Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Vis    13/04/2014    2 recensioni
Ripensò a due giorni prima, a quando Eren nella mensa del college gli aveva fatto andare di traverso il tè dicendogli che gli aveva organizzato un appuntamento al buio.
E ancora si chiedeva: era messo così male da risultare addirittura penoso?
Okay, non usciva con nessuno da quasi un anno ormai, ma non gli sembrava di essersi mai lamentato eccessivamente di ciò.
Esclusa forse la volta in cui si era ubriacato ed era andato in giro per il college facendo sapere a tutti i suoi più intimi desideri.
E forse escluse anche tutte le occhiate storte che lanciava ad Eren ogni volta che portava qualcuno nel loro appartamento.
Ricapitolando, Jean decise che no, non si era lamentato eccessivamente.
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell’autrice.
Se sono qui, a presentarvi questa one shot, è tutta colpa di Johannathemad e altre autrici di fan arts JeanMarco su Tumblr. Tutta colpa loro.
Fino all’altro giorno, non era nei miei piani -e penso che non lo sarebbe mai stato- scrivere su Shingeki no Kyojin se non avessi visto quelle meravigliose AU ;w;
E… Diavolo, mi era venuta una voglia folle di scrivere qualcosa su questi due per cui… Ecco come sono arrivata a pubblicare questa cosa.
Ammetto di avere parecchia ansia, soprattutto perché ho letto della fanfiction JeanMarco meravigliose qua sopra e non vorrei aver scritto una gran cagata *cry* (anche perché mi sembra una gran schifezza banale in confronto alle altre)
So, uhm, ora sloggio (filosofia chiama) e spero l’apprezziate almeno un pochino ;u;
Mi farebbe tanto piacere sapere che ne pensate, per cui non tacete (?)
Baci, Vis.
Ps: andate su Tumblr e guardate quelle meravigliose fan arts!
 
 
 
 
Blind date
 
 
Jean non sopportava Eren.
Quel sorriso sghembo che gli rivolgeva e quella sua mania di urlare sempre e comunque lo avevano irritato sin dall’inizio della loro convivenza. Non lo sopportava tutt’ora e benché più volte avesse tentato con le buone e con le cattive di placare le reazioni troppo accese dell’amico, non c’era stato modo di fargli togliere quei vizi.
Ma ciò che Jean soprattutto odiava erano le situazioni scomode e terribilmente imbarazzanti in cui l’amico lo cacciava.
Come in quel momento.
Era fermo da almeno venti minuti in una traversa di O’Connel Street, indeciso su cosa fare. Stava in piedi davanti ad una vetrina, immobile, e più volte i commessi del negozio lo avevano guardato storto, cercando di capire cosa diavolo volesse.
Guardò con angoscia il piccolo Starbucks dall’altro lato della strada. Cercò di focalizzarne l’interno, per capire chi ci fosse dentro, ma invano.
Sospirò, frustato e incazzato. Oh, Eren gliel’avrebbe pagata eccome!
Ripensò a due giorni prima, quando Eren nella mensa del college gli aveva fatto andare di traverso il tè dicendogli che gli aveva organizzato un appuntamento al buio.
E ancora si chiedeva: era messo così male da risultare addirittura penoso?
Okay, non usciva con nessuno da quasi un anno ormai, ma non gli sembrava di essersi mai lamentato eccessivamente di ciò.
Esclusa forse la volta in cui si era ubriacato ed era andato in giro per il college facendo sapere a tutti i suoi più intimi desideri.
E forse escluse anche tutte le occhiate storte che lanciava ad Eren ogni volta che portava qualcuno nel loro appartamento.
Ricapitolando, Jean decise che no, non si era lamentato eccessivamente.
Infilò le mani nelle tasche dei jeans scuri che indossava, fissandosi le punte degli scarponcini.
Per tutto il tragitto si era chiesto se stesse facendo la cosa giusta, se non era meglio dare buca allo sconosciuto; ma, diamine, ogni volta si era detto che sarebbe stato veramente spregevole da parte sua.
Si strinse nelle spalle e aggrottò le sopracciglia; sfilò dalla tasca il cellulare e spiò l’ora: constatò che doveva entrare nello Starbucks e affrontare quel maledetto appuntamento.
Sapeva ben poco del ragazzo: si chiamava Marco e “è davvero un bravo ragazzo” a detta di Eren. Aveva parlato di una marea di lentiggini.
E secondo il suo stupido e impulsivo coinquilino, quello sarebbe bastato a riconoscerlo.
A Dublino.
Dove era pieno di gente lentigginosa.
 
«Jean? Sei Jean Kirschtein?»
 
