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Autore: VandasGirls    10/04/2014    2 recensioni
Si nascose istintivamente dietro ad una delle molte scafallature di libri, prima di parlare con voce piccola e intimidita.
«Chi siete? Un ladro forse? Chiamerò le guardie se così è!» Cercò di darsi un tono, facendo anche la voce grossa sull’ultima frase, ma non uscì dal suo nascondiglio.
Ancora impegnato a fissare il soffitto, Orso sobbalzò, aprendo le mani dinanzi a sé ma non sapendo bene in che direzione voltarsi.
«Nossignora!», esclamò, trattenendo a stento uno strillo. «Sono un imbalsamatore!»

Prima che l'avvetura cominciasse, c'erano due ragazzini in vena di avventure. Prima della Contessa, c'era chi agognava la libertà, anche solo per un giorno, anche solo per assaporarne l'effimera essenza.
Genere: Avventura, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Capitano Dragonetti, Giuliano Medici, Lorenzo Medici, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Per iniziare


Sssssalve.
Siamo sempre noi, Chemical Lady e Lechatvert!

Stavolta, siccome qualcuno ha chiesto il passato di Bea e Orso, abbiamo deciso di accontentervi accontentarci e di scrivere qualche capitolo dedicato al loro passato. Insomma, qualche delle loro piccole avventure fiorentine passate in gioventù (da qui il titolo, piccola citazione di Lorenzo de'Medici).

Non stupitevi se qualche particolare vi sfuggirà ... è tutto calcolato (?)

Infine, per chi non conoscesse questi due baldi giovani, Bea la potete conoscere qui, sotto la giurisdizione di Chemical Lady e Orso invece lo trovate qui, nelle "amorevoli" mani di Lechatvert. ♥

Che dire, di nuovo? Il resto sta tutto ai lettori.


