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Autore: Macaron    13/04/2014    5 recensioni
"Dobbiamo solo provarci più duramente.”
John le stringe la mano. “Dobbiamo solo provarci, sì. E io non taglierò mai il prato. Il prato sarà sempre compito tuo.”
Mary gli sorride e in quel sorriso lui rivede la ragazza di cui si è innamorato. Quella che illuminava il suo mondo, che lo faceva ridere e che lui non vedeva l’ora di sposare. John le sorride a sua volta e la odia.
Sherlock è partito da novantatré giorni. Gliene rimangono ancora ottantasette.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa: Questa cosa viene da un gifset che era uscito dopo il primo teaser di Fargo con Martin Freeman. Era abbinato a un plot che non mi piaceva nemmeno un po’ quindi me lo sono immaginato diversamente e non sono più riuscita a togliermelo dalla testa. Gifset qui (però spoilera tutta la trama quindi magari lo guarderei alla fine).

 

A Leni che è sempre la persona che più mi fa venir voglia di scrivere (quindi se scrivo questo è tutta colpa sua).

A Moni che è tipo il mio sponsor per gli alcolisti anonimi ed è un’ancora di salvezza quando odio tutto e vorrei solo lanciare il pc dalla finestra. E perché le devo un aspirapolvere.

 

 

 



 

“Noi dobbiamo essere felici insieme, John! Come fai a non capirlo?”

Mary urla e Mary non urla mai. La voce di sua moglie non è mai di un tono superiore a quello che dovrebbe avere. Non lo era mentre lui l’accusava d’essere un’assassina e di avergli sempre mentito. Non lo era quando le ha comunicato che a causa dell’incidente che l’aveva coinvolta la loro bambina non era sopravvissuta e avevano dovuto praticarle un aborto d’emergenza.  Ogni tanto John si chiede se Mary riuscisse a conservare quel tono tranquillo e rilassato, quasi una cantilena, anche mentre ammazzava qualcuno. Ogni tanto a questo non vuole pensare.

“Non possiamo essere felici, non possiamo essere più nulla insieme” le dice e mentre pronuncia quelle parole John si rende conto di quanto sia stanco, stanco di tutto. Stanco di una vita matrimoniale a cui si è incatenato per il bene di una bambina che è morta prima di nascere e di un amore che si è rivelato solo una grande bugia. Stanco che tutto sia così difficile. Stanco che nulla gli venga sponteneo. Stanco di continuare a provarci per un motivo che non esiste nemmeno più. Prima c’era la bambina, prima c’era l’idea di una famiglia. Qualcuno da proteggere, qualcuno d’amare, qualcuno che meritasse anche la sua infelicità, i suoi sforzi e i suoi sacrifici. Ma adesso quel qualcuno non esiste più. Adesso che la sua bambina non è sopravvissuta alla gravidanza gli sembra di non riuscire più a reggerla quella stanchezza. E John ci prova a non dare la colpa dell’aborto a Mary e al suo credersi una superdonna in grado di fare qualsiasi cosa, di andare ovunque anche con un pancione di sette mesi passati ma non riesce a non chiedersi se non se lo sia andato davvero a cercare quell’incidente che gli è costato (che è costato a tutti e due, ma questo sembra contare poco) la sua bambina. Non riesce e non provare altro che rabbia e stanchezza. Basta. Ci hanno provato, non ci sono riusciti. Non vale più la pena.

“ Ma noi dobbiamo rimanere insieme, John. Tu mi hai perdonata, io sono quello che vuoi lo sai.”

Lo sa? Gli sembra che tutti sappiano ogni cosa di quello che prova e contemporaneamente di essere l’unico a non capirci un accidenti.

“Prima forse avevamo ancora qualche possibilità, quando c’era ancora la piccola S…”

Mary lo interrompe. La sua voce si riabbassa di un tono e John riesce a percepire una nota di scherno. “Non avrai davvero intenzione di chiamare ancora la nostra figlia non nata Sherlock, vero? Le prime volte, le prime volte in cui scherzavi su quel secondo nome erano anche divertenti. Mi facevano sorridere, John ma adesso sono solo stanca.”

“Siamo stanchi tutti e due, Mary.”

“Vuoi parlare ancora di Sherlock, allora? Se è l’unico modo per farti esprimere una vera opinione su questo matrimonio (l’ha espressa un’opinione su questo matrimonio, solo che a lei non piace e pensa di essere abbastanza in gamba da fargliela cambiare senza che lui nemmeno se ne accorga), per farti uscire da questo torpore allora parliamo di Sherlock. Cosa dobbiamo dire della terza presenza che c’è sempre in questa casa? Che c’era ancora prima che ci fosse una gravidanza? Vuoi che ti dica un motivo per cui non puoi semplicemente arrenderti, John? Perché lo devi a Sherlock.”

Odia sentirle dire quel nome, John. Odia la sfumatura sarcastica che assume la voce di sua moglie quando pronuncia il nome del suo migliore amico. È questo che provi quando qualcuno è il tuo pressure point? Quando il solo sentirlo nominare dalla persona sbagliata ti fa venir voglia di esplodere?

“Cosa stai dicendo? So che Sherlock ti ha perdonata per avergli sparato e che ha detto che posso fidarmi di te, ma cosa c’entra con te?”

Mary scoppia in una risata di scherno “Oddio, non posso credere che tu a volte sia non solo così cieco ma anche così sordo. Non hai ascoltato una parola di quello che ti hanno detto in aeroporto? Sherlock è andato in una missione suicida perché noi potessimo stare insieme.”

Cosa sta dicendo? Missione suicida? Di cosa sta parlando? A John sembra di avvertire dei suoni uscire dalla bocca di sua moglie ma nulla sembra avere senso.

“E’ andato sotto copertura in una missione, roba di sei mesi. Ne mancano ancora tre. Fra tre mesi sarà tornato.”

Fra tre mesi sarà tornato. Fra tre mesi tornerà. Tornerai vero, Sherlock?

“Hanno detto che la missione sarebbe durata sei mesi, al massimo. Sei mesi e poi il tuo migliore amico verrà ucciso e, John, ti giuro che mi dispiace immensamente per questo. Non gliel’avrei mai chiesto, mai. Avrei risolto i problemi del mio passato da sola, ma Sherlock ha fatto questa scelta. Ha scelto di sacrificare la sua vita non per me, non tanto per me ma per noi. Per darci la possibilità di essere felici.”

Mary gli si avvicina e gli prende la mano, accarezzandola dolcemente con quello che spera sia un intento calmante. John non sente niente. Non sente calore, non sente il sangue pulsargli nelle vene. La mano che tocca la sua potrebbe essere di un cadavere e per lui sarebbe lo stesso. Non riesce a far coincidere quelle parole con quello che Sherlock ha fatto, con quello che gli ha detto. Non riesce e allo stesso tempo continuano a risuonargli nella testa frasi come “Ai nostri momenti migliori, John.” E  “Vista l'alta improbabilità di rivederci, tanto vale dirtela adesso.” E ancora “Visto che questa sara' con tutta probabilita' l'ultima conversazione tra me e John Watson”. Cosa volevi dirmi Sherlock?

“Noi dobbiamo essere felici, John. Noi dobbiamo provarci, dobbiamo provarci di più. Lo dobbiamo a Sherlock, capisci?”

È intelligente, sua moglie. Molto più intelligente di lui. Saprebbe rigirarselo come un calzino se volesse, e sa sicuramente dove colpire.

“Sì.”

“Lui è morto per noi, perché fossimo una famiglia, perché fossimo felici. Dobbiamo stare insieme. Lo dobbiamo a noi stessi, alla nostra bambina, al nostro futuro e anche a Sherlock. Lo capisci vero, John?”

“Sì”

“Possiamo essere felici, John. Io sono quello che vuoi, lo sai benissimo. Siamo stati bene, prima. Siamo stati felici, siamo stati innamorati. Possiamo esserlo ancora. Posso metterti nei guai quel tanto che basta e possiamo costruire una famiglia. Possiamo litigare per il prato da tagliare, ed essere felici. Dobbiamo solo provarci più duramente.”

