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Autore: thyandra    10/04/2014    3 recensioni
"Con lo sguardo impassibile rivolto al lastricato, Sasuke si sforza di scacciare via quel viscido, strisciante malessere che gli schiaccia i polmoni, impedendogli di respirare in modo appropriato. Non è mica la prima volta, per Sasuke. È qualcosa che può gestire, ripete mentalmente a se stesso. La mente ha il controllo sul corpo. Ma le altre volte non c'erano quelle risatine euforiche, quei sorrisi caldi e distanti. Le altre volte c'era solo lui."
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Una giornata molto specifica nella vita dell'Ultimo Uchiha.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sasuke Uchiha
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto prima serie
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Non ha alcun senso.

Sasuke se lo ripete di nuovo, come un mantra. La testa comincia a dolergli, fastidiose fitte gli penetrano le tempie come aguzzi spilli da tortura. Quante volte oggi ha pensato quella stupidissima frase? Vorrebbe solo che il suono del sangue che viene pompato ad una velocità febbrile la smettesse di trapanargli i timpani con quella molesta litania.

E cammina, Sasuke, ignorando volutamente quel bruciore nella parte sinistra del suo petto. Non ha mai faticato tanto a respirare come oggi. Neanche dopo giorni interi di intenso allenamento.

L'aria sembra satura di umidità, che gli carezza il viso con una calura sgradita. Solleva stancamente il volto al cielo, assottigliando leggermente le palpebre in risposta alla luminosità spettrale che accoglie le sue pupille scure. Innaturale, è il suo primo pensiero. Konoha sembra intrappolata sotto un tetto artificiale fatto di dense nubi grigie. Ma il sole non è andato via, oh no. Resta lì dietro, illuminandole di un bagliore che sembra finto. Falsamente sicuro. La promessa di un tepore che non arriverà, ostacolato da quel cupo mantello.

Sasuke realizza star guardando il cielo con un'espressione di puro odio e si affretta ad abbassare di nuovo lo sguardo. Non ha senso, si ripete. È ridicolo che persino le condizioni meteorologiche riflettano i suoi pensieri, no? Folle, quasi. Ma lui non può permettersi il lusso di essere pazzo.

Il suo respiro continua ad essere strangolato da un senso d'oppressione che non riesce ad ignorare. Deve essere stanco. Sì, il giorno prima deve essersi allenato troppo; forse prendere a calci il manichino fino a riempirsi le gambe di escoriazioni non è stata una buona idea.

Ma continua a camminare veloce, Sasuke; a vederlo così, non sembra che le gambe gli facciano poi troppo male. Le fasciature reggono bene, dopotutto. È sempre stato bravo con le automedicazioni, in fondo sono anni che è costretto a far da crocerossina di se stesso... Scaccia quel pensiero, inforcando un vicolo secondario.

No, la sua non è stanchezza.

Con lo sguardo impassibile rivolto al lastricato, Sasuke si sforza di scacciare via quel viscido, strisciante malessere che gli schiaccia i polmoni, impedendogli di respirare in modo appropriato. Non è mica la prima volta, per Sasuke. È qualcosa che può gestire, ripete mentalmente a se stesso. La mente ha il controllo sul corpo. Ma le altre volte non c'erano quelle risatine euforiche, quei sorrisi caldi e distanti. Le altre volte c'era solo lui.

Soffoca un moto di stizza, guardandosi intorno prima di svoltare ancora in un'altra viuzza. Un gatto randagio lo guarda con sospetto, congelato in una posa d'attacco, il pelo ritto sulla schiena arcuata. Sasuke gli lancia un'occhiataccia e quello gli regala un soffio ostile. Scrollando le spalle, calcia un sasso che va a sbattere contro un cassonetto con un tonfo sordo, che fa fare un balzo di sorpresa al felino dal pelo arruffato. Fugge via, il gatto. Sasuke non si sente affatto meglio per quella vittoria. Reprime l'istinto di calciare qualcos'altro dietro all'animale, decidendosi a proseguire.

Ficca le mani nelle tasche dei pantaloncini, insieme a quel pezzo di metallo, riprendendo a camminare a passo lesto, per le vie di Konoha solo l'attutito soffio dei suoi sandali sul selciato.

Tap, tap, tap. Le strade sono quasi deserte.

Tap, tap. Persino il negozio di fiori degli Yamanaka è chiuso. Distoglie lo sguardo, dicendosi che non gliene importa un accidenti. Non sa se sia vero.