Un abbraccio,
Chemical Lady & Lechatvert
In arte: VandasGirls






Quant'è bella giovinezza

Prologo







Firenze, 1467


«Beatrice, Beatrice! Per il Cielo che bono c’osserva, bambina benedetta, dove ti sei cacciata?»
Con le mani premute sopra alla bocca, così da impedire che le risa potessero tradirla, una piccoletta dai lunghi capelli bruni, che un tempo dovevano esser stati acconciati a dovere, se ne stava rannicchiata sotto allo scrittoio dello studiolo, nascosta alla vista di chiunque. Sentiva i passi di Becchi per il corridoio, marciare avanti e indietro alla sua ricerca. Non sarebbe uscita per nulla al mondo, a costo di saltare il pranzo se si fosse rivelato necessario. Le lezioni mattutine di latino ed epica erano la cosa più noiosa del mondo, per lei. Dall’alto dei suoi sette anni di età aveva catalogato lo studio di una lingua morta e di stupidi miti ormai giudicati come tali una perdita di tempo.
Solo quando non avvertì più nulla, ne un passo ne una parola del povero precettore, uscì allo scoperto. Puntellò le ginocchia a terra, sporgendosi oltre la scrivania di lato per poter vedere se la via fosse libera. Si spaventò a morte quando si trovò davanti il volto roseo di un giovane ragazzo, tanto che tirò un forte urlo che riecheggiò per tutto Palazzo de’Medici.
Suo fratello maggiore le prese il braccio, cercando di evitare i calci che la piccola temeraria cerca di tirargli, in un misero tentativo di fuga.
«Giuliano! No!», biascicò, quando questi prese a tempestarle il viso di baci, tenendola stretta contro al petto. Solo quando le leccò di netto una guancia, la piccoletta non si trattenne più. Rise di cuore, aggrappandosi al collo del fratello che riuscì così a sistemarla sul fianco. «Mettimi giù! Giuliano, dai!»
«Stanno rovesciando il palazzo intero per trovarti!», disse divertito il giovane, appoggiando la bambina a terra e chinandosi su un ginocchio, iniziando a sistemarle il vestitino. Quando passò ai capelli, provando a puntellare meglio una spilla di madreperla, lui sfuggì alla sua presa, facendolo sospirare. «Sei una peste!», le disse, ridendo poi nel notare la sua espressione corrucciata. «Forza, renditi presentabile! Oggi pomeriggio abbiamo ospiti a palazzo e nostro nonno ha detto che ti vuole pronta ad accoglierli.»
Beatrice osservò la mano che gli veniva porta, prima di afferrarla un po’ titubante.
«Odio quando mi pettinano i capelli. La mamma mi fa male e la balia peggio.»
«Infatti sarò io a prepararti», le disse lui ovvio, corrucciandosi quando la vide guardarlo poco convinta. «Pensi che non sia in grado di legarti due o tre fiocchetti in testa?»
«Non sai nemmeno pettinarti da solo!»
La piccola rise, prima di avvicinarsi e affondare le mani nei capelli castani del fratello. Prese poi quel gesto come una scusa per abbracciarlo, appoggiando il capo sulla sua spalla. Il ragazzo sorrise, portandole una mano sulla schiena per accarezzarla lentamente. Sapeva che era nervosa. Beatrice si innervosiva sempre quando doveva conoscere persone nuove. Era più che certo che loro madre, Lucrezia, stesse mandando avanti una sorta di manipolazione mentale verso tutte e quattro le sue figlie: dovevano crescere e diventare delle moglie e delle madri di prim’ordine, così da tenere alto il nome della casata. Peccato che Giuliano si sarebbe sempre battuto contro qualsiasi matrimonio combinato ai danni della sorellina. Erano ancora fermi in quella posizione, quando dei passi veloci iniziarono ad udirsi dal pianerottolo adiacente. Ritto nella sua casacca rossa nuova, nel tentativo di allacciare il bottone sul polso, Lorenzo avanzava nella loro direzione.
«Oh, eccovi!», disse, mentre Giuliano si rimetteva in piedi, prendendo la mano di Beatrice. «Giuliano, cercavo proprio tre.»
«Cosa posso fare per voi, Lorenzo?», domandò il minore dei due, strizzando l’occhiolino a Beatrice. «Oggi porteranno al nonno una di quelle orribili bestie imbalsamate che tanto adora. Sarà il caso di tenere lontana Beatrice?»
Giuliano sospirò.
«Il nonno mi ha appena riferito di darle una bella sistemata e portarla da lui.»
Il rampollo dei Medici parve quasi non capire, ma poi scrollò il capo, come se quella faccenda non lo riguardasse in nessun modo.
«Sia, ma dopo dobbiamo parlare. Intendo partire per Roma domani mattina. Nostro padre ha organizzato un incontro con gli Orsini e io non intendo andare a conoscere da solo la mia futura moglie.» Appoggiò una mano sulla spalla del fratello, sorridendo divertito davanti alla sua evidente scocciatura. «Tu verrai con me, Giuliano! Che lo tu voglia o meno!»
Riprese quindi a sfrecciare per il corridoio, rivelandosi come sempre pieno di incombenze fasulle e mosso da una fretta immotivata. Nannina sosteneva che se si comportava così già da allora, chissà come sarebbe diventato una volta preso il posto di Cosimo e Piero. Fortunatamente, sembrava ancora un traguardo lontano.
«Forza, Bea!»
Giuliano prese la bambina in braccio di nuovo, camminando verso la sua stanza. «Andiamo a farci belli per l’incontro!»
La piccola legò le braccia attorno al collo del fratello, annuendo piano.
«Perché Lorenzo fa sempre così?»
 Lui parve quasi sorpreso da quella domanda.
«Così come?»
«Fa sempre finta di essere il nonno … ma non lo è! Qualcuno dovrebbe dirglielo che i suoi pensieri non sono interessanti.»
Piegato in due dalle risate, Giuliano dovette appoggiarsi con il fianco alla parete accanto a lui. Beatrice non capì il perché di tutta quell’ilarità, ma si unì alla risata solo a guardare il volto completamente sconvolto dall’ilarità di Giuliano. Quando riuscì a riprendersi le scioccò un rumoroso bacio sulla guancia, guardandola fiero mentre entravano nella stanza.
«Sorellina, vorrei vederti conservare quest’innocenza per sempre …»