John le stringe la mano. “Dobbiamo solo provarci, sì. E io non taglierò mai il prato. Il prato sarà sempre compito tuo.”

Mary gli sorride e in quel sorriso lui rivede la ragazza di cui si è innamorato. Quella che illuminava il suo mondo, che lo faceva ridere e che lui non vedeva l’ora di sposare. John le sorride a sua volta e la odia.

Sherlock è partito da novantatré giorni. Gliene rimangono ancora ottantasette.

 

 

 

Rewind. Novantaquattro giorni prima.

 

“Chi devo aiutare, stavolta?”

 

Vi sono mancato? Vi sono mancato?

Vi sono mancato? Vi sono mancato?

 

“L'Inghilterra.”

 

 

Taxi, mentre stanno tornando a casa. A Baker street che John non riesce ancora a smettere di identificare come casa.

“Quindi non è Moriarty?”

“Certo che non è Moriarty, John. Moriarty è morto.” Sherlock si lascia andare ad uno sbuffo.

“Anche tu eri morto, non può tornare anche lui dal regno dei morti?” Sherlock gli lancia un’occhiata di scherno “No presumo di no, del resto c’è un solo Sherlock Holmes.”

È felice, John. È felice in questo momento mentre sono sul retro di un taxi a parlare di un criminale che in passato gli ha rovinato la vita. È felice perché sul sedile accanto a lui c’è Sherlock, Sherlock che è vivo e che lo rimprovera quando dice l’ennesima idiozia e basta solo questo a farlo sentire al sicuro, a farlo sentire felice e a casa.

“E allora di cosa si tratta? Ancora non capisco.”

“Un emulatore probabilmente. Devono aver saputo in qualche modo della mia lontananza da Londra e aver pensato di sfruttare l’occasione per scatenare un po’ di scompiglio.”

“Uno della sua rete?”
“Quelli della rete di Moriarty sono tutti morti. Non sarei mai tornato a Londra se non fosse stato così.” Non ti avrei mai messo in pericolo lasciandoli in circolazione, gli vorrebbe dire ma non può perché non è il genere di conversazioni che sono abituati a fare loro due. Hanno un loro modo di comunicare ed è fatto di battute, di sorrisi e di non detti. Non può cambiare tutto adesso e iniziare a dire cosa che nemmeno lui riesce a comprendere ad alta voce. Non può. Non può soprattutto adesso che c’è così poco tempo. Deve a John molto di meglio della verità.

“Quindi un emulatore, eh? Ma tu rimani a Londra lo stesso per sconfiggerlo, vero?”

John lo guarda e il suo viso è rilassato e pieno di fiducia e Sherlock si chiede se abbia sempre riservato a lui quei sorrisi e non se ne sia mai accorto. Sarebbe cambiato qualcosa se se ne fosse accorto prima? Prima che fosse troppo tardi? Prima di una caduta, una moglie e una bambina in arrivo? Prima di un omicidio?

“Non avrebbe senso. Non c’è nessun Moriarty, non c’è nessun motivo di rimanere a Londra. Tempo un paio di giorni e tutta questa storia verrà risolta e gli alti funzionari non saranno ancora pronti a perdonarmi e concedermi di rimanere in patria. Mycroft lo sa benissimo, non avrebbe nemmeno dovuto farmi scendere da quell’aereo ma con l’età si sta rammollendo.”

John inizia a stringere involontariamente il pugno. Improvvisamente la sensazione di calore che aveva avvertito si sta dissipando. Improvvisamente si sente vuoto.

“E quindi… e adesso cosa si fa?”

“ Adesso vado a Baker Street e aspetto. Sono già stati fin troppo gentili da permettermi di soggiornare nel nostro appartamento (nostro) nell’attesa di sapere quando potrò ripartire invece di mettermi in una cella, presumo di non avere molta libertà di movimento.”

Silenzio.

“Tu puoi tornare a casa da Mary, ovviamente. Secondo me con un po’ di pressioni accetterà il nome Sherlock. È ancora in debito con me, puoi rinfacciarglielo al mio posto.” Sorride. Gli ha appena detto che ripartirà per una missione sotto copertura e cerca di farlo ridere.

“Non voglio andare al mio appartamento, voglio andare a casa.”

Se è davvero questione di poche ore prima di avere almeno sei mesi lontani allora John pensa di potersi permettere di essere coraggioso. Sa benissimo cos’ha da perdere  (una moglie che non riesce davvero a perdonare e una figlia in arrivo che magari non è nemmeno sua) e sa che vale la pena di rischiarle. Ne vale sempre la pena per Sherlock.

Nel silenzio del taxi muove la mano verso di lui e gliela stringe. Sherlock è rigido sotto le sue dita, gli sembra quasi che abbia smesso di respirare (gli sembra che abbiano entrambi smesso di respirare), ma poi si rilassa con il suo tocco e ricambia la stretta. John pensa che nessun libro, nessun film, nessuna canzone sarebbero in grado di definire l’amore meglio di quel silenzio in quel taxi con loro due che si tengono le mani.

 

“Sono solo sei mesi.” Ripete John, quasi come se fosse una cantilena. Le sue mani sono incastrate tra i riccioli di Sherlock.

Non sono arrivati alla camera da letto. Gli piacerebbe pensare che questo sia dovuto a un impeto di passione che li ha travolti e li ha obbligati a scopare sul pavimento senza nemmeno essersi tolti i vestiti ma non è mai stata una questione di sesso tra loro due. È sempre stato più semplice e più complicato al tempo stesso. È sempre stata una questione di sesso e mai solamente di sesso. Non c’è stato uno scoppio di passione, c’è stata solo una necessità. C’è stata una cena cinese abbandonata sul pavimento, uno stupido documentario sulle api alla televisione e la poltrona di John che è tornata al suo posto. Come sembra che sia successo a lui. Essere tornato al suo posto. Un posto che è in quell’appartamento, casa perché Baker Street è sempre casa, con Sherlock che gli si è aggrovigliato addosso dopo che hanno fatto l’amore.“Non pensavo fossi uno da coccole, dopo” gli dice. Sherlock sbuffa indignato e sembra un bambino “Non sono uno da coccole.”  “Lo sei, sei un coccolone!” ride ancora e si sente bene. Sherlock arrossisce e sul suo viso John non riesce a distinguere il rossore dovuto all’eccitazione che fino a pochi minuti prima li ha accompagnati con quello dovuto all’imbarazzo. È bellissimo. È la cosa più bella che abbia mai visto e non si era mai concesso di pensarci. “Non lo sono!” un attimo di silenzio “Non va bene… Non va bene se lo sono?” “Mi è sempre andato tutto bene di te.”

Non è mai stata una questione di sesso, di passione, di eccitazione. Non è mai stato solo questo. È che Sherlock è il suo tutto, è la sua casa. È il suo rifugio, è il suo campo di battaglia, è la sua maledizione e l’unica cosa che lo fa sentire vivo. È che sono nati per incastrarti alla perfezione in ogni ambito della loro vita. Mentre fanno l’amore e John si spinge dentro di lui e Sherlock geme piano, come se non si permettesse ancora di realizzare e di lasciarsi andare totalmente, e tutto è così doloroso e intenso che gli sembra di andare in pezzi e contemporaneamente ricominciare finalmente a tornare se stesso. John gli accarezza sempre più freneticamente l’erezione mentre Sherlock si lascia andare a sospiri che sembrano ripetere solo il suo nome e si chiede se un orgasmo possa durate una vita intera. È come se ricominciassero a respirare, come se si respirassero l’uno con ‘altro.

Cosa sono sei mesi di lontananza se John Watson è nato per Sherlock Holmes?