Non bada ai nervi tesi, Sasuke, alle braccia che scendono rigide ai lati della gabbia toracica, ma continua la sua camminata, impassibile.

Oggi la strada sembra più lunga, pensa. Non si rende conto di aver inconsciamente allungato il percorso, scegliendo vie secondarie. Questo pensiero farebbe saltare la sua copertura di studiata compostezza, se così fosse.

Quasi conta i propri passi, pur di tener la mente occupata, ben lontana da osservazioni pericolose.

Sasuke tiene parecchio alla sua calma. Per questo abbassa di nuovo lo sguardo, focalizzandolo questa volta sui propri piedi. Li guarda muoversi lesti, un passo dopo l'altro, avanti e indietro, poi di nuovo avanti e di nuovo indietro...

Tap, tap. Prima di rendersene conto, sta occupando la mente con quel movimento meccanico, privo di reale interesse.

Muovere in avanti la gamba destra, portandola davanti al corpo, flettere il piede e spostare il peso verso di esso, poi la gamba sinistra, il piede sinistro e poi ancora il destro...

Non vuole pensare, Sasuke.

Quello stratagemma fa il suo dovere per qualche minuto. Ma poi un suono ovattato lo riscuote da quella sua disperata trance: percepisce distintamente il suono di un paio di sandali accarezzare dolcemente il selciato alle sue spalle, sempre più vicino. Impreca a mezza voce.

"Cosa vuoi, Sakura?" dice senza alcuna inflessione, non curandosi di voltarsi per verificare che fosse davvero lei. Non ne ha bisogno.

"Come sapevi che ero io?" risponde la voce dell'Haruno, senza neanche curarsi di nascondere la sorpresa. Sasuke si forza ad indossare la sua migliore faccia di bronzo, pensando che il passo della ragazzina sia fin troppo rumoroso, per essere quello di un ninja diplomato in accademia. Sasuke non sa di aver trascinato i piedi, durante la sua passeggiata che somiglia ad una fuga. E tace, mentre la sente affiancarglisi, non per evitare di urtare i suoi sentimenti - questo non è affar suo -, ma per non prolungare oltre il necessario una conversazione già sgradita.

"Sei stato bravissimo, Sasuke-kun!" lo loda la ragazzina, non facendosi scoraggiare dal silenzio dell'altro.

"Sapevo che ce l'avresti fatta! Sei così forte...” aggiunge poi. Sa che è arrossita anche senza voltarsi per incontrare quel colorito familiare sul viso di lei. E' così noiosa...

Sasuke mugugna qualcosa che potrebbe essere considerato un cenno d'assenso, desiderando di esser lasciato in pace al più presto.

La ragazzina deve essere delusa, perché si affretta a parlare ancora. Forse si aspettava che anche lui si complimentasse. “Magari, qualche volta potremmo... Potremmo allenarci insieme, Sasuke-kun” azzarda, lanciandogli una rapida occhiata per osservarne la reazione. Lui solleva per un istante le sue iridi buie per incontrare quelle chiare di lei e leggervi dentro un qualche indice di ilarità. Non ne trova, ma la vede assumere un colore che somiglia sempre più a quello del suo vestito: è una risposta più che sufficiente. Torna a fissare il pavimento, di nuovo impassibile, e quando finalmente parla, il suo tono è glaciale.

"Non ho tempo da perdere, io."

I sottintesi di quella semplice frase ci mettono un po' ad attecchire contro la superficie di adorazione che riveste il volto di Sakura, ma quando lo fanno, vede con la coda dell'occhio la sua espressione mutare lentamente in qualcosa di simile allo sbigottimento. Stavolta non si cura di soffocare uno sbuffo infastidito, prima di accellerare il passo in una lenta corsa e balzare su un tetto vicino. Vuole solo tornare a casa, adesso. Allontanarsi da quei sorrisi, da quell'atmosfera di festa che gli blocca il respiro a metà strada dal trovare una via di fuga in quella giornata satura d'umidità.

Non guarda indietro per vedere se la ragazzina lo stia seguendo, sa che non lo farà. Lei è affamata di quei sorrisi, diversamente da lui. Sasuke non può permetterseli; non si chiede se li vorrebbe. Cammina, Sasuke. Forza i muscoli intorpiditi dalla rabbia repressa ad un balzo più rapido, allontanandosi di qualche isolato prima di riprendere la sua camminata veloce.

Deve tornare alla sicurezza di quelle quattro mura, al silenzio, all'assenza di qualsiasi suono estraneo.