«Padre?»
Con la mano destra infilata sotto le stoffe che avvolgevano la loro consegna, Orso sorrise, accarezzando il pelo morbido della volpe che suo padre aveva imbalsamato tre giorni prima.
«Sembra viva!»
Senza vedere Giovanni di Vallesanta avvicinarsi, si sentì sollevare, mentre le mani inguantate dell’uomo lo sistemavano a terra dall’asino che trainava il loro carretto.
«È per questo, che non la si deve toccare», lo rimproverò con tono allegro. «Altrimenti impolvererai il pelo.»
Orso annuì, impensierendosi un poco. Suo padre gli aveva permesso di ricucire i tagli sul corpo della volpe, gli aveva persino insegnato a imbalsamare gli uccellini più piccoli che si catturavano per strada, ma non l’aveva mai istruito nella pulizia del pelo.
Doveva essere qualcosa di speciale, di complicato …
«Padre, quando mi insegnerai a pulire il pelo?»
Giovanni di Vallesanta gli strizzò l’occhio, mentre consegnava l’asino allo stalliere e recuperava dal loro carretto la volpe imbalsamata.
«Quando sarai in grado di cucire la pelle e quando avrai imparato a usare il forno», gli rispose. «Ma non temere, sei sulla strada giusta.»
Contento, Orso prese a trotterellare intorno alle gambe di suo padre. Gli piaceva essere vezzeggiato, in qualunque occasione e in qualunque modo. I complimenti di suo padre, poi, erano quelli che amava di più. Erano più preziosi persino di quelli di sua madre, che non mancava mai di elogiarlo quando lo vedeva cucire la pelle nell’angolo più caldo della loro casa a Roma.
Anche quando Giovanni le aveva comunicato la sua intenzione di portare il figlioletto a Firenze, lei non si era dimenticata di vezzeggiarlo per essere cresciuto così velocemente ed essere già pronto per un viaggio si lungo.
Quello era il suo primo incarico come imbalsamatore professionista, aveva detto, e doveva assolutamente esserne fiero.
Saltellò ancora un po’ attorno a suo padre, mentre questi veniva ricevuto dall’usciere e mostrava la lettera che lo invitava a presentarsi a palazzo.
«Sono qui per vedere Cosimo», lo sentì dire, accompagnando la sua presenza con un sorriso di sincera serenità. «Sono Giovanni di Vallesanta, accompagnato dal mio figlio più giovane, Orso.»
Orso si bloccò per fare un inchino leggero, dopodiché, quando l’usciere si scostò per permettere ai visitatori di entrare, sfrecciò sul corridoio, arrampicandosi sulla prima scalinata che trovò a disposizione.
Mai nella sua vita aveva visto niente di più maestoso delle catapecchie del ghetto ebraico. Un vero palazzo, con dei veri dipinti, con un vero scalone centrale era lontano leghe e leghe da ogni sua più rosea fantasia.
«Orso, non ti allontanare!», lo richiamò pacata la voce di suo padre, mentre questi si accingeva a seguirlo con la volpe imbalsamata sotto braccio. «È facile perdersi, ricordatelo!»
Su di giri, Orso annuì, piroettando sul corridoio del primo piano mentre i suoi occhi passavano con foga da un dipinto all’altro.
Amava i quadri, li aveva sempre trovati bellissimi.
Avventure in cornice, diceva suo fratello maggiore, che in chiesa non mancava mai di istruirlo su ogni minimo dipinto biblico.
Orso imparava tutto e ascoltava in silenzio, ma nessuna scena sacra poteva vincere un confronto con i meravigliosi dipinti e le bellissime dame ritratte nelle cornici di quel corridoio.
Passando da un sorriso all’altro, da un fiume a delle montagne innevate, Orso superò almeno sette porte, sboccò su altri due corridoi, spostò almeno un paio di tende alla ricerca di nuove visioni.
Ad ogni cornice seguiva una nuova scoperta, una nuova peripezia, una nuova emozione che lo costringeva a spalancare la bocca dalla sorpresa.
Era così contento di poter ammirare quella bellezza che si bloccò soltanto quando non fu più in grado di udire i passi pesanti di suo padre alle sue spalle.
Realizzando troppo tardi cos’era accaduto, si voltò e provò a ritrovare la strada, ma quel luogo era un groviglio di corridoi, un nodo di stanze. Impossibile ritrovare il percorso che aveva fatto per arrivare fin là.
Sconsolato, provò a chiamare suo padre, ma non ricevette alcuna risposta.