Si voltò di scatto, sorpreso.
Un ragazzo fasciato in un cappotto grigio gli sorrideva timidamente. Notò che le gote erano arrossate e pensò che quel dettaglio lo rendeva particolarmente carino.
Oh perché -Jean doveva ammetterlo- era davvero carino, almeno su questo Eren ci aveva azzeccato. E non poté non notare le lentiggini che aveva sul viso: e diamine se erano tante.
Notò che ne aveva anche sul collo, in quantità minore.
Annuì e porse una mano a Marco che prima di stringergliela sospirò di sollievo e sorrise, dicendo: «Per fortuna che ti ho trovato subito! Avevo il terrore di sbagliare persona! Piacere, Marco Bodt.»
Jean accennò ad un sorriso, terribilmente imbarazzato: sapeva che il suo viso si era colorato ridicolmente di rosso. Per evitare che si creasse un silenzio imbarazzato con un cenno del capo indicò la caffetteria e chiese: «Entriamo?»
Marco senza perdere il sorriso sulle labbra annuì e lo seguì all’interno.
Dopo aver ordinato si sedettero ad un tavolo vicino alla vetrina. Jean non poté non studiare più attentamente Marco, seduto davanti a lui: indossava un morbido maglione arancione -colore che secondo Jean gli donava molto- che accarezzava le spalle non troppo larghe e il petto magro.
Jean si sfilò il cappello rosso che indossava e si scompigliò i capelli, cercando in tutti i modi di rilassarsi: era un fascio di nervi tesi e sentiva il bisogno di muoversi, non riuscendo a stare per troppo tempo fermo.
Si portò la tazza alle labbra e bevve un lungo sorso, finendo con lo scottarsi la lingua; imprecò a mezza voce e guardò di sottecchi Marco che cercava di trattenere una risata per cortesia.
Perfetto. L’aveva conosciuto da neanche un quarto d’ora e già aveva fatto la figura dell’imbecille.
«Anche a me capita sempre.» disse Marco, rigirandosi la tazza fra le mani.
Jean sorrise, lievemente più rilassato, e chiese: «Come vi siete conosciuti tu ed Eren?»
«Ad una festa, abbiamo un amico in comune, Armin Arlert, lo conosci?»
Jean annuì e collegò il nome al viso dai lineamenti dolci del biondino che spesso si univa a loro a pranzo nella mensa del college.
«È un tipo apposto» disse per poi aggiungere «a differenza di Eren.»
Marco rise e dopo aver bevuto un sorso di cappuccino disse: «È un tipo… Energico.»
«È completamente fuori, dammi retta. Io ci vivo insieme!»
Marco annuì e fissandolo con i suoi occhi color nocciola disse: «Uhm, me l’ha detto.»
«Non oso immaginare cosa ti abbia raccontato di me.» Jean si appoggiò allo schienale della sedia, nettamente più rilassato.
Marco gli sorrise e cercando di non scoppiare a ridere: «Ha accennato ad una volta in cui andasti in giro per il campus-»
Jean lo interruppe con un gesto della mano, completamente rosso.
Maledetto Jaeger, gliel’avrebbe pagata molto cara.
 
Eren si chiese cosa l’avesse spinto ad organizzare quell’appuntamento; in fondo, Jean era fastidioso a prescindere, indipendentemente dall’umore. Perché diavolo allora mesi prima si era sentito in dovere di trovare un compagno al coinquilino? Si diede per l’ennesima volta dell’idiota e si segnò mentalmente che la prima cosa che la mattina seguente avrebbe fatto sarebbe stata andare nella mensa e bersi almeno due tazze di caffè.
Fissava da non sapeva quanto tempo il soffitto bianco della sua camera, steso nel letto, terribilmente stanco e infastidito.
A impedirgli di dormire, per la quarta o quinta volta di seguito -aveva perso il conto-, cigolii, sospiri e botte contro il muro della sua camera.
Se solo Jean non lo avesse disturbato ogni volta che ci dava dentro con Marco, sarebbe stato indifferente. L’unica cosa positiva di tutto ciò -se voleva vedere il bicchiere mezzo pieno anziché mezzo vuoto- era che Jean non gli scoccava più quelle occhiatacce ogni qual volta che lui portava qualcuno a passare la notte lì e che non doveva più sorbirsi i suoi melodrammatici soliloqui ricchi di parole biascicate a causa dell’alcool.
 
«Jean.» assomigliava più ad un gemito il suo nome pronunciato da Marco che, sotto di lui, respirava affannosamente.
Il ragazzo si abbassò a baciarlo, carezzandogli il viso e soffermandosi con le dita sulle miriadi di lentiggini che gli spruzzavano il viso.
Il moro si puntellò sui gomiti e poggiò una mano sulla nuca di Jean, impedendogli di allontanarsi, l’altro gli strinse i fianchi magri con le mani e si separarono solo quando l’ossigeno venne meno.
Jean si lasciò scivolare accanto a Marco e l’uno accanto all’altro, le gambe intrecciate, in silenzio riflettevano su come le loro vite, in uno Starbucks qualunque di Dublino erano cambiate: erano passati mesi da quel pomeriggio alla caffetteria e quel giorno, Jean aveva smesso di ritenere quell’appuntamento una tortura dopo neanche mezz’ora che si era seduto a quel tavolo a parlare.
E, a distanza di mesi, Marco era diventato il suo punto di riferimento, il suo rifugio dallo stress, dalla vita.
E Jean poteva affermare -con un certo orgoglio, anche- che il volto del ragazzo non era l’unica parte del corpo ricoperta di lentiggini.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 
   
 
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