Per iniziare
Sssssalve.
Siamo sempre noi, Chemical
Lady e Lechatvert!
Stavolta, siccome qualcuno ha chiesto il passato di Bea e Orso, abbiamo deciso di accontentervi accontentarci e di scrivere qualche capitolo dedicato al loro passato. Insomma, qualche delle loro piccole avventure fiorentine passate in gioventù (da qui il titolo, piccola citazione di Lorenzo de'Medici).
Non stupitevi se qualche particolare vi sfuggirà ... è tutto calcolato (?)
Infine, per chi non conoscesse questi due baldi giovani, Bea la potete conoscere qui, sotto la giurisdizione di Chemical Lady e Orso invece lo trovate qui, nelle "amorevoli" mani di Lechatvert. ♥
Che dire, di nuovo? Il resto sta tutto ai lettori.
Un abbraccio,
Chemical Lady &
Lechatvert
In arte: VandasGirls
Quant'è bella giovinezza
Firenze, 1467
«Beatrice, Beatrice! Per il Cielo che bono
c’osserva, bambina benedetta, dove ti sei
cacciata?»
Con le mani premute sopra alla bocca, così da impedire che
le risa potessero tradirla, una piccoletta dai lunghi capelli bruni,
che un tempo dovevano esser stati acconciati a dovere, se ne stava
rannicchiata sotto allo scrittoio dello studiolo, nascosta alla vista
di chiunque. Sentiva i passi di Becchi per il corridoio, marciare
avanti e indietro alla sua ricerca. Non sarebbe uscita per nulla al
mondo, a costo di saltare il pranzo se si fosse rivelato necessario. Le
lezioni mattutine di latino ed epica erano la cosa più
noiosa del mondo, per lei. Dall’alto dei suoi sette anni di
età aveva catalogato lo studio di una lingua morta e di
stupidi miti ormai giudicati come tali una perdita di tempo.
Solo quando non avvertì più nulla, ne un passo ne
una parola del povero precettore, uscì allo scoperto.
Puntellò le ginocchia a terra, sporgendosi oltre la
scrivania di lato per poter vedere se la via fosse libera. Si
spaventò a morte quando si trovò davanti il volto
roseo di un giovane ragazzo, tanto che tirò un forte urlo
che riecheggiò per tutto Palazzo de’Medici.
Suo fratello maggiore le prese il braccio, cercando di evitare i calci
che la piccola temeraria cerca di tirargli, in un misero tentativo di
fuga.
«Giuliano! No!», biascicò, quando questi
prese a tempestarle il viso di baci, tenendola stretta contro al petto.
Solo quando le leccò di netto una guancia, la piccoletta non
si trattenne più. Rise di cuore, aggrappandosi al collo del
fratello che riuscì così a sistemarla sul fianco.
«Mettimi giù! Giuliano, dai!»
«Stanno rovesciando il palazzo intero per
trovarti!», disse divertito il giovane, appoggiando la
bambina a terra e chinandosi su un ginocchio, iniziando a sistemarle il
vestitino. Quando passò ai capelli, provando a puntellare
meglio una spilla di madreperla, lui sfuggì alla sua presa,
facendolo sospirare. «Sei una peste!», le disse,
ridendo poi nel notare la sua espressione corrucciata.
«Forza, renditi presentabile! Oggi pomeriggio abbiamo ospiti
a palazzo e nostro nonno ha detto che ti vuole pronta ad
accoglierli.»
Beatrice osservò la mano che gli veniva porta, prima di
afferrarla un po’ titubante.
«Odio quando mi pettinano i capelli. La mamma mi fa male e la
balia peggio.»
«Infatti sarò io a prepararti», le disse
lui ovvio, corrucciandosi quando la vide guardarlo poco convinta.
«Pensi che non sia in grado di legarti due o tre fiocchetti
in testa?»
«Non sai nemmeno pettinarti da solo!»