Aprì allora l’ennesima porta, guardandosi intorno con curiosità mentre i suoi passi leggeri lo precedevano tra gli scaffali che animavano la stanza.
Tutt’attorno a lui, libri. Sopra di lui un soffitto interamente affrescato, tanto luminoso quando maestoso nei colori azzurri del firmamento.
Fu quello, più o meno, a consolarlo e a impedirgli di scoppiare a piangere.
Ad un paio di porte di distanza, seduta su di un letto a baldacchino ancora troppo grande per lei, stava Beatrice de’Medici. Stava pettinando una delle sue molte bambole di pezza, lisciando i crini di cavallo che componevano la capigliatura mora di Madonna Lucilla, la sua prediletta, così come suo fratello aveva da poco terminato di fare con i suoi. Era poi uscito, alla ricerca di una balia che potesse indicargli dove trovare le scarpe da mettere alla sorellina, facendole giurare di non muoversi per nessuna ragione. Peccato che Beatrice fosse famosa per ascoltar con un orecchio e lasciar sfuggire ogni messaggio dall’altro. Sentendo una voce invocare il nome del padre con tanta veemenza, non aveva resistito. Era scesa dal letto, sistemando poi il vestitino azzurro e dorato con eleganza, prima di uscire dalle sue stanze. I piccoli piedini nudi risuonarono ad ogni passo, mentre sbirciava di stanza in stanza cercando l’origine di quella voce. Quando la trovò, si sorprese non poco: davanti a lei, di spalle, c’era un bambino tutto sporco di povere e dai vestiti lisi e sporchi. Non aveva mai visto nessuno in quelle condizioni, eccetto i suoi fratelli di ritorno dalla caccia o i popolani per strada. Si nascose istintivamente dietro ad una delle molte scafallature di libri, prima di parlare con voce piccola e intimidita.
«Chi siete? Un ladro forse? Chiamerò le guardie se così è!»
Cercò di darsi un tono, facendo anche la voce grossa sull’ultima frase, ma non uscì dal suo nascondiglio.
Ancora impegnato a fissare il soffitto, Orso sobbalzò, aprendo le mani dinanzi a sé ma non sapendo bene in che direzione voltarsi.
«Nossignora!», esclamò, trattenendo a stento uno strillo. «Sono un imbalsamatore!»
E, sebbene poco convinto, annuì con veemenza alle sue stesse parole, svuotandosi le tasche per mostrare ago e filo, nel caso la voce avesse mai dubitato della sua onestà.
Che non si dicesse in giro che lui era un disonesto, insomma, o sua madre si sarebbe di certo adirata.
Quando finalmente riuscì a vedere il viso dell’intruso, Beatrice poté constatarne la sincerità; pareva spaventato, perso nei meandri di quel enorme palazzo che lei stessa alle volte credeva di conoscere poco.
«Un imbalsamatore? Cosa fa un imbalsamatore?», domandò con voce un po’ incerta, uscendo dal suo nascondiglio e guardandolo stranita. Lo studiò con attenzione, tenendo sempre a mente le parole di Giuliano: ‘Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio. Sei una de’Medici e le persone cercheranno sempre di portarti via da noi per chiederci dei soldi’. Quel ricordo parve bastarle per tornare dietro alla scaffalatura. Spiò il bambino da dietro i tomi, chinandosi su di essi mentre la curiosità la assaliva. «Non siete un bugiardo, vero? Mi date la vostra parola che non farete niente di male se vengo verso di voi?»
«Avete la mia parola», confermò Orso, rimettendo ago e filo nelle tasche dei pantaloni rattoppati sulle ginocchia. «Perché mai dovrei farvi del male?»
Senza neanche pensarci, fu lui stesso a muovere qualche passo verso il nascondiglio della bambina, affacciandosi alla prima fila di libri quasi con l’intento di sorprenderla, sebbene sapesse di essere sotto la sua più attenta osservazione.
«Vivete qui?»
Per risposta, Beatrice levò un paio di libri, appoggiandosi con i gomiti al ripiano di legno per poter spiare meglio gli occhi chiari del bambino. Alle sue parole annuì, tenendosi il viso tondo con le mani.
«Sì! Questo è il palazzo che mio nonno ha fatto costruire per la mia famiglia!» A quelle parole si mise diritta, mostrandosi estremamente fiera di quel particolare. Lo guardò poi perplessa, esternando i suoi pensieri poco dopo. «Voi da dove venite? Avete un modo buffo di parlare. Mai sentito.»
Orso le sorrise, alzandosi sulle punte per appendersi allo scaffale egli stesso.
