dunque escluse a propri che si potesse trattare di lei.
… e allora chi diavolo è?
Kagami alzò lo sguardo da terra con un’aria stupida e confusa disegnata sul volto, i capelli spettinati, il petto livido di morsi e graffi, l’espressione di chi ancora non è pienamente consapevole di essere al mondo.
E fu così che si ritrovò faccia a faccia con l’unica persona che in quel momento avrebbe voluto vedere più di ogni altra, ma che al contempo avrebbe voluto riempire di calci e di pugni. Ringhiò nuovamente, stavolta con più enfasi, rivolgendo all’altro lo sguardo più omicida che un Kagami appena sveglio ed incazzato riuscisse a concepire.

«Kagami. Che cazzo fai.»

Aomine era sulla porta della camera da letto con le mani sui fianchi e un sopracciglio inarcato, l’espressione più ironica di sempre e gli angoli della bocca impercettibilmente sollevati verso l’alto. Gli occhi di Kagami vagarono sonnolenti sul fisico del compagno che nemmeno si preoccupò di indossare una maglietta, ma immediatamente distolse lo sguardo imbarazzato, emettendo l’ennesimo grugnito infastidito.

«Dovrei essere io a chiederlo a te, Ahomine.» borbottò il rosso, tirandosi su con tanta di quella fatica che poco ci mancava cascasse di nuovo. E che diavolo, se proprio voleva andarsene poteva avere la decenza di vestirsi prima, o no? Ecco, adesso si sentiva anche più arrabbiato di prima.

«Non sono io quello col culo per terra.» puntualizzò il moro con un sarcasmo così pungente da non poter suonare in nessun modo se non terribilmente fastidioso.
Kagami si tirò su a sedere poggiando la schiena contro il muro, con un’espressione stizzita stampata in viso ed il lenzuolo sprimacciato a coprirgli il corpo dalla vita in giù. Non è che ci fosse finito di propria volontà con la faccia sul pavimento, è stato a causa di forze maggiori, ecco, è andata esattamente così. Non che dovesse giustificarsi con quell’irritante ragazzo che adesso lo guardava con un’espressione interrogativa in viso, sempre ben accompagnata da quell’aria da perfetto stronzo che non l’abbandonava nemmeno nei loro momenti intimi. Doveva essere lui quello a guardarlo interrogativamente, non era di certo lui a dover fornire delle spiegazioni… al contrario, era Aomine che gliene doveva giusto qualcuna, e stavolta sperò che fossero esaurienti, per il suo fottuto bene.

«Beh? Quindi che ci fai qui?»

«Prima ti fai mettere sotto come una principessina durante la sua prima volta e poi mi chiedi cosa ci faccio qui, Bakagami?» fu la risposta pronta di Aomine, che prima di rivolgergli un sorriso smagliante che di simpatico non aveva niente si chiuse la porta alle spalle con fare disinvolto, appoggiandosi paziente allo stipite della porta.
Il rossore che colorò le guance di Kagami non sfuggì alla pantera in azione, che avanzò di qualche passo verso il letto stando ben attento a non calpestare i cocci di vetro con i piedi scalzi.

«Intendevo dire perché sei tornato dopo essertene andato stamattina, idiota.»

Al che successe qualcosa che Kagami non si sarebbe mai aspettato nemmeno fra vent’anni: vide per la prima volta dell’autentica confusione farsi largo sul viso cupo del compagno, andando a sostituire la sua perenne espressione arrogante e trasformandola in quella di un normale diciassettenne a cui era stata appena posta una domanda non perfettamente compresa. Per un momento gli sembrò più giovane di cinque anni, più bello, così bello da essere disarmante, “bello e dannato”. Non è così che le ragazzine definiscono i ragazzi impossibili? Ecco. Lui non era di certo una ragazzina alle prese con la prima cotta liceale, ma c’era da dire che non c’era nessun aggettivo più adatto per descrivere Aomine. Impossibile. Sia caratterialmente che fisicamente, perché non lo avrebbe mai ammesso ma non c’era davvero nessun altro corpo e nessun altro viso e nessun altro paio d’occhi felini ad essere più “belli e dannati” dei suoi.
Nel giro di una frazione di secondo si ritrovò con la schiena sbattuta violentemente contro la superficie scoperta del materasso, un terribile capogiro dovuto all’estrema velocità del gesto e lo stesso corpo che aveva appena finito di definire bello come la morte a cavalcioni sopra di sé.

«Ohi, che diavolo stai f-»

«Impulsivo e pure stupido.» gli sussurrò Aomine all’orecchio con un fil di voce, tenendo salda la stretta attorno ai suoi polsi in modo che l’altro non potesse dimenarsi. Da quella distanza poteva ammirare con soddisfazione i mosaici astratti che aveva abilmente disegnato sulla sua pelle la notte precedente, morsi, lividi, graffi, succhiotti, segni rossi. A guardarli adesso erano quasi invitanti, sembrava gli stessero chiedendo un bis. O un tris. Aomine sorrise accattivante, serrando i denti sulla pelle scoperta del collo di un Kagami per nulla contento.

«Stupido io? Sarò pure stupido, ma almeno ho la decenza di non scappare come un ladro, quando mi sveglio la mattina nel tuo letto.»