La piccola rise, prima di avvicinarsi e affondare le mani nei capelli
castani del fratello. Prese poi quel gesto come una scusa per
abbracciarlo, appoggiando il capo sulla sua spalla. Il ragazzo sorrise,
portandole una mano sulla schiena per accarezzarla lentamente. Sapeva
che era nervosa. Beatrice si innervosiva sempre quando doveva conoscere
persone nuove. Era più che certo che loro madre, Lucrezia,
stesse mandando avanti una sorta di manipolazione mentale verso tutte e
quattro le sue figlie: dovevano crescere e diventare delle moglie e
delle madri di prim’ordine, così da tenere alto il
nome della casata. Peccato che Giuliano si sarebbe sempre battuto
contro qualsiasi matrimonio combinato ai danni della sorellina. Erano
ancora fermi in quella posizione, quando dei passi veloci iniziarono ad
udirsi dal pianerottolo adiacente. Ritto nella sua casacca rossa nuova,
nel tentativo di allacciare il bottone sul polso, Lorenzo avanzava
nella loro direzione.
«Oh, eccovi!», disse, mentre Giuliano si rimetteva
in piedi, prendendo la mano di Beatrice. «Giuliano, cercavo
proprio tre.»
«Cosa posso fare per voi, Lorenzo?»,
domandò il minore dei due, strizzando l’occhiolino
a Beatrice. «Oggi porteranno al nonno una di quelle orribili
bestie imbalsamate che tanto adora. Sarà il caso di tenere
lontana Beatrice?»
Giuliano sospirò.
«Il nonno mi ha appena riferito di darle una bella sistemata
e portarla da lui.»
Il rampollo dei Medici parve quasi non capire, ma poi
scrollò il capo, come se quella faccenda non lo riguardasse
in nessun modo.
«Sia, ma dopo dobbiamo parlare. Intendo partire per Roma
domani mattina. Nostro padre ha organizzato un incontro con gli Orsini
e io non intendo andare a conoscere da solo la mia futura
moglie.» Appoggiò una mano sulla spalla del
fratello, sorridendo divertito davanti alla sua evidente scocciatura.
«Tu verrai con me, Giuliano! Che lo tu voglia o
meno!»
Riprese quindi a sfrecciare per il corridoio, rivelandosi come sempre
pieno di incombenze fasulle e mosso da una fretta immotivata. Nannina
sosteneva che se si comportava così già da
allora, chissà come sarebbe diventato una volta preso il
posto di Cosimo e Piero. Fortunatamente, sembrava ancora un traguardo
lontano.
«Forza, Bea!»
Giuliano prese la bambina in braccio di nuovo, camminando verso la sua
stanza. «Andiamo a farci belli per
l’incontro!»
La piccola legò le braccia attorno al collo del fratello,
annuendo piano.
«Perché Lorenzo fa sempre
così?»
Lui parve quasi sorpreso da quella domanda.
«Così come?»
«Fa sempre finta di essere il nonno … ma non lo
è! Qualcuno dovrebbe dirglielo che i suoi pensieri non sono
interessanti.»
Piegato in due dalle risate, Giuliano dovette appoggiarsi con il fianco
alla parete accanto a lui. Beatrice non capì il
perché di tutta quell’ilarità, ma si
unì alla risata solo a guardare il volto completamente
sconvolto dall’ilarità di Giuliano. Quando
riuscì a riprendersi le scioccò un rumoroso bacio
sulla guancia, guardandola fiero mentre entravano nella stanza.
«Sorellina, vorrei vederti conservare
quest’innocenza per sempre …»
«Padre?»
Con la mano destra infilata sotto le stoffe che avvolgevano la loro
consegna, Orso sorrise, accarezzando il pelo morbido della volpe che
suo padre aveva imbalsamato tre giorni prima.
«Sembra viva!»
Senza vedere Giovanni di Vallesanta avvicinarsi, si sentì
sollevare, mentre le mani inguantate dell’uomo lo sistemavano
a terra dall’asino che trainava il loro carretto.
«È per questo, che non la si deve
toccare», lo rimproverò con tono allegro.
«Altrimenti impolvererai il pelo.»
Orso annuì, impensierendosi un poco. Suo padre gli aveva
permesso di ricucire i tagli sul corpo della volpe, gli aveva persino
insegnato a imbalsamare gli uccellini più piccoli che si
catturavano per strada, ma non l’aveva mai istruito nella
pulizia del pelo.