«Roma», disse poi, improvvisamente timido. «Ma ho perduto mio padre quando sono entrato in questo palazzo.»
Nella sua ottica catastrofista e grigia, difficilmente avrebbe fatto ritorno tra le braccia di sua madre. Molto più probabilmente, Giovanni di Vallesanta l’avrebbe dato per morto dopo mesi di ricerche per le stanze e sarebbe tornato a Roma a mani vuote, causando il lutto in tutto il ghetto.
Beatrice invece sembrava molto tranquilla. Si arrampicò sullo scaffale, scivolando oltre di esso e aggrappandosi alle spalle magrissime di Orso per poter scendere di nuovo in terra, davanti a lui. «So dov’è tuo padre!», disse allegramente. «Se è arrivato ora, sarà sicuramente nella Stanza degli Elementi. Il nonno riceve là tutti gli ospiti.» Gli prese la mano, sorridendogli per tranquillizzarlo, prima di fargli strada, rabbrividendo lievemente sentendo la pavimentazione di pietra fredda contro la pelle dei suoi piedi. «Non preoccuparti, lo troveremo subito!»
Orso scrollò le spalle, dondolando contento per un po’.
«Grazie!», esclamò, muovendo un passo verso la porta. «Dove bisogna andare?»
D’ora in poi, per lui, la regola sarebbe stata quella di non allontanarsi troppo dalla guida. Davvero non aveva voglia di passare un solo istante di più a sentirsi perso per le stanze di quel palazzo.
«Non preoccuparti, è vicino!» La piccola fece strada, tirandolo per la mano verso rampe di scale usate di norma dalla servitù e corridoi più brevi. Scesero di un paio di piani, ritrovandosi poi di nuovo nell’enorme ingresso dove Lombardi, il paggio della casata, li guardò divertito.
«Ecco il bambino disperso!», urlò verso il cortiletto interno, dove Dragonetti parve più scocciato che felice di quella rivelazione. Il paggio si rivolse quindi a Beatrice che, senza lasciare Orso, gli si avvicinò contenta.
«Lo volete condurre voi da suo padre, mia Signorina?», le chiese, chinandosi per prendere poi un bacio sulla guancia dalla piccola.
«Sì, farò io gli onori di casa!», trillò allegra, prima di voltarsi verso Orso, lasciandogli la mano solo per afferrare la gonna da entrambi i lati e inchinarsi appena, come le aveva insegnato sua madre «Venite messere, ci siamo quasi!» Ripresa la mano, tornò a trotterellare lungo il corridoio, prendendo le scale che aveva percorso Orso in precedenza, ma entrando nella grande sala sulla destra. Lì, sotto allo sguardo degli affreschi del Vasari, Beatrice lasciò Orso, correndo a perdifiato verso l’uomo anziano che stava parlando con Giovanni di Vallesanta.
«Nonno!», gridò ridacchiando, mentre lui le appoggiava una mano sul capo, permettendole di abbracciarlo. Cosimo de’Medici sorrise amorevole alla nipotina prediletta, prima di lanciare un occhio al giovane Orso “Come vi dicevo, mastro di Vallesanta, mia nipote ha salvato la situazione ancora una volta.”
Giovanni di Vallesanta annuì con un lieve inchino, prima di chinarsi sul figlioletto che, disperato, gli era corso incontro senza il minimo contegno.
«Che hai combinato?», gli disse, senza però usare alcun tono di rimprovero. «Lo sai come sono fatti i palazzi; inghiottono le persone e non le fanno più uscire.»
Coccolato dalle carezze di suo padre, Orso sgranò gli occhi.
«Seriamente?», biascicò, spalancando la bocca con terrore.
Giovanni annuì.
«A dir poco», confermò, mentre gli sistemava la camicia. Alzò di poco la voce, spingendolo verso Beatrice. «Avanti, su. Scusati con la signorina per il disturbo che le hai recato. Scommetto che non lo hai ancora fatto.»
Orso si sentì avvampare.
No, non aveva ancora avuto modo di scusarsi con lei. Ma dov’erano finite, le sue buone maniere?
Cosimo scoppiò a ridere, attirando così l’attenzione di Beatrice, che lo guardò stranita.
«Suvvia, mastro, non siate così severo con vostro figlio. Da bambini tutti facciamo qualche sciocchezza, senza contare che la curiosità di vostro figlio nel voler esplorare il castello non credo sia da castigare.» Parve notare solo in quel momento la mancanza delle scarpe della nipotina, così sorridendole la mise a sedere sulla sua scrivania, appoggiandole poi un dito sul naso. «Non c’è nulla che non va, vero Beatrice?»