«Cosa ti fa pensare che io me ne sia andato?» soffiò Aomine contro il suo orecchio, accarezzando in punta di dita tutti i marchi ancora doloranti che aveva regalato al corpo di Kagami.
Il rosso non si sentiva per niente comodo, anzi, se avesse potuto sarebbe fuggito da quella situazione imbarazzante ancor prima di potergli rispondere, ma oltre ad essere in una posizione di netto svantaggio, sentire la voce di Aomine accarezzargli la pelle come un soffio d’aria tiepida era tanto eccitante quanto debilitante. Si sentiva inerme. Come ogni volta che veniva messo con le spalle al muro.

«Non c’eri, quando mi sono svegliato. Non è che potresti scend-»

«Quindi hai dato subito per scontato che avessi tagliato la corda.»

«Si. Ora però togliti di dos-»

«Ah. Ti sembro uno che gira per strada in mutande?»

«Aomine se non ti levi subito di dosso ti rompo quel poco di testa che hai.»

In circostanze normali il moro avrebbe colto di buon grado la provocazione del rosso e non si sarebbe spostato nemmeno di un millimetro, ma qualcosa nel tono di voce di Kagami gli suggerì di non fare troppo lo spaccone. Emettendo un verso simile ad un mix fra un sospiro di rassegnazione ed uno sbuffo, si lasciò cadere sul letto di fianco a Kagami senza la minima grazia, senza però distogliere nemmeno per un momento lo sguardo dal viso iracondo e frustrato del compagno.

«Non me n’ero andato. Ero solo sceso a fare qualcosa da mangiare, dato che appena sveglio saresti capace di divorarti una mucca. Fin quando non ho sentito un casino bestiale provenire da qui. Fine della storia. Adesso sentiti un cretino.»  

E manco a farlo apposta, Kagami si sentì un totale e completo imbecille. Probabilmente la propria espressione era abbastanza esplicativa di suo, perché sul volto di Aomine tornò a sbeffeggiare sovrano quel sorrisetto provocatorio che assumeva sempre quando sapeva di aver vinto.
Kagami non disse nulla, così come Aomine non aggiunse nient’altro. Ripensò improvvisamente a tutte le volte in cui aveva desiderato strozzarlo e poi prenderlo a pugni, a tutte le occasioni in cui la scazzottata gli era scappata sul serio, alle giornate passate a tenergli il muso perché non si sentiva abbastanza preso in considerazione, ma era troppo orgoglioso per farglielo notare. Si frequentavano da qualche mese appena e sembrava che non riuscissero ad adottare una routine costante che andasse bene ad entrambi, c’era sempre qualcosa che o per l’uno o per l’altro era sempre sbagliata, non sapeva esattamente perché, ma in quel momento pensò che dopotutto una stabilità di qualche genere l’avevano raggiunta anche loro.
Magari non incarnavano lo stereotipo della coppia innamorata del ventunesimo secolo, ma in cuor suo Kagami sapeva che non potevano essere più affiatati di quanto già non fossero, fra le loro sfide stupide e le scommesse fuori senso che alimentavano le giornate come fossero la cosa più normale del mondo, giorno dopo giorno.

Il primo ad interrompere il silenzio fu Kagami stesso, che si sciolse in un sospiro a metà fra il seccato ed il sollevato, poco prima di sporgersi verso Aomine con l’intenzione, forse, di sfiorargli le labbra con le proprie.
Ed erano lì, ad una spanna di distanza, il fiato spezzato dall’intensità del momento, i muscoli tesi. Aomine portò la propria mano dietro la nuca dell’altro per spingerlo a divorare quel centimetro di distanza che ancora li separava, ma Kagami non si lasciò vincere. Ciò che fece, invece, fu cingerlo in un abbraccio goffo, arruffato, vagamente impacciato: non era abituato ai contatti di quel genere, poiché quando si trattava di Aomine il modo migliore per farsi ascoltare erano le maniere forti, non c’era mai stato spazio per gli abbracci. Ma prima o poi c’è la prima occasione per tutto, giusto? Bene, quella era stata la volta del loro primo abbraccio, più simile ad una morsa letale che ad un gesto affettivo, ma era pur sempre qualcosa che Kagami regalò ad Aomine con tutto l’affetto che era capace di provare.

«Ehi, Bakagami. Non mi diventare una donnetta sdolcinata.»

«Per chi mi hai preso, Ahomine?» ringhiò sorridente Kagami desiderando poterlo tenere stretto in quel modo ancora per qualche secolo, giusto per far scorta per i mesi avvenire, dove l’occasione di tirar fuori un po’ di sano affetto sarà più unica che rara.
«Ma ora che ci penso…»
In un lampo Kagami saltò giù dal letto con un balzo degno di un giocatore di basket del suo calibro, atterrando fortunatamente lontano dall’ammasso di frammenti di vetro ancora tristemente abbandonati per terra.

«Scommetto che arrivo in cucina prima di te, chi si siede per primo al tavolo becca la colazione!»urlò precipitandosi in corridoio alla velocità della luce, sicuro che Aomine l’avrebbe raggiunto in un lampo.
Ed era così che andavano snodandosi le loro giornate fuori dal comune, fra un pugno, una battuta, un ringhio, una sfida ed un bacio: forse non erano una di quelle coppie che si scambiavano le chiavi di casa e si promettevano di amarsi per sempre, ma per loro era sufficiente arrivare al giorno successivo con il sorriso sulle labbra e la voglia di cimentarsi in una nuova sfida insieme,
quella che tutti quanti amavano definire una relazione.
   
 
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