Doveva essere qualcosa di speciale, di complicato …
«Padre, quando mi insegnerai a pulire il pelo?»
Giovanni di Vallesanta gli strizzò l’occhio,
mentre consegnava l’asino allo stalliere e recuperava dal
loro carretto la volpe imbalsamata.
«Quando sarai in grado di cucire la pelle e quando avrai
imparato a usare il forno», gli rispose. «Ma non
temere, sei sulla strada giusta.»
Contento, Orso prese a trotterellare intorno alle gambe di suo padre.
Gli piaceva essere vezzeggiato, in qualunque occasione e in qualunque
modo. I complimenti di suo padre, poi, erano quelli che amava di
più. Erano più preziosi persino di quelli di sua
madre, che non mancava mai di elogiarlo quando lo vedeva cucire la
pelle nell’angolo più caldo della loro casa a Roma.
Anche quando Giovanni le aveva comunicato la sua intenzione di portare
il figlioletto a Firenze, lei non si era dimenticata di vezzeggiarlo
per essere cresciuto così velocemente ed essere
già pronto per un viaggio si lungo.
Quello era il suo primo incarico come imbalsamatore professionista,
aveva detto, e doveva assolutamente esserne fiero.
Saltellò ancora un po’ attorno a suo padre, mentre
questi veniva ricevuto dall’usciere e mostrava la lettera che
lo invitava a presentarsi a palazzo.
«Sono qui per vedere Cosimo», lo sentì
dire, accompagnando la sua presenza con un sorriso di sincera
serenità. «Sono Giovanni di Vallesanta,
accompagnato dal mio figlio più giovane, Orso.»
Orso si bloccò per fare un inchino leggero,
dopodiché, quando l’usciere si scostò
per permettere ai visitatori di entrare, sfrecciò sul
corridoio, arrampicandosi sulla prima scalinata che trovò a
disposizione.
Mai nella sua vita aveva visto niente di più maestoso delle
catapecchie del ghetto ebraico. Un vero palazzo, con dei veri dipinti,
con un vero scalone centrale era lontano leghe e leghe da ogni sua
più rosea fantasia.
«Orso, non ti allontanare!», lo richiamò
pacata la voce di suo padre, mentre questi si accingeva a seguirlo con
la volpe imbalsamata sotto braccio. «È facile
perdersi, ricordatelo!»
Su di giri, Orso annuì, piroettando sul corridoio del primo
piano mentre i suoi occhi passavano con foga da un dipinto
all’altro.
Amava i quadri, li aveva sempre trovati bellissimi.
Avventure in cornice, diceva suo fratello maggiore, che in chiesa non
mancava mai di istruirlo su ogni minimo dipinto biblico.
Orso imparava tutto e ascoltava in silenzio, ma nessuna scena sacra
poteva vincere un confronto con i meravigliosi dipinti e le bellissime
dame ritratte nelle cornici di quel corridoio.
Passando da un sorriso all’altro, da un fiume a delle
montagne innevate, Orso superò almeno sette porte,
sboccò su altri due corridoi, spostò almeno un
paio di tende alla ricerca di nuove visioni.
Ad ogni cornice seguiva una nuova scoperta, una nuova peripezia, una
nuova emozione che lo costringeva a spalancare la bocca dalla sorpresa.
Era così contento di poter ammirare quella bellezza che si
bloccò soltanto quando non fu più in grado di
udire i passi pesanti di suo padre alle sue spalle.
Realizzando troppo tardi cos’era accaduto, si
voltò e provò a ritrovare la strada, ma quel
luogo era un groviglio di corridoi, un nodo di stanze. Impossibile
ritrovare il percorso che aveva fatto per arrivare fin là.
Sconsolato, provò a chiamare suo padre, ma non ricevette
alcuna risposta.
Aprì allora l’ennesima porta, guardandosi intorno
con curiosità mentre i suoi passi leggeri lo precedevano tra
gli scaffali che animavano la stanza.
Tutt’attorno a lui, libri. Sopra di lui un soffitto
interamente affrescato, tanto luminoso quando maestoso nei colori
azzurri del firmamento.