Crede di avere una velocità normale, quando sente le gambe dolergli per lo sforzo; non si è accorto di aver cominciato a correre come una furia.

Prima di formulare il pensiero, sa di non voler davvero tornare a casa.

 

***

 

Arriva nel quartiere Uchiha che è ormai notte fonda. Non saprebbe dire che ore sono, ma la luna è alta già da alcune ore in quel cielo ancora pieno di fastidiose nubi grigio perla. La sua bianca mano accarezza le case vuote, silenziose, unico chiarore fornito in quell'angolo del villaggio che non ha più bisogno di un'illuminazione pubblica. Non che gli avessero tagliato la luce, certo. Ma quando i lampioni si fulminarono, dopo quel violento acquazzone di qualche anno prima, nessuno si curò di rimetterli in funzione, ecco tutto. A chi sarebbero serviti, alla fine? I fantasmi vivono nei coni d'ombra della luna.

Le strade polverose e in rovina gli rimandano indietro, lugubre, il suono dei suoi passi, così fievole da sembrare solo un sussurro. Le mani sono ancora ostinatamente ficcate dentro le tasche; le tira fuori solo per scostare lo shoji [1] all'ingresso, che si sposta con un pigro fruscio, unico benvenuto rimastogli al rientro. Non è chiuso a chiave, non ce n'è bisogno. I fantasmi non hanno nulla che valga la pena di essere rubato.

Lo richiude con uno scatto secco che riverbera in quella abitazione vuota, troppo vasta per contenere una sola anima.

“Tadaima[2]...” non riesce a fermarsi dall'annunciare a quelle quattro mura spoglie, a quelle ombre che popolano tutte quelle stanze ormai in disuso. Non ha alcun dannatissimo senso, ma quella parola sembra aver avuto la meglio nella lotta contro la sua razionalità, oggi. Si sente stupido, si sente debole, sconfitto, e odia quella sensazione. Cade in un silenzio pesante che sembra amplificato dalla vastità di quell'ambiente quieto. Guardando basso, si sfila velocemente i sandali e li lascia all'ingresso.

Un improvviso rumore, proveniente dall'engawa[3], gli fa mancare un battito. Gli spettri non fanno rumore. Chi diavolo... Un altro fruscio, poi quello di una scatola che cade sul legno del portico e un miagolio infastidito.

Il battito di Sasuke torna regolare e le sue nocche si rilassano, lasciando fluire di nuovo il sangue alle dita quasi bianche, mentre si rende conto di essere andato in fibrillazione per via di uno stupidissimo gatto. Quel giorno ha i nervi più tesi del solito, pronti ad incrinare il suo sudato equilibrio col fragore di una normalità che gli è negata.

Si dirige apatico verso la cucina, inspirando a fondo, pur sapendo che con quel groppo che gli serra lo stomaco non riuscirà a mandare giù più di qualche boccone amaro.

Si avvicina a passo lento alla stanza e, nel farlo, sa che deve necessariamente passare dal grande e impolverato salone, proprio di fronte a quella mensola su cui campeggiano quelle vecchie fotografie incorniciate che - per un istinto non dissimile al masochismo - non ha mai voluto togliere da lì. Passa loro di fronte ogni giorno: uscendo per andare in accademia e tornando a casa, salendo nella sua camera al piano di sopra; un monito: Sasuke non vuole dimenticare. Non vuole arrendersi alla vergogna di vanificare il loro ricordo, il loro sangue versato dentro quelle stesse quattro mura; non può cedere alla disperazione di saperli troppo lontani, irraggiungibili, eterei, per poterlo ancora guardare con sguardi amorevoli: gli occhi che solo un'istantanea può ritrarre, che solo un rettangolo colorato può ricordare per come erano davvero, e non con quel riflesso opaco di morte che a volte sostituisce persino la sua stessa fallace memoria.

Si sente un debole, ma si convince che anche questa debole certezza sia necessaria alla sua vendetta. Non la chiama disperazione, Sasuke, perché farlo significherebbe ammettere la sua sconfitta; la chiama necessità, sì. E quel giorno sembra essere tanto impellente da ridurlo alla stregua di un disperso tra le dune bollenti di un deserto arido ed inospitale: i suoi passi, lenti e silenziosi lungo il corridoio, verso quella mensola, eco della corsa disperata verso l'ennesimo miraggio di un folle che si disidrata lentamente, una morte lenta e dolorosa ad attenderlo, ora per ora.