“Sono solo sei mesi e poi tornerai e mi troverai con le occhiaie fino ai piedi perché la bambina non ci lascia dormire.” Non fa riferimenti alla madre della bambina, a quello penseranno in un altro momento quando Sherlock sarà tornato. Ce la faranno. Ce l’hanno sempre fatta.

“Sei già abituato a non dormire, vivevi con me.”

“Vivrò ancora con te, idiota.” Sherlock gli strofina la testa contro la sua mano, come un gatto che fa le fusa.

Silenzio.

“Sono solo sei mesi, vero Sherlock?”

Il consulente investigativo mugugna qualcosa che lui non riesce a capire.

“Sono solo sei mesi e poi tornerai. Tornerai ad essere Sherlock Holmes, a fare l’eroe e Londra ti amerà come sempre.”

“Questa cosa di essere Sherlock Holmes non ha senso, John. Sono Sherlock Holmes, è il mio nome quello.”

John non lo ascolta, preso com’è nelle sue fantasie “Sei mesi e tornerai, vero? Tornerai ad essere Sherlock Holmes e a non ricordarti il nome di Greg-“
“Chi?”

“Lestrade. A non ricordarti il nome di Lestrade, a risolvere misteri e io ricomincerò ad essere John Watson.”

“Non pensare così tanto John, non sei portato.”

“Stronzo. Solo sei mesi e poi tornerai, sono solo sei mesi vero? Dimmelo un’altra volta. “ Si sente la sua damigella in pericolo, si sente come l’ha descritto Magnussen  prima che Sherlock lo uccidesse. Si sente fragile, e non è abituato, e allo stesso tempo fortissimo.

“Non essere sciocco, John. Ovvio che sono solo sei mesi. Ora dormi, ti suono una ninnananna.”

Solo sei mesi. Solo sei mesi e poi tornerai da me. John si addormenta con la sensazione del calore del corpo di Sherlock contro il suo (e dentro il suo, dentro le ossa, sotto la pelle. Come se gli si fosse cucito nel cuore) e il suono del suo violino.

Al mattino Sherlock ha già lasciato Baker Street e nessun posto è più come casa.

Solo sei mesi. Torna da me.

 

 

 

 

 

Novantaquattro giorni dopo.

 

 

“Have you ever been in love? Horrible isn't it? It makes you so vulnerable. It opens your chest and it opens up your heart and it means someone can get inside you and mess you up. You build up all these defenses. You build up a whole armor, for years, so nothing can hurt you, then one stupid person, no different from any other stupid person, wanders into your stupid life... You give them a piece of you. They didn't ask for it. They did something dumb one day, like kiss you or smile at you, and then your life isn't your own anymore. Love takes hostages. It gets inside you. It eats you out and leaves you crying in the darkness, so simple a phrase like 'maybe we should be just friends' or 'how very perceptive' turns into a glass splinter working its way into your heart. It hurts. Not just in the imagination. Not just in the mind. It's a soul-hurt, a body-hurt, a real gets-inside-you-and-rips-you-apart pain. Nothing should be able to do that. Especially not love. I hate love. ” Rose Walker, Sandman (Neil Gaiman)

 

 

 

Solo sei mesi per cosa, Sherlock? Per farti ammazzare o per tornare da me?

Perché non me l’hai detto? Perché non ho capito?

Ma Sherlock Holmes non può morire. Sherlock Holmes è già tornato dal regno dei morti. Forse Moriarty non può farlo, non dopo che si è fatto saltare le cervella, ma Sherlock è diverso o non ci sarebbe un solo Sherlock Holmes al mondo. Se è riuscito a tornare alla vita dopo un volo da un palazzo perché non dovrebbe riuscire a tornare dopo sei mesi di copertura?

Sherlock Holmes non può morire. Non è possibile. Non gli è concesso. Non ti è concesso, Sherlock. Non ti è concesso mai più.

Deve solo essere abbastanza intelligente da trovare un motivo per farlo tornare. Qualcosa per cui valga la pena di tornare a Londra, di tornare dalla morte. Qualcosa di sensazionale. Qualcosa a cui Sherlock Holmes non possa dire di no.

Un omicidio. Non uno di quelli normali (ci sono gli omicidi quando sei sotto copertura? Sono interessanti? Più interessanti di quelli londinesi? John se lo chiede e sa di star impazzendo, ma decide di non darci peso). Un omicidio grandioso. Neanche Sherlock Holmes può rinunciare a un grande omicidio.

“ E' molto difficile trovare il suo punto di pressione, signor Holmes.

Ma guardi quanto le importa di John Watson. La sua damigella in pericolo.”

Il pressure point di Sherlock. Un grande omicidio, un omicidio sensazionale e qualcosa di collegato al pressure point di Sherlock. A se stesso.

Non può essere un omicidio qualunque, non sarebbe interessante. Non basterebbe per farlo tornare dalla morte, per farlo tornare a Londra. Deve riguardare lui. Dev’essere un omicidio e deve riguardare lui. Sherlock deve avere paura per lui. Mesi prima qualcuno ha deciso che lui fosse il punto di pressione di Sherlock, la sua damigella in pericolo. Qualcuno ha deciso che il suo ruolo nella sua stessa vita non fosse quello di combattere accanto all’eroe ma di essere salvato e allora va bene, va bene anche essere questo pur di farlo tornare.

Deve riguardare lui, la paura che ha Sherlock di perderlo, ed essere un omicidio perché sono l’unica cosa a cui Sherlock Holmes non riesce mai a rinunciare.

Improvvisamente tutto gli è chiaro. Cristallino. Improvvisamente gli sembra di capire. E non sente più niente se non eccitazione. Non ha alternative. Non ha altre possibilità per farlo tornare. E Sherlock deve tornare, perché senza Sherlock (senza Sherlock e senza sua figlia) lui non è davvero più niente. Non vale più la pena di essere niente.

È l’unica soluzione. La più ovvia, la più semplice, la migliore.

Stringe la mano a Mary.

“Dobbiamo solo provarci, sì. E io non taglierò mai il prato. Il prato sarà sempre compito tuo.” Le sorride e non sente più niente per lei. Le sorride, pensa a Sherlock che si fa uccidere sottocopertura e non sente più niente. Le sorride, pensa a Sherlock che torna dal mondo dei morti per proteggerlo dopo che qualcuno di molto pericoloso ha ucciso sua moglie e provato (magari) ad uccidere anche John stesso e non prova nulla per la donna che ha davanti. Lei che gli ha portato via la fiducia, la prospettiva di una famiglia, Sherlock, tutto. Lei non è più nulla, è solo un mezzo per arrivare al suo fine.

Ha ottantasette giorni di tempo.

Torna. Torna da me.

 

 

 

 

Dev’essere Mary. Non ha esitazioni nel formulare questa teoria. Le persone più vicine a John sono Mary ed Harry ma non è sicuro che Sherlock tornerebbe per qualcosa di riguardante Harry. Probabilmente se la ritrovassero stecchita la classificherebbe come una morte dovuta alla sua vita sregolata, si dispiacerebbe per John (lo farebbe?) e poi continuerebbe a cercare di farsi ammazzare. Mary invece, Mary è perfetta. Mary funziona. Mary è la persona più vicina a John e contemporaneamente la più pericolosa per John. Magnussen l’ha considerata il suo pressure point quindi ha senso che qualcuno possa voler colpire Mary per colpire John. Prima di colpire John, magari. È perfetta. “Sono quello che ti piace” gli ha detto Mary dopo avergli confessato le sue bugie, dopo avergli confessato di essere un’assassina. Non è vero, Mary è totalmente lontana da quello che gli piace e adesso che non è più la sua brillante e amorevole moglie è solo la copia sbiadita di quello che è il suo migliore amico. La copia fallata di Sherlock. Mary è la cosa più lontana da quello che gli piace che gli venga in mente ma è sicuramente quello che gli serve. Perché uccidere Mary vuol dire far tornare Sherlock. Far tornare Sherlock dal mondo dei morti, salvarlo e salvare anche se stesso. Uno scambio equo, un male necessario. Non si sente in colpa, non sente niente, solo il pensiero di cosa proverà quando avrà di nuovo Sherlock.