Fu quello, più o meno, a consolarlo e a impedirgli di
scoppiare a piangere.
Ad un paio di porte di distanza, seduta su di un letto a baldacchino
ancora troppo grande per lei, stava Beatrice de’Medici. Stava
pettinando una delle sue molte bambole di pezza, lisciando i crini di
cavallo che componevano la capigliatura mora di Madonna Lucilla, la sua
prediletta, così come suo fratello aveva da poco terminato
di fare con i suoi. Era poi uscito, alla ricerca di una balia che
potesse indicargli dove trovare le scarpe da mettere alla sorellina,
facendole giurare di non muoversi per nessuna ragione. Peccato che
Beatrice fosse famosa per ascoltar con un orecchio e lasciar sfuggire
ogni messaggio dall’altro. Sentendo una voce invocare il nome
del padre con tanta veemenza, non aveva resistito. Era scesa dal letto,
sistemando poi il vestitino azzurro e dorato con eleganza, prima di
uscire dalle sue stanze. I piccoli piedini nudi risuonarono ad ogni
passo, mentre sbirciava di stanza in stanza cercando
l’origine di quella voce. Quando la trovò, si
sorprese non poco: davanti a lei, di spalle, c’era un bambino
tutto sporco di povere e dai vestiti lisi e sporchi. Non aveva mai
visto nessuno in quelle condizioni, eccetto i suoi fratelli di ritorno
dalla caccia o i popolani per strada. Si nascose istintivamente dietro
ad una delle molte scafallature di libri, prima di parlare con voce
piccola e intimidita.
«Chi siete? Un ladro forse? Chiamerò le guardie se
così è!»
Cercò di darsi un tono, facendo anche la voce grossa
sull’ultima frase, ma non uscì dal suo
nascondiglio.
Ancora impegnato a fissare il soffitto, Orso sobbalzò,
aprendo le mani dinanzi a sé ma non sapendo bene in che
direzione voltarsi.
«Nossignora!», esclamò, trattenendo a
stento uno strillo. «Sono un imbalsamatore!»
E, sebbene poco convinto, annuì con veemenza alle sue stesse
parole, svuotandosi le tasche per mostrare ago e filo, nel caso la voce
avesse mai dubitato della sua onestà.
Che non si dicesse in giro che lui era un disonesto, insomma, o sua
madre si sarebbe di certo adirata.
Quando finalmente riuscì a vedere il viso
dell’intruso, Beatrice poté constatarne la
sincerità; pareva spaventato, perso nei meandri di quel
enorme palazzo che lei stessa alle volte credeva di conoscere poco.
«Un imbalsamatore? Cosa fa un imbalsamatore?»,
domandò con voce un po’ incerta, uscendo dal suo
nascondiglio e guardandolo stranita. Lo studiò con
attenzione, tenendo sempre a mente le parole di Giuliano:
‘Fidarsi è bene, ma non fidarsi è
meglio. Sei una de’Medici e le persone cercheranno sempre di
portarti via da noi per chiederci dei soldi’. Quel ricordo
parve bastarle per tornare dietro alla scaffalatura. Spiò il
bambino da dietro i tomi, chinandosi su di essi mentre la
curiosità la assaliva. «Non siete un bugiardo,
vero? Mi date la vostra parola che non farete niente di male se vengo
verso di voi?»
«Avete la mia parola», confermò Orso,
rimettendo ago e filo nelle tasche dei pantaloni rattoppati sulle
ginocchia. «Perché mai dovrei farvi del
male?»
Senza neanche pensarci, fu lui stesso a muovere qualche passo verso il
nascondiglio della bambina, affacciandosi alla prima fila di libri
quasi con l’intento di sorprenderla, sebbene sapesse di
essere sotto la sua più attenta osservazione.
«Vivete qui?»
Per risposta, Beatrice levò un paio di libri, appoggiandosi
con i gomiti al ripiano di legno per poter spiare meglio gli occhi
chiari del bambino. Alle sue parole annuì, tenendosi il viso
tondo con le mani.
«Sì! Questo è il palazzo che mio nonno
ha fatto costruire per la mia famiglia!» A quelle parole si
mise diritta, mostrandosi estremamente fiera di quel particolare. Lo
guardò poi perplessa, esternando i suoi pensieri poco dopo.