Sa che tutto quello non ha un maledettissimo, dannatissimo senso, ma non riesce a staccare le iridi buie, asciutte, da quel rettangolo incorniciato. Quattro figure lo salutano con un sorriso, il volto della quarta ritagliato via da forbici rabbiose. Avrebbe potuto incorniciare un'altra foto, una in cui lui non fosse presente, Kaa-san ne teneva un mucchio, schedate metodicamente per anno nel voluminoso album di famiglia; ma non l'ha fatto, perché non avrebbe avuto senso.

Vuole ricordarsi che lui sta lì, in mezzo a quei fantasmi, come un'ombra traditrice. Quello strappo sarebbe rimasto lì, fino alla fine, rammentandogli che la sua ombra, anche se chissà dove, sarebbe stata per sempre presente, aleggiante nei suoi pensieri, nel suo odio.

Sasuke non può permettersi di dimenticare.

E così tira fuori quel pezzo di metallo dalle tasche dei pantaloncini, poggiandolo sul legno di noce della mensola che non ha preso un grammo di polvere, sotto gli occhi di quelle due figure che ancora lo guardano, sorridendo: il suo coprifronte ninja, nuovo di zecca.

Resta muto, Sasuke. Non una lacrima preme agli angoli di quelle cornee impassibili. Tou-san non avrebbe voluto vederle. E poi le sue lacrime le ha già piante tutte, lui, fino a farsi dolere gli occhi gonfi e arrossati, fino ad aver imparato a salutarle al risveglio, quando scopriva le guance rigate di dolore silenzioso. Adesso non piange, Sasuke. Guarda dritto in quelle due paia di iridi scure, immaginando di scorgervi l'orgoglio che sa gli avrebbero riservato, se i loro caldi sorrisi si fossero uniti a quelli del resto del villaggio, quella mattina. Respirare a pieni polmoni gli è ancora impossibile, come fosse in apnea, ma adesso si sente più lontano dal fondo di quanto lo fosse prima.

Senza una parola, senza battere ciglio, trascina i piedi verso la sala da pranzo. Apre il frigorifero, che lo accoglie con un sonoro borbottio, unico suono, a parte quello del suo cuore, in quella villa abitata solo dai ricordi.

Ficca la testa dentro l'elettrodomestico e ne esce tenendo in mano un alimento qualsiasi, scelto a caso.

Piegare le gambe per sedersi in tavola gli manda una breve fitta di dolore, segno che in quei giorni ha davvero abusato della propria resistenza, ma lui la ignora, prendendo posto. Si siede piegando le ginocchia sull'unico cuscino che è rimasto intorno al basso tavolino. Tutti gli altri li ha gettati via in uno scoppio d'ira, anni prima. Adesso sa che è stato stupido. Adesso desidera averli ancora lì, parte di quell'immobile ricordo che con sforzo cerca di non fare appassire.

Separa svogliatamente le bacchette usa-e-getta, guardando senza reale interesse la scodella di riso, preparata chissà quanti giorni prima. Non lo ricorda più. Prepararsi da solo i pasti è diventata un'abitudine meccanica, e ben presto ha sacrificato il tepore di un pasto caldo alla maggiore praticità di preparare il cibo prima. Le zuppe calde e profumate gli riportano alla mente le specialità di Mikoto, ad ogni modo, ed è un ricordo troppo doloroso, quello, per far parte della sua collezione a beneficio della loro memoria.

Scaccia quel pensiero, ricordandosi che senza quella sua abitudine acquisita negli anni, non avrebbe nulla da mettere sotto ai denti, adesso, perché la voglia di cucinare si è volatilizzata insieme alla sua calma, quel giorno.

Non che abbia fame, comunque, ma deve mandar giù qualche boccone. Dopo essere sopravvissuto per tutti quegli anni, da solo, non può lasciarsi morire di fame per uno stupido capriccio.

“Itadakimasu...”[4] dice, con un'ironia che suona forzata e fuori luogo. Dopo pochi assaggi, come previsto, quel cibo gli da il voltastomaco.

Poggia le bacchette in orizzontale sulla ciotola, senza neanche pronunciare la formula che si usa dire dopo il pasto[5]. Non avrebbe senso. Non ha più nessuno che gli prepari amorevolmente il pranzo e la cena, ha solo se stesso.

Si alza senza tante cerimonie, dirigendosi verso il giardino. Non prova neanche a dormire, sa benissimo che non riuscirebbe a chiudere occhio, con quel peso sul cuore.