La piccola si limitò a scuotere il capo, sorridendo a sua volta.
«No, mi sono divertita!»
Orso tirò fuori un piccolo sorriso, stavolta più timido di quello con cui aveva fatto la conoscenza di Beatrice, e si limitò a tornare al fianco di suo padre.
«Ringrazia Ser Cosimo, Orso», gli disse Giovanni, accarezzandogli il capo con dolcezza. «Ti ha appena fatto un complimento.»
Il bambino non se lo fece ripetere due volte.
Ben aggrappato ai pantaloni del padre, si tirò ben dritto e gonfiò il petto, ringraziando a voce alta ed esibendosi in un grazioso inchino che di tutto sapeva fuorché di studiato.
«Siete troppo gentile, Ser Cosimo de’Medici», disse, scandendo bene delle parole che non suonarono affatto sue.
Giovanni scoppiò a ridere, ma si diede immediatamente un contegno, limitandosi a scuotere il capo con aria divertita.
Beatrice stava per domandare di quel nome che alle sue orecchie suonava così buffo, quando la porta si aprì nuovamente e il giovane fratello fece il suo ingresso. Giuliano la guardò serio, prima di sospirare, alzando gli occhi e camminando trafelato verso il nonno. Fece un piccono inchino con il capo, prima di mostrare i sandali che teneva fra le mani, rassegnato
«Mi è sfuggita prima che potessi metterle le scarpe, nonno.»
Il vecchio scosse il capo divertito, appoggiando una mano sul capo del nipote e presentandolo poi «Questo è il fratello di Lorenzo e Beatrice, Giuliano, il quale non ha ancora capito con chi ha a che fare: deve impegnarsi parecchio per stare al passo della nostra piccola principessa, dico bene?» domandò poi a Beatrice, che annuì sorridente. «Loro sono Giovanni di Vallesanta, il miglior imbalsamatore dell’Urbe, e il suo giovane figlio Orso.»
Giuliano strinse la mano all’uomo, lanciando una breve occhiata al bambino, prima di mettere i sandali alla sorella. Cosimo attese la fine di quell’operazione, prima di guardare verso la nipotina, ora presa a rimirare la volpe impagliata insieme al fratello.
«Opera mirabile, vero? Molto più bella di quando Lorenzo l’ha uccisa! Non vedo l’ora di fargliela avere, credo che venti fiorini siano un prezzo troppo basso per questo lavoro, Giovanni. Ve ne offro il doppio.»
Giovanni aprì la bocca per parlare, ma si limitò a scuotere il capo.
«Temo di non poter accettare, mio Signore», rispose, visibilmente lusingato. «Ma la decisione spetta a mio figlio; è stato lui a cucire la pelle a lavoro ultimato.»
Orso attese di avere su di sé lo sguardo di ogni presente, prima di parlare.
Schiuse allora le labbra, impettendosi non poco, e ponderò attentamente la situazione.
«Trenta fiorini mi sembra ragionevole», disse infine, decidendo di optare per’onesta una via di mezzo.
Dietro di lui, sentì suo padre sbuffare divertito.
Cosimo gli appoggiò una mano sui capelli, spettinandoli più di quanto già non fossero.
«Un giovane molto ponderato, Giovanni. Invece di scegliere chi dei due appoggiare, ha colto al volo la possibilità di prendere la via intermedia. Lo stai crescendo bene.» Fece cenno poi a Giuliano di rimettere a terra Beatrice, chinandosi quindi su di lei. «Porta il giovane Orso sulla torre del palazzo e mostrargli Firenze mentre noi terminiamo le contrattazioni e assaporiamo un po’ del vino che Bacci ha mandato la scorsa settimana.» Disse, pizzicandole un fianco per farla ridere. Volse poi uno sguardo di intesa a Giuliano, affinché non li perdesse di vista. «Forza! Andate! Oggi è una così bella giornata che vedrete tutta la valle dell’Arno sin quasi al padule!»
Orso non s’arrischiò a seguire subito Beatrice, attendendo prima di tutto lo sguardo di suo padre che lo avrebbe esortato a lasciarlo. Ricevuto quello, mosse un paio di passi tentennanti verso la bambina.
Gli risuonava ancora in testa quella storia dei palazzi che ingoiano le persone, ma non voleva mostrarsi codardo davanti ai Signori di Firenze, perciò scacciò ogni paura e si impose di allontanarsi con degna disinvoltura da suo padre.