«Voi da dove venite? Avete un modo buffo di parlare. Mai
sentito.»
Orso le sorrise, alzandosi sulle punte per appendersi allo scaffale
egli stesso.
«Roma», disse poi, improvvisamente timido.
«Ma ho perduto mio padre quando sono entrato in questo
palazzo.»
Nella sua ottica catastrofista e grigia, difficilmente avrebbe fatto
ritorno tra le braccia di sua madre. Molto più
probabilmente, Giovanni di Vallesanta l’avrebbe dato per
morto dopo mesi di ricerche per le stanze e sarebbe tornato a Roma a
mani vuote, causando il lutto in tutto il ghetto.
Beatrice invece sembrava molto tranquilla. Si arrampicò
sullo scaffale, scivolando oltre di esso e aggrappandosi alle spalle
magrissime di Orso per poter scendere di nuovo in terra, davanti a lui.
«So dov’è tuo padre!», disse
allegramente. «Se è arrivato ora, sarà
sicuramente nella Stanza degli Elementi. Il nonno riceve là
tutti gli ospiti.» Gli prese la mano, sorridendogli per
tranquillizzarlo, prima di fargli strada, rabbrividendo lievemente
sentendo la pavimentazione di pietra fredda contro la pelle dei suoi
piedi. «Non preoccuparti, lo troveremo subito!»
Orso scrollò le spalle, dondolando contento per un
po’.
«Grazie!», esclamò, muovendo un passo
verso la porta. «Dove bisogna andare?»
D’ora in poi, per lui, la regola sarebbe stata quella di non
allontanarsi troppo dalla guida. Davvero non aveva voglia di passare un
solo istante di più a sentirsi perso per le stanze di quel
palazzo.
«Non preoccuparti, è vicino!» La piccola
fece strada, tirandolo per la mano verso rampe di scale usate di norma
dalla servitù e corridoi più brevi. Scesero di un
paio di piani, ritrovandosi poi di nuovo nell’enorme ingresso
dove Lombardi, il paggio della casata, li guardò divertito.
«Ecco il bambino disperso!», urlò verso
il cortiletto interno, dove Dragonetti parve più scocciato
che felice di quella rivelazione. Il paggio si rivolse quindi a
Beatrice che, senza lasciare Orso, gli si avvicinò contenta.
«Lo volete condurre voi da suo padre, mia
Signorina?», le chiese, chinandosi per prendere poi un bacio
sulla guancia dalla piccola.
«Sì, farò io gli onori di
casa!», trillò allegra, prima di voltarsi verso
Orso, lasciandogli la mano solo per afferrare la gonna da entrambi i
lati e inchinarsi appena, come le aveva insegnato sua madre
«Venite messere, ci siamo quasi!» Ripresa la mano,
tornò a trotterellare lungo il corridoio, prendendo le scale
che aveva percorso Orso in precedenza, ma entrando nella grande sala
sulla destra. Lì, sotto allo sguardo degli affreschi del
Vasari, Beatrice lasciò Orso, correndo a perdifiato verso
l’uomo anziano che stava parlando con Giovanni di Vallesanta.
«Nonno!», gridò ridacchiando, mentre lui
le appoggiava una mano sul capo, permettendole di abbracciarlo. Cosimo
de’Medici sorrise amorevole alla nipotina prediletta, prima
di lanciare un occhio al giovane Orso “Come vi dicevo, mastro
di Vallesanta, mia nipote ha salvato la situazione ancora una
volta.”
Giovanni di Vallesanta annuì con un lieve inchino, prima di
chinarsi sul figlioletto che, disperato, gli era corso incontro senza
il minimo contegno.
«Che hai combinato?», gli disse, senza
però usare alcun tono di rimprovero. «Lo sai come
sono fatti i palazzi; inghiottono le persone e non le fanno
più uscire.»
Coccolato dalle carezze di suo padre, Orso sgranò gli occhi.
«Seriamente?», biascicò, spalancando la
bocca con terrore.
Giovanni annuì.