Spalanca il pannello con uno scatto deciso e l'aria frizzante di quella nuvolosa notte d'estate gli colpisce il viso, facendolo rabbrividire appena.

Ancora non piove, pensa.

Incurante del freddo che gli solletica la pelle, risvegliando i suoi sensi, si dirige verso il limitare del bosco.

Raggiunge una radura specifica, all'ombra di un bosco di faggi, e si prende qualche istante per abbracciare con lo sguardo quel luogo familiare e privato.

La maggior parte degli alberi, lì intorno, è piena dei segni del suo allenamento: molte di quelle piante sono prive di corteccia, laddove i suoi pugni hanno colpito con più veemenza, nelle notti in cui la solitudine si faceva più pressante; diversi kunai e shuriken sono ancora conficcati profondamente sui rami più alti, testimonianza di notti in cui la rabbia lo ha divorato più dal profondo; i ceppi più robusti, che campeggiano al centro della radura, sono consumati fin nei cerchi più interni del fusto, lì dove i suoi calci hanno colpito con precisione l'immagine così familiare dell'oggetto del suo odio.

In quel luogo che è stato per lui teatro e compagno di notti insonni, sudore e sangue, Sasuke sa di poter ritrovare la calma di cui necessita. Lì sa di poter esaurire il suo sconforto, il suo dolore, la sua solitudine, su quei faggi che sono amici silenti, su quei vecchi alberi che non racconteranno a nessuno la sua debolezza.

E con una furia che è più un urlo di dolore e cieca disperazione, si scaglia adesso contro uno di quegli scuri tronchi, non appena i suoi occhi si sono abituati all'oscurità. Quasi non sente le prime gocce di pioggia bagnargli il viso trasfigurato dalla sofferenza, mischiarsi al sudore e alle lacrime incastonate agli angoli dei suoi occhi, che stranamente emergono solo adesso che lui non sembra rendersene conto. Il suo cuore lo ha schermato dall'ennesimo dolore, inconsapevolmente, per auto-difesa.

Non riesce a percepire come alla fine, quelle nuvole false, quella calma apparente, siano collassate. Perché soffrire non ha alcun senso se quel dolore è fine a se stesso e non porta nuova forza; combattere, essere forti, non ha senso se non ci si pone un obiettivo; i legami non hanno senso se senza neanche pensarci, li si può abbandonare.

Già, tutto questo non ha alcun dannatissimo senso, vero, Itachi?




 

 






Note:
[1] Shoji: porta giapponese formata da un pannello di legno e carta di riso.
[2] Tadaima: formula di saluto che in Giappone si usa dire al rientro a casa. 
[3] Engawa: veranda fuori dalle camere delle case tradizionali giapponesi.
[4] Itadakimasu: formula che si dice prima di un pasto. Spesso tradotta come "buon appetito", è più un ringraziamento per il cibo generosamente servito in tavola.
[5] Qui mi riferivo alla formula "Gochisoosama deshita", il ringraziamento alla persona che ha preparato il pasto.








 

Angolo autrice: 
Salve a tutti, coraggiosi lettori. Questa che avete appena letto è una storia che stava in una cartella remota del mio pc da mesi, ormai. La scrissi tentando di sperimentare sul genere angst, che credo non mi apparterrà mai completamente. Sono più un tipo da melodramma drammatico (anche qui ce ne sono accenni, in effetti). La sto postando solo adesso, dopo averla rimaneggiata e riempita di miei headcanon, nascosti qui e là. Ci tengo abbastanza, insomma. La sento vicina, dopo una gestazione così lunga (è da tipo quando ho finito di seguire l'anime che ce l'avevo in mente). Mi farebbe quindi tantissimo piacere se chi l'avesse letta mi facesse sapere cosa ne ha pensato. Sia in bene che in male, ovviamente. Il fatto che io tenga a questa storia non significa che dobbiate evitare di farmi notare i suoi punti deboli (che ci saranno sicuramente, visto il genere poco sperimentato prima), ma tutto il contrario. Avrei potuto lasciarla in quella cartella, ma la sto postando proprio per sapere come migliorarla, folks!


PS: il titolo (e in parte anche la storia stessa) è un esplicitissimo riferimento, nonché tribute, all'omonima meravigliosa canzone di Serj Tankian. La trovate qui. Consiglio caldamente a tutti coloro che ancora non la conoscono di andare subito a rimediare. Amo questo fantastico artista <3 La canzone in realtà parla della guerra in Iraq, ma facciamo finta che questa fic le renda comunque giustizia u_u
Bisous!

 

  
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