 

 

La vita scorre normalmente. Nothing happens to me. Nulla succede a John Watson senza Sherlock Holmes. O forse le cose gli succedono ancora solo che lui non è più in grado di notarle. Così va al lavoro, pranza con Mary quando lei non esce con le amiche, borbotta contro il concorrente incapace di Xfactor, va a bere una birra con Greg e si addormenta nel letto con una mano intrecciata alla sua. E progetta di uccidere la moglie.

Tiene tutto a mente. Scrive al computer ogni tanto,quando ha bisogno di fare un conto veloce, di ricapitolare le cose, e cancella subito. Le ricerche le fa solo da internet point non troppo vicini al suo lavoro ma nemmeno in zone di Londra a lui poco familiari in modo da avere sempre una scusa pronta nel caso incontrasse qualcuno. Se vivesse con Sherlock si preoccuperebbe della cronologia, di un’ipotetica scatola nera del computer, di essere seguito, di mettere millemila password per vedersele scoprire tutte ma del resto se vivesse ancora con Sherlock non avrebbe bisogno di pianificare l’omicidio di sua moglie.

Con Mary è gentile. Adesso che ha indossato definitivamente una maschera, quella che aveva provato ad appiccicarsi addosso già durante il giorno di Natale a casa Holmes quando si era imposto di perdonare la sua moglie bugiarda per il bene di sua figlia, le cose sono straordinariamente facili. Andare d’accordo con Mary, con la Mary di cui si era innamorato (e che probabilmente non esiste) è facile.  E lui deve andarci d’accordo perché non può sospettare niente. Ogni tanto pensa a quando Sherlock gli aveva detto che lui era un pessimo bugiardo e che se non gli aveva detto di essere vivo durante i due anni d’assenza dopo la caduta era perché si sarebbe fatto scoprire. Sorride amaramente a quel pensiero. Sorride pensando che ogni tanto anche il geniale Sherlock Holmes si sbaglia. John è un pessimo bugiardo nel quotidiano, non riesce mai ad organizzare una festa a sorpresa, Mary si accorge subito di quando non l’ha aspettata per guardare la nuova puntata di Doctor who e anche i pazienti colgono nel suo tono rassicurante la preoccupazione per un esame andato male ma quando ne vale davvero la pena è capace di mentire. E nulla vale la pena più di Sherlock Holmes.

La notte sogna. La notte è l’unico momento in cui la sua maschera, che ormai gli sembra essersi sovrapposta davvero alla sua stessa pelle impedendogli di sentire una qualsiasi sensazione, cade. La notte quando sente Mary russare piano (nei mesi in cui ha vissuto a Baker street dopo la caduta ricorda di essersi alzato ed essere rimasto per minuti interi appoggiato alla porta della camera di Sherlock ad ascoltarlo dormire, nelle rare notti in cui il consulente investigativo è davvero andato a letto, solo per assicurarsi del fatto che fosse reale, che fosse vivo e ancora vicino a lui. Che nessuno potesse portarglielo via, di nuovo) si sposta da lei e si permette di pensare. Sogna Sherlock. Sogna Sherlock torturato e ucciso. Sogna dei criminali serbi, perché sempre serbi? Sherlock non ha mai fatto menzione della serbia, che frustano il suo migliore amico e lo picchiano fino a lasciarlo sanguinante e senza vita. Sogna colpi di pistola, sogna eseguzioni. Sogna un cadavere con un sacco in testa da cui spuntano dei riccioli bruni (John non guarda mai niente e nessuno, non sa osservare ma riconoscerebbe entro dieci secondi un ricciolo di Sherlock. Sono impressi nella sua mente come ogni cosa che lo riguarda, solo che con molte non è capace di fare i conti. Non le sa capire). Ogni tanto sogna Mary che lo uccide, non l’ha visto succedere ma quell’immagine sembra esserglisi scolpita nella mente. Sogna Mary che uccide Sherlock, che distrugge tutto il suo mondo, e lui che è vicino a lei e non è capace di fermarla. Non si muove nemmeno. Se non avesse smesso di credere alla psicoanalisi ci leggerebbe qualcosa in quest’immagine.  Altre notti sogna Sherlock vivo. Sono le notti peggiori, quelle. Sogna i momenti passati insieme, abbastanza per una vita intera e mai sufficienti, le cene da Angelo quando era così stupido da non sorridere per una candela che rendeva il tavolo più romantico, i casi, l’adrenalina, il suono del violino mentre si addormenta, il momento in cui Sherlock stiracchiava le gambe mentre guardavano pigramente un documentario alla televisione e poi le dimenticava appoggiate sulle sue e nessuno diceva niente ma rimanevano entrambi a godere di quel contatto e di quel calore. Sogna tutte le cose che avrebbe potuto fare e che non hanno fatto. Sogna di lanciarsi dal Barts con Sherlock, sogna di aver prolungato all’infinito il contatto della mano sulla gaba del suo migliore amico durante la notte dell’addio al celibato, sogna di spingerlo contro la porta d’ingresso e baciarlo dopo essere tornati dal cinese dopo il loro caso del tassista (perché non l’ha fatto? Perché ha avuto così paura di tutto quello che poteva succedere e si è crogiolato nelle possibilità, nel fatto che avessero tutto il tempo del mondo). Sogna l’ultima notte insieme:come ogni cosa sembrasse essere finalmente al suo posto e come nonostante tutto gli dicesse il contrario (una moglie, una figlia in arrivo, una partenza immediata per chissàdove) gli sembrasse così giusto, la consistenza dei capelli di Sherlock sotto i suoi polpastrelli, il bagliore delle gioccoline di sudore sulla sua fronte dopo aver fatto l’amore (dio questo è un clichè così da romanzetto harmony da imbarazzarlo eppure non può fare a meno di perdersi in quel ricordo). Sogna le vite che hanno ancora da vivere: sogna le litigate per il latte al supermercato, sogna Sherlock che si dimentica per lui per giorni interi ma che poi lo sorprende chiedendogli aiuto, sogna un momento ridicolo in cui si ritrovano a guardarsi su una scena del crimine e tutto il resto passa in secondo piano e Donovan se ne esce con una frase acida o un’allusione alla sua scoperta bisessualità ma a lui non importa perché nulla importa tranne loro due.

Quando si sveglia la mattina, dopo quelle notti, è sudato e trema come dopo il peggiore degli incubi e ci sono sempre tre o quattro secondi in cui si volta verso il corpo al suo fianco e non capisce perché quella donna sia ancora lì. Non capisce chi sia, cosa ci faccia nella sua vita, perché non sia Sherlock. Lui non la vuole lì, lei non merita quel posto. Quel posto apparteneva e appartiene a qualcun’altro (e la possibilità che quel qualcun altro possa non volerlo o non tornare per occuparlo non è semplicemente contemplata) e visto che è stato lui a metterla lì è anche lui a dover rimediare. Ha visto morire belle persone. Ha visto morire ragazzi in gamba, bravi ragazzi, buoni amici. Non li ha salvati, non è riuscito a salvarli e si sente ancora adesso colpevole. La morte di un’assassina, di una donna che ha ucciso per denaro e che con le sue menzogne gli ha tolto ogni cosa (è tutta colpa sua, è solo colpa sua), non gli toglierà sicuramente il sonno. E anche se glielo togliesse va bene. Passerà le notti sveglio vicino a Sherlock. Lo ascolterà dormire nei rari momenti in cui metterà il suo gigantesco cervello in pausa e sarà abbastanza.

 

 

 

 

 

Non è un genio, John Watson. Ha tolto la vita in passato a delle persone ma non ha mai pensato a se stesso come a quel tipo di persona che progetta un omicidio. Il giorno del suo matrimonio il testimone di nozze ha comunicato a tutti gli invitati che un buon esercizio per mantenere allenato il cervello è quello di progettare l’omicidio di amici e conoscenti ma nemmeno una volta a John è venuto in mente di farlo. Certo salturiamente ha desiderato strozzare Sherlock ma si è sempre trattato di scatti di rabbia momentanei. Ha desiderato veder morte delle persone, ha pensato che lo meritassero ma non è mai arrivato a programmare un omicidio. Fino ad adesso.