«A dir poco», confermò, mentre gli
sistemava la camicia. Alzò di poco la voce, spingendolo
verso Beatrice. «Avanti, su. Scusati con la signorina per il
disturbo che le hai recato. Scommetto che non lo hai ancora
fatto.»
Orso si sentì avvampare.
No, non aveva ancora avuto modo di scusarsi con lei. Ma
dov’erano finite, le sue buone maniere?
Cosimo scoppiò a ridere, attirando così
l’attenzione di Beatrice, che lo guardò stranita.
«Suvvia, mastro, non siate così severo con vostro
figlio. Da bambini tutti facciamo qualche sciocchezza, senza contare
che la curiosità di vostro figlio nel voler esplorare il
castello non credo sia da castigare.» Parve notare solo in
quel momento la mancanza delle scarpe della nipotina, così
sorridendole la mise a sedere sulla sua scrivania, appoggiandole poi un
dito sul naso. «Non c’è nulla che non
va, vero Beatrice?»
La piccola si limitò a scuotere il capo, sorridendo a sua
volta.
«No, mi sono divertita!»
Orso tirò fuori un piccolo sorriso, stavolta più
timido di quello con cui aveva fatto la conoscenza di Beatrice, e si
limitò a tornare al fianco di suo padre.
«Ringrazia Ser Cosimo, Orso», gli disse Giovanni,
accarezzandogli il capo con dolcezza. «Ti ha appena fatto un
complimento.»
Il bambino non se lo fece ripetere due volte.
Ben aggrappato ai pantaloni del padre, si tirò ben dritto e
gonfiò il petto, ringraziando a voce alta ed esibendosi in
un grazioso inchino che di tutto sapeva fuorché di studiato.
«Siete troppo gentile, Ser Cosimo
de’Medici», disse, scandendo bene delle parole che
non suonarono affatto sue.
Giovanni scoppiò a ridere, ma si diede immediatamente un
contegno, limitandosi a scuotere il capo con aria divertita.
Beatrice stava per domandare di quel nome che alle sue orecchie suonava
così buffo, quando la porta si aprì nuovamente e
il giovane fratello fece il suo ingresso. Giuliano la guardò
serio, prima di sospirare, alzando gli occhi e camminando trafelato
verso il nonno. Fece un piccono inchino con il capo, prima di mostrare
i sandali che teneva fra le mani, rassegnato
«Mi è sfuggita prima che potessi metterle le
scarpe, nonno.»
Il vecchio scosse il capo divertito, appoggiando una mano sul capo del
nipote e presentandolo poi «Questo è il fratello
di Lorenzo e Beatrice, Giuliano, il quale non ha ancora capito con chi
ha a che fare: deve impegnarsi parecchio per stare al passo della
nostra piccola principessa, dico bene?» domandò
poi a Beatrice, che annuì sorridente. «Loro sono
Giovanni di Vallesanta, il miglior imbalsamatore dell’Urbe, e
il suo giovane figlio Orso.»
Giuliano strinse la mano all’uomo, lanciando una breve
occhiata al bambino, prima di mettere i sandali alla sorella. Cosimo
attese la fine di quell’operazione, prima di guardare verso
la nipotina, ora presa a rimirare la volpe impagliata insieme al
fratello.
«Opera mirabile, vero? Molto più bella di quando
Lorenzo l’ha uccisa! Non vedo l’ora di fargliela
avere, credo che venti fiorini siano un prezzo troppo basso per questo
lavoro, Giovanni. Ve ne offro il doppio.»
Giovanni aprì la bocca per parlare, ma si limitò
a scuotere il capo.
«Temo di non poter accettare, mio Signore»,
rispose, visibilmente lusingato. «Ma la decisione spetta a
mio figlio; è stato lui a cucire la pelle a lavoro
ultimato.»
Orso attese di avere su di sé lo sguardo di ogni presente,
prima di parlare.
Schiuse allora le labbra, impettendosi non poco, e ponderò
attentamente la situazione.
«Trenta fiorini mi sembra ragionevole», disse
infine, decidendo di optare per’onesta una via di mezzo.
Dietro di lui, sentì suo padre sbuffare divertito.