Arrivare sino alla cima della torre di Palazzo Vecchio fu dura, ma lassù la vista valse ogni sforzo. Orso si appoggiò alla conca tra due merlature, guardando estasiato la città dell’arte brillare sotto i raggi del sole. Beatrice gli si affiancò, iniziando ad additare palazzi qua e la. Il Duomo, Santa Maria Novella, Ponte Vecchio… Tutti nomi che non sembravano voler dire nulla, ma che erano titoli di luoghi a dir poco meravigliosi. L’Arno riluceva maestoso alla loro sinistra, attraversando la città e dividendola in due metà non omogenee. Appoggiato alla porta, Giuliano li osservava divertito a braccia conserte, giudicando sua sorella una guida più che sufficiente per il giovane ospite.
«Non ho mai visto Roma dall’alto», confessò d’un tratto Orso, sentendosi vergognosamente ignorante della sua stessa città. «A parte il Pantheon, non saprei indicarvi alcun palazzo.» Fece una pausa, chiamando a sé ogni sua conoscenza in qualunque campo gli venisse in mente. «Però so staccare le ossa dalla carne dei maiali.»
E che quella pratica fosse tutt’altro che normale, in un palazzo signorile, non gli importava poi molto. Dopotutto, fare a gara con Porpora a staccare le ossa delle vertebre dei suini era il suo passatempo preferito.
Beatrice lo guardò sorpresa, mentre Giuliano si chiedeva se intervenire o meno. A salvare la situazione, nuovamente, ci pensò la bambina.
«Sembra molto difficile, dovete essere un maestro nell’arte dell’imbaltamazione!»
«Imbalsamazione, Beatrice.» La corresse il maggiore, beccandosi come grazie una linguaccia che fece ridere entrambi i bambini. Lui si trattenne a stento. «Orso è un nome così strano …» soppesò poi la piccola, «Unico! Non avevo mai sentito nessun altro chiamarsi come voi!»
Orso alzò le spalle, completamente colto alla sprovvista da quel commento.
«È solo il mio nome», rispose, sorpreso. «E poi neanche io avevo mai sentito nessuno chiamarsi Beatrice.»
Non usò un tono offeso, anche se nel profondo si sentì un po’ toccato. Nessuno aveva mai osato commentare il suo appellativo, neanche le massaie al mercato che sghignazzavano paragonando la sua esile statura all’animale di cui portava il nome.
La bambina sbuffò, incredula. «Nessuno vi ha mai letto Dante?» chiese, come se fosse la cosa più ridicola del mondo. Quando Orso la guardò senza capire, la bambina sgranò gli occhi.
«Lorenzo ha ragione, Giuliano!», disse poi esagitata, aggrappandosi al braccio del fratello. «Chi vive fuori da Firenze è davvero ignorante! Come si fa a non conoscere Dante Alighelli.»
«Alighieri», corresse lui, prima di ridacchiare, cercando di quietarla. «Essendo romano, forse il nostro amico preferisce le odi di Catullo ai versetti di Petrarca. Non credi, Beatrice?»
Dubitava che Orso conoscesse anche solo uno di quei poeti, ma non disse nulla per rispetto all’ospite.
Come a confermare ogni tesi di Giuliano, Orso rimase immobile con la bocca spalancata, come se quei due stessero pronunciando una stranezza dietro l’altra.
Suo padre glielo aveva detto, in viaggio, che i fiorentini erano gente alquanto bizzarra. Ora ne stava avendo la conferma, seppur scioccante.
«Non conosco nessuno con questo nome», rispose, quindi, dando un’alzata di spalle.
«Siete giovane, Orso. Avete tutto il tempo di scoprire cos’è l’amore senza leggerlo in noiosi versetti», rispose con tranquillità de’Medici, mentre la sorellina lo guardava davvero incuriosita, chiedendosi cosa il suo precettore gli avesse insegnato. Prese la bambina per mano, prima di far segno al bambino di seguirlo. «Vi poterò nel giardino interno, così potrete giocare tranquilli.»    
Ancora stranito da tutti quei nomi, Orso si ritrovò ad annuire.
Seppur a malincuore, si accinse a seguire Giuliano de’Medici sulle scale, lanciando al panorama della torre un’ultima, nostalgica occhiata. Chissà quanto sarebbe passato, prima di poter ammirare una città dall’alto. Chissà se avrebbe mai avuto una seconda occasione per trovarsi così in alto, a guardare ogni più piccolo particolare dagli occhi di un uccello in volo.
Con un sospiro, prese la mano libera di Giuliano e si lasciò tutto alle spalle.
Dentro di sé, non vedeva l’ora di tornare a casa per poter raccontare tutto a sua madre, anche se l’idea di poter tralasciare per errore qualche dettaglio lo metteva in agitazione.