Il modo in cui ucciderla è la prima cosa a cui pensare. Non può sparare a sua moglie in mezzo alla strada, nemmeno lui che non è un genio capirebbe che Sherlock non rinuncerebbe nemmeno a una puntata di Doctor who (che non gli piace) per un omicidio del genere quindi figuriamoci tornare dalla morte. Compiendo un omicidio del genere rischierebbe solo di finire in galera per tutta la vita e senza destare il minimo interesse in nessun consulente investigativo al mondo. No così non funziona. Non devono esserci testimoni, ovviamente, che lo possano collegare all’omicidio ma contemporaneamente devono esserci indizi tali da far pensare a lui come alla prossima vittima. Non dev’essere fisicamente presente ma dev’essere in un posto che possa far pensare a lui. Non devono esserci intermediari perché più persone aggiungi più rischi sempre che qualcuno possa tradirti (non succede così nei film e nelle serie tv? Ogni tanto si chiede se questo gli risulterebbe più semplice se avesse passato meno ore a guardare Masterchef Uk e di più a guardare Dexter o Csi Oxford). Deve sembrare Moriarty o una minaccia a lui affine, qualcosa di più del primo balordo che vuole rubarti il portafoglio e poi finisce ad ucciderti (ok questo è Ghost). Dev’essere qualcosa di più di un omicidio, dev’essere un mistero, un caso interessante e dev’essere pericoloso. E soprattutto deve riuscire a uccidere Mary, che come sanno benissimo entrambi è molto più intelligente di lui. E deve ucciderla in fretta perché gli sono rimasti poco più di due mesi di tempo, due mesi prima che le previsioni di Mycroft si avverino e Sherlock non possa davvero più tornare da lui. Ogni tanto gli sembra di pensare così tanto, di pensarci così tanto da sentire la sua testa iniziare a fumare. In quelle occasioni ripensa alle battute sarcastiche di Sherlock, alle sue allusioni sul fatto che pensare non sia proprio la sua area di competenza. In quei momenti, quelli in cui si prende per un attimo la pausa da se stesso, dal suo piano e dallo schifo che è la sua vita e si concede di ricordare tutto quello che è stato e tutto quello che potrà essere (comprese le battute sarcastiche, la naturale mancanza di gentilezza di Sherlock e quel genere di cose che in passato gli hanno fatto desiderare di strozzarlo) sorride e tutto gli sembra per un attimo un po’ più leggero. Un po’ meno difficile.

C’era una barzelletta che gli capitava di sentire quando era nell’esercito e che adesso non riesce a scacciare dalla sua mente. Un signore entra in un bar, si avvicina a una delle cameriere e le chiede “Se ti offrissi un milione di sterline verresti a letto con me almeno per una notte?” la ragazza ci pensa un attimo e poi risponde “Beh insomma, solo una notte…per un milione di sterline… io direi di sì.” Il signore a quel punto tira fuori una banconata e gliela dicendole “Eccoti un dollaro, vieni a letto con  me.” La giovane si scandalizza “Un dollaro? Ma chi credi che sia?”. L’uomo a quel punto risponde caustico “Abbiamo già concluso che sei una puttana, adesso stiamo solo trattando sul prezzo.”

John pensa a quella barzelletta ma mentre in passato la trovava semplicemente di cattivo gusto e poco divertente adesso rivede se stesso in quelle parole. Stava solo trattando sul prezzo. Non è una persona integerrima. Non è una brava persona, non è un brav’uomo. Ha già ucciso, anche se sempre in condizioni di potenziale pericolo o per difendere qualcuno ma questo non lo rende diverso da un assassino. Non è mai stato diverso da un assassino. Stava solo trattando sul prezzo. Stava solo aspettando il prezzo giusto per uccidere a sangue freddo. Il suo prezzo è Sherlock Holmes, l’unico che pagherebbe con la vita di chiunque e senza mai avere un’esitazione.

 

 

Pensa a tutti i modi in cui potrebbe andare male. Passa molto più tempo del dovuto a leggere di casi di cronaca finiti male, scopre un interesse per le serie tv sugli avvocati e in biblioteca si trova a sfogliare il codice penale. Pensa a Mary che sopravvive al suo tentato omicidio e che lo accusa di esserne il “mandante” (si dirà davvero così? Nella vita vera. Sherlock non sapeva che termini si usassero nella vita vera eppure il loro mondo insieme era perfetto. Distante dalla realtà, forse, ma loro e quindi perfetto). Pensa a Mary che sopravvive al suo tentato omicidio, scopre che è stato lui a volerlo e non lo accusa ma continua a comportarsi come se niente fosse obbligandolo a una vita che potrà anche aver scelto ma che adesso odia con tutto se stesso. Pensa a Mary che muore, la polizia che lo scopre e lui che finisce in carcere a vita. Pensa a mesi, anni anche, passati nell’attesa che Sherlock possa andare a liberarlo. Pensa a qualcosa che va storto nel suo piano e pensa lui che finisce morto prima di essere riuscito a metterlo in pratica. Pensa a tutte le alternative peggiori ma in nessuna, in nessuna, Sherlock non torna da lui. In nessuna Sherlock non torna a prenderlo. Dalla sua vecchia vita, dal carcere, dalla morte stessa anche. In ogni scenario possibile Sherlock torna da lui perché il loro rapporto è inevitabile. La loro vita insieme, il loro finale insieme è inevitabile. È sempre stata solo questione di come e quando non è mai stata questione di se e perché. È sempre stata una scelta tra loro e non lo è mai stata.

Non riesce a pensare lucidamente all’omicidio, nei momenti in cui non fa progetti/studia/abbozza piani e in cui è perfettamente presente a se stesso, senza vagare con la mente e continuare a soffermarsi su Sherlock. Sui loro ricordi, sui loro momenti insieme. Non dovrebbero fare così male, nulla dovrebbe fare così male soprattutto l’amore.

Dartmoor, la notte dopo che Sherlock aveva inalato i gas tossici, visto un pericoloso mastino e affermato di non avere amici. Il buio della stanza quando era rientrato dopo il fallimento nell’interrogatorio della dottoressa Mortimer e il leggerissimo russare del suo coinquilino nel letto accanto a lui. Era rimasto per pochi istanti a fissarlo in piedi davanti al suo letto indeciso su cosa fare, sperando che si svegliasse solo per poter litigare ancora con lui, per chiedergli spiegazioni, per accusarlo di qualcosa (qualsiasi cosa, anche solo di russare troppo forte), per potergli parlare ancora. Sherlock aveva continuato a dormire e lui non aveva avuto il coraggio di svegliarlo, non aveva avuto il coraggio di fare i conti con tutte quelle emozioni, con tutto il loro bagaglio. Si era, per l’ennesima volta, crogliolato nell’idea che avessero tutto il tempo del mondo e che potessero ancora permettersi di aspettare un momento migliore.

L’ora persa all’interno di Tesco una domenica mattina quando era tornato da casa di Harry e aveva trovato nel frigorifero solo del formaggio in decomposizione e per qualche strano motivo il suo migliore amico aveva insistito per accompagnarlo a fare la spesa (ma non poteva andarci direttamente lui prima che tornassi? Si era chiesto John) per poi terrorizzare delle madri davanti allo scaffale delle marmellate.

La notte passata a guardare film di 007, subito dopo la piscina e il suo viaggio in Australia, con della birra costosa (troppo costosa per una serata a casa con dei vecchi film) e la sua testa appoggiata sulla spalla di Sherlock la mattina dopo.