Cosimo gli appoggiò una mano sui capelli, spettinandoli
più di quanto già non fossero.
«Un giovane molto ponderato, Giovanni. Invece di scegliere
chi dei due appoggiare, ha colto al volo la possibilità di
prendere la via intermedia. Lo stai crescendo bene.» Fece
cenno poi a Giuliano di rimettere a terra Beatrice, chinandosi quindi
su di lei. «Porta il giovane Orso sulla torre del palazzo e
mostrargli Firenze mentre noi terminiamo le contrattazioni e
assaporiamo un po’ del vino che Bacci ha mandato la scorsa
settimana.» Disse, pizzicandole un fianco per farla ridere.
Volse poi uno sguardo di intesa a Giuliano, affinché non li
perdesse di vista. «Forza! Andate! Oggi è una
così bella giornata che vedrete tutta la valle
dell’Arno sin quasi al padule!»
Orso non s’arrischiò a seguire subito Beatrice,
attendendo prima di tutto lo sguardo di suo padre che lo avrebbe
esortato a lasciarlo. Ricevuto quello, mosse un paio di passi
tentennanti verso la bambina.
Gli risuonava ancora in testa quella storia dei palazzi che ingoiano le
persone, ma non voleva mostrarsi codardo davanti ai Signori di Firenze,
perciò scacciò ogni paura e si impose di
allontanarsi con degna disinvoltura da suo padre.
Arrivare sino alla cima della torre di Palazzo Vecchio fu dura, ma
lassù la vista valse ogni sforzo. Orso si
appoggiò alla conca tra due merlature, guardando estasiato
la città dell’arte brillare sotto i raggi del
sole. Beatrice gli si affiancò, iniziando ad additare
palazzi qua e la. Il Duomo, Santa Maria Novella, Ponte
Vecchio… Tutti nomi che non sembravano voler dire nulla, ma
che erano titoli di luoghi a dir poco meravigliosi. L’Arno
riluceva maestoso alla loro sinistra, attraversando la città
e dividendola in due metà non omogenee. Appoggiato alla
porta, Giuliano li osservava divertito a braccia conserte, giudicando
sua sorella una guida più che sufficiente per il giovane
ospite.
«Non ho mai visto Roma dall’alto»,
confessò d’un tratto Orso, sentendosi
vergognosamente ignorante della sua stessa città.
«A parte il Pantheon, non saprei indicarvi alcun
palazzo.» Fece una pausa, chiamando a sé ogni sua
conoscenza in qualunque campo gli venisse in mente.
«Però so staccare le ossa dalla carne dei
maiali.»
E che quella pratica fosse tutt’altro che normale, in un
palazzo signorile, non gli importava poi molto. Dopotutto, fare a gara
con Porpora a staccare le ossa delle vertebre dei suini era il suo
passatempo preferito.
Beatrice lo guardò sorpresa, mentre Giuliano si chiedeva se
intervenire o meno. A salvare la situazione, nuovamente, ci
pensò la bambina.
«Sembra molto difficile, dovete essere un maestro
nell’arte dell’imbaltamazione!»
«Imbalsamazione, Beatrice.» La corresse il
maggiore, beccandosi come grazie una linguaccia che fece ridere
entrambi i bambini. Lui si trattenne a stento. «Orso
è un nome così strano …»
soppesò poi la piccola, «Unico! Non avevo mai
sentito nessun altro chiamarsi come voi!»
Orso alzò le spalle, completamente colto alla sprovvista da
quel commento.
«È solo il mio nome», rispose, sorpreso.
«E poi neanche io avevo mai sentito nessuno chiamarsi
Beatrice.»
Non usò un tono offeso, anche se nel profondo si
sentì un po’ toccato. Nessuno aveva mai osato
commentare il suo appellativo, neanche le massaie al mercato che
sghignazzavano paragonando la sua esile statura all’animale
di cui portava il nome.
La bambina sbuffò, incredula. «Nessuno vi ha mai
letto Dante?» chiese, come se fosse la cosa più
ridicola del mondo. Quando Orso la guardò senza capire, la
bambina sgranò gli occhi.