Si stancò talmente tanto, quel pomeriggio, che l’uscita dalle porte della città fu per lui un polveroso ricordo annebbiato dal dormiveglia.
Suo padre lo sistemò nel carro dove all’andata avevano deposto la volpe, dopodiché lo coprì con una coperta di lana per il freddo della notte e si mise in marcia in silenzio, senza preoccuparsi di svegliarlo.
Nella confusione causata dalla sveglia di un sobbalzo a causa di una buca e la voglia di rimettersi a dormire, Orso sbatté più volte le palpebre impastate dal sonno.
Attorno a sé riconobbe il viso stanco di suo padre, alberi, prati, ma nessuna traccia di Firenze, né di Beatrice.
Si erano lasciati tutto alle spalle, difficile dire se per un addio o un arrivederci.
Orso non ricordava l’esatto modo in cui si erano salutati. Serbava soltanto la memoria di molta stanchezza da parte di entrambi dopo ore passate a rincorrersi nel cortile, dopodiché la voce di Giuliano aveva chiamato la servitù per una coperta. Un attimo dopo Giovanni ringraziava i de’Medici per l’ospitalità e poi, dopo un’altra ondata di buio, Orso giaceva nel carro.
Non era triste, però.
In un certo senso, era contento che il ricordo di quella giornata si fermasse ai momenti felici, lasciando estranei quelli più cupi dei saluti.
Così, a Roma, di Beatrice avrebbe raccontato il sorriso, oppure la risata, oppure di come si fosse presentata a piedi nudi. Avrebbe di certo raccontato a Porpora di come Firenze fosse bella vista dall’alto, di come Cosimo l’avesse idolatrato.
Ma gli addii, quelli no, di quelli non avrebbe neanche fatto un accenno.
Forse perché non se li ricordava o forse perché, più semplicemente, sapeva che in quel luogo, prima o poi, il destino gli avrebbe fatto fare ritorno.


   
 
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