La loro vacanza nel Sussex alla ricerca di una piccola villetta con giardino dove poter allevare le api. Le serate a camminare sulla spiaggia con Sherlock che per una volta non si guarda in giro e si ritrova a calpestare un vetro e doversi appoggiare a lui per camminare fino a casa.

Le notti passate a fare l’amore, segnando con morsi e graffi il corpo che stringe perché quella persona stupenda è sua e nessuno può portargliela via. La lingua di Sherlock sulla sua erezione e le sue dita che s’incastano nei suoi riccioli mentre viene gridando il nome del suo migliore amico, del suo compagno.

Il Natale in cui gli ha regalato un telescopio e Sherlock ha tenuto il muso per un giorno intero e poi gli ha chiesto di parlargli delle stelle.

La notte dell’addio al nubilato, la sua mano sul ginocchio di Sherlock, le risate e tutto quello che sarebbe potuto succedere se non fosse entrata la cliente. E se fossero stati più coraggiosi.

Il primo ballo insieme al loro matrimonio.

Si perde nei ricordi e ogni tanto non riesce più nemmeno a capire quali siano già successi e quali debba ancora attendere. Non gli sembra di riuscire più a distinguere quali cose siano reali e quali siano irreali. Come possono essere irreali certe immagini con Sherlock se solo pensarle lo rende molto più vivo di ogni istante della sua vita attuale?

 

 

 

 

 

“Le piaci, lo sai vero?” La voce di Mary irrompe nei suoi pensieri durante la pausa pranzo. È seduto su una panchina nel parco vicino allo studio medico ignorando il sandwich che dovrebbe mangiare e sua moglie è improvvisamente seduta al suo fianco.

“A chi?”

“A quella ragazza, quella che è stata seduta al mio posto per l’ultima mezzora a flirtare con te.” Non c’è l’ombra di una critica nel tono di voce di Mary ma quasi una sorta di compiacimento per il buongusto del resto del genere femminile che apprezza suo marito.

John non si ricorda nemmeno il viso di quella ragazza. Le ha evidentemente parlato anche se non continuativamente ma fa fatica a ricordare qualcosa di lei (è mora? È bionda? Giovane? Probabilmente. Mary non si fingerebbe gelosa per un’educata cinquantenne). Si ricorda vagamente qualcosa della conversazione avuta con lei ma, come sempre nell’ultimo periodo, poi la sua attenzione dev’essere calata.

“Non stava flirtando con me!” Le risponde fingendosi scandalizzato, stanno entrambi recitando la parte della coppia aperta e amorevole quindi perché non farlo bene? “Voleva farmi solo qualche domanda sul blog, su Sherlock,  su quelle cose lì.” Allontana con la mano l’argomento, di quello non ha intenzione di parlare. Non con Mary, non con Mary mai più.

“Quelle erano solo scuse, John! Le ragazze fanno così, cercano un argomento che possa interessarvi e poi sperano che voi facciate il resto.”

Si sorridono. Inizia a sbocconcellare il suo pranzo svogliatamente.

Mary esita e nel tono con cui si rivolge di nuovo a lui c’è una nota d’incertezza e di dolcezza che quasi lo intenerisce (o riuscirebbe a intenerirlo se la credesse anche solo vagamente sincera).

“Ti piaceva? Quella ragazza…” quella ragazza che probabilmente è più giovane di lei, forse anche più bella, più solare (ma Mary per lui non è mai stata solo quello, non era una bella ragazza, era una medicina), sicuramente senza una valigia di morti e false identità con sé. Quella ragazza che non sono io ti piaceva, John?

La bacia.

“Sono impegnato.” Lo dice senza l’ombra di un’esitazione, come se non ci fosse bisogno di aggiungere altro, come se fosse l’unica sua certezza.

Mary si stringe forte a lui e sa che è sincero. Non ha bisogno di scommettere qualcosa, non a bisogno di crederci, Mary sa che è sincero.

“Sono impegnato.” Le dice ed è sincero. “Sono impegnato.” le dice e pensa a Sherlock.

 

 

Una volta dopo il suo primo ritorno dal regno dei morti lui e Sherlock si sono ritrovati a giocare a Cluedo. Aveva giurato che non l’avrebbe mai più fatto ma quando qualcuno torna dalla morte sei più incline a passare sopra a certe promesse e dargliela vinta quando fa i capricci (e Sherlock è bravissimo a fare i capricci. Se lo mettessero in una stanza con una classe di bambini infastiditi perché hanno saltato pisolino e merenda li farebbe scappare urlando). In quell’occasione aveva tentato di rammentare all’unico consulente investigativo al mondo che il gioco si basava sullo scoprire il Chi, il Come e il Dove di un determinato delitto e quanto le risposte a queste tre domande generalmente cozzassero con la maggior parte delle sue teorie.

Il Chi del progettare l’omicidio di sua moglie è semplice. L’assassino è lui ma deve sembrare che sia Moriarty o un emulatore perché sono la maggior minaccia per John e contemporaneamente perché Sherlock sente di avere una connessione con l’unico consulente criminale al mondo e in un qualche modo ne subisce il fascino.  Il come è il punto su cui s’interroga di più ma alla fine l’unica idea che gli sembra sensata gli viene in mente rileggendo sul blog i vecchi casi risolti da lui e Sherlock. La piscina, il semtex, le esplosioni. Nulla dice più Moriarty di qualcosa che esplode e nulla gli permette di essere lontano dalla scena del crimine (ma senza intermediari) più di una bomba. Non sa costruire una bomba ma del resto non ha mai avuto valide motivazioni per imparare a costruirne una. Può imparare. Il dove arriva di conseguenza. Una bomba non è come un colpo di pistola, non è come un incidente d’auto (l’ha considerato ma teme che possa passare sotto silenzio, possa sembrare troppo un incidente appunto) e basta un attimo perché si trasformi da mezzo per far tornare Sherlock a catastrofe in cui finiscono uccisi trecento bambini. Non può rischiare. Deve scegliere un luogo che sia affine a Mary, dove lei sia solita passare del tempo e che non sia estraneo nemmeno a lui e allo stesso tempo non deve rischiare di coinvolgere altre persone innocenti. Casa loro quindi (sarebbe troppo strano che la bomba fosse nello studio e ci fosse anche Mary ma mancasse solo lui), ma con qualche accorgimento per evitare vittime. Non è un assassino lui. Nemmeno nei suoi momenti più razionali John riesce a rendersi conto che uccidere sua moglie lo rende inevitabilmente un assassino.

 

 

 

 

Il giorno in cui Mary Watson muore John saluta la moglie con un bacio e non prova nulla. Non esitazione, non rammarico, non senso di colpa, non dolore. Una punta d’eccitazione l’attraversa e gli ricorda quello che provava da bambino la notte di Natale quando guardava la sveglia sul suo comodino e mancavano sempre troppe ore a quando si sarebbe potuto alzare per andare a scartare i suoi regali ma è solo qualcosa di momentaneo. Mary Watson non gli mancherà, gli sarebbe mancata Mary Morstan, la Mary Morstan che ha conosciuto, di cui si è innamorato ma che non esiste ma quella donna che bacia e a cui sorride sabbre potuta scomparire in qualsiasi momento senza lasciare in lui la minima traccia. Non sente nulla, non prova nulla. Dentro di lui non c’è più spazio per nulla che non sia Sherlock.

Le offre un caffè prima di uscire dallo studio medico, si sofferma a parlare con lei del libro di cui dovrà discutere il giorno dopo al club che frequenta (pensa che non ci andrà, ovviamente ma pensa anche che le signore del club sopravviveranno anche senza di lei), si mettono d’accordo per cosa mangiare per cena, le sorride e la bacia.

Mentre Mary si allontana non sente nemmeno il bisogno di guardarla per l’ultima volta. Si chiede invece se lei l’abbia mai visto davvero, se qualcuno oltre a Sherlock sia mai riuscito a vedere dentro John Watson e rimanere comunque al suo fianco.  Torna da me, pensa. Torna da me. Mancano ancora ventidue giorni allo scadere dei sei mesi, sei tornato da cose peggiori di sei mesi sotto copertura, puoi tornare anche stavolta. Ti sto per fornire un omicidio con i fiocchi, fatto apposta per te. Sei già tornato dalla morte, torna di nuovo. Torna per me. Torna da me.