«Lorenzo ha ragione, Giuliano!», disse poi
esagitata, aggrappandosi al braccio del fratello. «Chi vive
fuori da Firenze è davvero ignorante! Come si fa a non
conoscere Dante Alighelli.»
«Alighieri», corresse lui, prima di ridacchiare,
cercando di quietarla. «Essendo romano, forse il nostro amico
preferisce le odi di Catullo ai versetti di Petrarca. Non credi,
Beatrice?»
Dubitava che Orso conoscesse anche solo uno di quei poeti, ma non disse
nulla per rispetto all’ospite.
Come a confermare ogni tesi di Giuliano, Orso rimase immobile con la
bocca spalancata, come se quei due stessero pronunciando una stranezza
dietro l’altra.
Suo padre glielo aveva detto, in viaggio, che i fiorentini erano gente
alquanto bizzarra. Ora ne stava avendo la conferma, seppur scioccante.
«Non conosco nessuno con questo nome», rispose,
quindi, dando un’alzata di spalle.
«Siete giovane, Orso. Avete tutto il tempo di scoprire
cos’è l’amore senza leggerlo in noiosi
versetti», rispose con tranquillità
de’Medici, mentre la sorellina lo guardava davvero
incuriosita, chiedendosi cosa il suo precettore gli avesse insegnato.
Prese la bambina per mano, prima di far segno al bambino di seguirlo.
«Vi poterò nel giardino interno, così
potrete giocare tranquilli.»
Ancora stranito da tutti quei nomi, Orso si ritrovò ad
annuire.
Seppur a malincuore, si accinse a seguire Giuliano de’Medici
sulle scale, lanciando al panorama della torre un’ultima,
nostalgica occhiata. Chissà quanto sarebbe passato, prima di
poter ammirare una città dall’alto.
Chissà se avrebbe mai avuto una seconda occasione per
trovarsi così in alto, a guardare ogni più
piccolo particolare dagli occhi di un uccello in volo.
Con un sospiro, prese la mano libera di Giuliano e si lasciò
tutto alle spalle.
Dentro di sé, non vedeva l’ora di tornare a casa
per poter raccontare tutto a sua madre, anche se l’idea di
poter tralasciare per errore qualche dettaglio lo metteva in agitazione.
Si stancò talmente
tanto, quel pomeriggio, che l’uscita dalle porte della
città fu per lui un polveroso ricordo annebbiato dal
dormiveglia.
Suo padre lo sistemò nel carro dove all’andata
avevano deposto la volpe, dopodiché lo coprì con
una coperta di lana per il freddo della notte e si mise in marcia in
silenzio, senza preoccuparsi di svegliarlo.
Nella confusione causata dalla sveglia di un sobbalzo a causa di una
buca e la voglia di rimettersi a dormire, Orso sbatté
più volte le palpebre impastate dal sonno.
Attorno a sé riconobbe il viso stanco di suo padre, alberi,
prati, ma nessuna traccia di Firenze, né di Beatrice.
Si erano lasciati tutto alle spalle, difficile dire se per un addio o
un arrivederci.
Orso non ricordava l’esatto modo in cui si erano salutati.
Serbava soltanto la memoria di molta stanchezza da parte di entrambi
dopo ore passate a rincorrersi nel cortile, dopodiché la
voce di Giuliano aveva chiamato la servitù per una coperta.
Un attimo dopo Giovanni ringraziava i de’Medici per
l’ospitalità e poi, dopo un’altra ondata
di buio, Orso giaceva nel carro.
Non era triste, però.
In un certo senso, era contento che il ricordo di quella giornata si
fermasse ai momenti felici, lasciando estranei quelli più
cupi dei saluti.
Così, a Roma, di Beatrice avrebbe raccontato il sorriso,
oppure la risata, oppure di come si fosse presentata a piedi nudi.
Avrebbe di certo raccontato a Porpora di come Firenze fosse bella vista
dall’alto, di come Cosimo l’avesse idolatrato.
Ma gli addii, quelli no, di quelli non avrebbe neanche fatto un accenno.
Forse perché non se li ricordava o forse perché,
più semplicemente, sapeva che in quel luogo, prima o poi, il
destino gli avrebbe fatto fare ritorno.