Il giorno in cui Mary Watson muore John non dedica nemmeno un secondo di più del necessario a pensare alla moglie e si perde nel ricordo di Sherlock.

 

 

 

 

Non è strano che sia a casa nel primo pomeriggio. Lo studio medico il giovedì è sempre chiuso al pomeriggio e ultimamente hanno preso l’abitudine di dividersi i compiti, lei e John. John si dedica alla spesa e qualche commissione e lei sistema un po’ l’appartamento. Si reincontrano per l’ora di cena, quando uno dei due non esce con amici. Mesi prima, quando erano sposini novelli facevano queste commissioni insieme e lei si ritrovava a prendere in giro suo marito per la sua totale incapacità di usare la cassa automatica al supermercato. Adesso, dopo la scoperta della verità sul suo passato (o la non scoperta visto che John ha scelto di non guardare mai nella chiavetta che gli ha consegnato, e che in ogni caso era vuota visto che lei non è proprio l’ultima delle imbecilli), dopo la partenza e la probabile morte di Sherlock e dopo la perdita della loro bambina si dedicano a queste commissioni separatamente. Non è stata una proposta di John ma una sua idea. Mary pensa che quelle ore separate, visto che già lavorano e vivono insieme, siano terapeutiche per suo marito ora che non ha più nemmeno la valvola di sfogo dei casi e della compagnia di Sherlock Holmes. Lascia che passi un po’ di tempo da solo, che esca con qualche amico per una birra o per guardare una partita al pub(sempre troppo pochi, John piace naturalmente alle persone ma non si scomoda spesso a ricambiare questo sentimento e lascia che i rapporti si affievoliscano naturalmente) e quando torna a casa le sembra che il loro rapporto vada sempre meglio, che abbia un po’ più voglia di vederla. Che si stia riabituando a lei. Forse ha accettato e superato il lutto della moglie che s’immaginava di aver scelto e che invece non è, forse ha accettato di aver perso anche Sherlock e che lei è la cosa più vicina al suo migliore amico che gli possa capitare, forse semplicemente stare insieme permette a entrambi di ricordarsi come stavano bene insieme prima. Si amano, Mary lo sa, devono solo ricordarsi come stare bene insieme e se per fare questo deve dedicarsi alle pulizie di casa da sola può accettare sicuramente quel compromesso.

Non è nemmeno così strano che non se ne accorga subito. Ha la radio accesa, come sempre quando fa le pulizie e i libri coprono il rumore del timer. È solo quando musica s’interrompe e la stazione radiofonica inizia a trasmettere le notizie d’attualità che ci fa caso. Un ticchettio che proviene dalla libreria a muro, da un posto dove non hanno orologi, elettrodomestici a parete, nulla che possa fare un suono simile. I suoi sensi si allertano. Sono anni che non fa più quel lavoro, sono anni che non ha davvero più paura per la sua vita (Milverton era un pericolo per la sua vita ma in un modo totalmente diverso, un modo che implicava cuori spezzati e vite da ricostruire, non pistole e organi spiattellati su tutto il pavimento) quindi non è più abituata a prestare perennemente attenzione ma quando sei una spia e un’assassina per commissione non smetti mai di esserlo e non smetti mai di essere vigile. Solo che ti lasci un po’ andare e alle cose non ci arrivi subito. Anche quando sei molto intelligente. Anche quando sei intelligente come Mary.

Trova la bomba in pochi attimi e subito è consapevole del fatto che è impossibile spostarla senza staccare qualche filo e saltare per aria.

Il timer ticchetta, mancano solo tre minuti all’esplosione.

Potrebbe scappare. Potrebbe uscire di casa e andare il più lontano possibile. Tre minuti le basterebbero per allontanarsi abbastanza da salvarsi la vita. Solo che non sa quanto sia potente la carica esplosiva di quella bomba e non sa quante persone rimarrebbero coinvolte. Quanti dei suoi vicini che non riuscirebbe ad avvisare prima che l’edificio salti per aria. Mary è un’assassina, non ha mai provato rimorso per le vite che ha tolto perché erano tutte assolutamente necessarie a qualcosa (pagare le bollette piuttosto che salvare il suo matrimonio) ma nel palazzo del loro appartamento ci sono madri e bambini e persone che le piacciono o che comunque le piacciono abbastanza da non volerle morte. Il timer ticchetta e Mary decide che quella di scappare sarà la sua ultima alternativa, che ha ancora un minuto abbondante prima di sacrificare tutte quelle vite per salvare la sua.

Mary non sa che nel palazzo non c’è nessuno. Non sa dei volantini e delle telefonate che parlavano di una disinfestazione che John ha fatto. Non sa nemmeno che ha scelto di farsi eleggere rappresentante di scala due settimane prima non per motivi legati all’insopportabilità del precedente amministratore, come le ha fatto credere, ma per poter avere un motivo per essere credibile nel momento di avvisare i suoi vicini di star fuori dagli appartamenti per una giornata abbondante. Viene fuori che non è solo lei quella intelligente, è solo che lui l’ha nascosto bene stando sempre con Sherlock.

Se Mary fosse una persona sentimentale, e forse un po’ lo è quando se lo concede, troverebbe romantico che sia il pensiero di John Watson a salvarla da una bomba che sta per esplodere (chissà se sa che è stato lo stesso pensiero a riportare alla vita Sherlock). Mary non ha un mind palace ma ha una buona memoria e anche se non sa disinnescare una bomba, non è il suo campo questo lei era abituata a proiettili e attese e buio non ticchettii ed esplosioni e luce, si ricorda un post sul blog di John1. Si ricorda suo marito che batte sulla tastiera del notebook, con due sole dita, il giorno dopo l’annuncio ai media del ritorno di Sherlock. Ricorda il caso della carrozza del treno che è in realtà una bomba e soprattutto ricorda John che ancora sconvolto (ed eccitato ed euforico e bellissimo, era ed è sempre eccitato ed euforico e bellissimo dopo aver visto Sherlock come se quei due si esaltassero a vicenda) le parla di un bottone di spegnimento. “Lo switch off! Viene fuori che ogni bomba ha un bottone di spegnimento, uno switch off perché altrimenti i terroristi finirebbero in qualche guaio e ci vuole solo qualcuno mostruosamente intelligente come Sherlock per saperlo trovare!”.

Mary è così intelligente. Mary è intelligente almeno quanto Sherlock, ne è convinta così mentre il ticchettio continua a risuonare per la stanza (come può un rumore così lieve coprire tutto? Come può rimbombare?) inizia a tastare e controllare la bomba fino a quando lo trova. Quella sera dopo che saranno venuti gli artificieri e avranno tolto tutto dirà a John che ha salvato tutto il palazzo, che lei è quel tipo di persona così coraggiosa e intelligente da disinnescare una bomba. Che è intelligente quanto Sherlock e anche più coraggiosa.  John si preoccuperà per lei, penserà che è bravissima e sarà eccitato e felice per non averla persa e l’abbraccerà e faranno l’amore (ha mai fatto l’amore con Sherlock? Se lo chiede per un attimo come se l’è chiesto in passato prima di sposarlo ma lo conosce troppo bene per crederci. Conosce troppo bene John Watson per non sapere che non è quel tipo di persona, per non conoscere la sua correttezza) e tutto sarà perfetto.

La bomba ticchetta, Mary si lascia andare a un sospiro, butta fuori tutta la tensione accumulata in quei tre minuti (tutta la tensione del mondo) e schiaccia il bottone dello switch off.

Il soggiorno salta per aria. Mary salta per aria.

Viene fuori che Mary non è poi così intelligente. Viene fuori che per essere un assassino forse non è nemmeno necessario essere così intelligenti ma basta conoscere bene la propria vittima ( e sapere che memorizza tutto, compreso l’aneddoto su un bottone che disinnesca una bomba) ed avere una motivazione abbastanza forte.

Ma poi chi metterebbe davvero un bottone di spegnimento su una bomba?

Chissà se Sherlock lo troverebbe divertente, chissà se saprebbe che anche questo è merito suo.

 

 

 

Anthea non è una donna romantica. È una donna pratica, un’ottima lavoratrice che sa rendersi indispensabile. Sveglia, veloce, in gamba ma non romantica. Non una sentimentale, non una ragazzina che scarabocchia il suo nome circondato da cuoricini sul diario o che si commuove per una puntata di Grey’s Anatomy. Anthea non è una donna romantica ma sa benissimo che John Watson non ha mai guardato sua moglie nello stesso modo in cui ha sempre guardato Sherlock Holmes. Mai, nemmeno il giorno del suo matrimonio (davvero qualcuno pensava che Mycroft Holmes non avrebbe mandato qualcuno a tener d’occhio la situazione anche e soprattutto in quell’occasione?), nemmeno nel momento in cui ha scoperto di essere in procinto di diventare padre, mai. Quella dolcezza, quella sorta di morbidezza nello sguardo l’ha sempre riservata solo a Sherlock. John Watson ha guardato sua moglie con occhi innamorati ma come se fosse tutto il suo mondo ha sempre guardato solo Sherlock.

Pensa a questo mentre compone un messaggio, quella che le persone romantiche vedrebbero come un messaggio in bottiglia, da mandare nell’etere. Sono passati tre giorni dalla morte di Mary Watson, tutti insistono a chiamarla così nonostante una persona con quel nome (e con quel carattere) non sia mai esistita, e anche se nessuno le ha dato istruzioni a riguardo batte rapidamente qualche tasto sulla tastiera dello smart phone e invia il messaggio. Contraddice espressamente gli ordini, che è una cosa sicuramente peggiore del non seguire alcuna istruzione, ma sa di essere a conoscenza di abbastanza informazioni sul governo britannico da poter rischiare al massimo una lavata di capo. Non perderà sicuramente il lavoro per questo, non potrà mai perdere il lavoro a meno che non decida di andarsene lei spontaneamente, e probabilmente questo gesto non servirà a nulla, non cambierà nulla ma ritiene che valga comunque la pena di provare. Anthea non è una donna romantica ma forse al mondo ci sono persona che la rendono ancora sentimentale. Ci sono persone che valgono un gesto, valgono almeno un tentativo.

Scrive sul cellulare “E’ in pericolo.” Non ha bisogno di aggiungere altro. Non ha bisogno di sprecare tempo e caratteri nel raccontargli di come sua moglie sia esplosa per tutto il salotto tre giorni prima. Non ha bisogno di dirgli perché è in pericolo (non ha creduto nemmeno per un minuto che Mary Watson sia morta per mano di Moriarty e allo stesso modo non ha fatto sicuramente nemmeno il suo capo), chi potrebbe metterlo in pericolo (un pericoloso assassino o più probabilmente se stesso) o quanto il suo aiuto sia richiesto in questa situazione. Non ha bisogno di dirgli qualcosa tipo: “Ehy se sei ancora vivo saresti richiesto qui, sempre se riesci a toglierti dalla missione di copertura senza lasciarci le penne.” Non ha soprattutto bisogno di dirgli chi è in pericoo perché non ci sono altre persone per cui Sherlock tornerebbe. Non ci sono altre persone di cui gli potrebbe importare. Non ci sono altre persone di cui gli sia mai importato. È sempre stato solo John Watson. Sono sempre stati solo John Watson e Sherlock Holmes. Non ci sono mai state alternative.

 

 

Non ci pensa mai a cosa potessero voler dire quei sei mesi al massimo. Sei mesi per tornare, sei mesi per sistemare tutto prima di andarsene altrove, sei mesi prima di ritrovarsi in una bara. Non si chiede mai se quei sei mesi siano un tempo massimo o un tempo effettivo. Non si chiede mai se siano una speranza, non si chiede mai se Sherlock abbia davvero sei mesi. Non se lo chiede perché Sherlock semplicemente non può morire. Sherlock potrebbe tornare dalla morte anche dopo essersi fatto saltare le cervella, dopo essersi lanciato da un palazzo, dopo un’esplosione atomica. Sherlock è indistruttibile, gliel’ha detto lui stesso. Se non è ancora tornato, se non era ancora tornato non è perché dieci metri sottoterra ma perché non gli aveva dato una ragione abbastanza valida per tornare. Ora, ora che Mary (i resti di Mary) sono in una tomba, ora che gli ha dato un cattivo e un buon omicidio Sherlock tornerà. Ora può tornare. Ora deve tornare.

Ora che lui è in una cella, una cella abbastanza spaziosa a dire la verità e pensa che c’entri Greg in questo anche se non si sta occupando del caso, Mary è morta e c’è un mistero da risolvere e la sua damigella in pericolo da salvare deve tornare. Non ci sono alternative perché altrimenti lui sarebbe diventato un assassino per…per nulla? E non può semplicemente essere così. Non può aver ucciso sua moglie, anche se non pensa mai a quello che è successo come ad un omicidio ma piuttosto come ad aver eliminato un problema e contemporaneamente creato una situazione ottimale, essere finito in galera per niente. Non è concepibile. Sherlock può tornare e deve tornare. Non ci sono alternative. Non ci sono mai state alternative a loro due. John ci crede. No non è vero, è qualcosa di più. È molto di più. John non è che ha fiducia, non è che ci crede, John ha fede. John sa che Sherlock deve tornare e tornerà. Per lui, per loro, per un ottimo omicidio. Perché lui lo sta aspettando e magari Sherlock lo farà aspettare ancora, magari non riuscirà a liberarsi subito ma poi tornerà da dovunque sia (compreso il regno dei morti) per lui. Non può andare diversamente. Non ci sono alternative. Non devono esserci.

Lo aspetterà anche tutta la vita se serve. Lo aspetterà in una cella, se necessario, e Sherlock tornerà da lui.

Chiude gli occhi, lascia che il pensiero di Sherlock invada la sua mente e finalmente si addormenta.

Sogna di loro, sogna di tutto quello che hanno fatto e di quello che faranno insieme.

Torna, torna da me gli dice ogni volta qualche minuto prima di svegliarsi. Anche se sta dormendo nella cella di una prigione non si sveglia mai scosso dai brividi, in lacrime o urlando. Si sveglia sempre con una sensazione di calore nel petto.

Torna. Torna da me.

 

 

 

Beep. Beep.

È in pericolo. A.

 

 

 

 

 

 

Note: Sono convinta, totalmente, che se Sherlock fosse davvero partito alla fine della 3x03 le cose per John non sarebbero andate benissimo. Ora questa storia è la mia versione estremizzata, e John è un tantinello fuori come un balcone lo so ma il vantaggio della terza stagione è che i personaggi sono perennemente fuori come un balcone (grazie dinamico trio!), ma io nella scena all’aeroporto lo vedo abbastanza vicino all’esaurimento nervoso e tipo pentola di fagioli. Volevo scrivere di quel John e di quel momento. Avevo in mente tre finali per questa storia (due tristerrimi, uno pieno di farfalle e felicità), ma visto che non so scrivere angst e sono un cuore di panna alla fine ho scelto una via di mezzo così a seconda di quanto sono di cattivo umore posso immaginare che quel messaggio vada o meno a buon fine. Chiedo venia per l’eccesso di seghe mentali e offro crostatamisù e cheesecake a a tutti.

 

1 C’è effettivamente un post nel blog di John, il primo dal ritorno di Sherlock, che parla dello switch off (in compenso l’dea dello switch on viene da un delirio del mio ragazzo da ubriaco che malediceva l’idea del bottoncione e si è ritrovato  inconsapevolmente a plottare fanfiction).

 

 

 

 

  
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