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Autore: Hanairoh    12/07/2008    3 recensioni
Piccola one-shot scritta per il 20 giugno (che, come sappiamo, è il giorno del compleanno di Edward). Questa storia parla dell'ultimo compleanno della vita umana di Edward. Il titolo è quello dell'omonima canzone dei Linkin Park 'Numb'. Leggete e recensite!
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non avevo mai visto il giardino di casa mia così addobbato: tavoli, sedie, decorazioni, luci,vasi di fiori, persino delle lanterne per quando fosse sceso il buio. Inutile dire che sui tavoli c’era ogni ben di Dio. Aperitivi, coppe di champagne e altre prelibatezze che solo un avvocato del calibro di mio padre può permettersi. Era pomeriggio inoltrato, e il sole stava ormai tramontando; vagavo tra i tavoli afferrando di tanto in tanto qualche stuzzichino dal vassoio del cameriere di passaggio.

C’erano proprio tutti: lo zio Charles, la cugina Catherine, la nonna Josephine con il marito Anthony, persino quei due pagliacci dei miei amici Evan e Johnatan. Ovviamente, ignorando le mie richieste –diciamo anche suppliche- s’erano portati dietro tutto il gruppo; Albert, che come al solito non faceva altro che ingozzarsi, William, la cui passione era corteggiare le ragazze –e in quel momento ce n’ erano parecchie- e tutti gli altri. Persino quel fannullone di Carter, ma cercavo di non badarci, anche se l’ istinto mi diceva di girargli alla larga dopo il nostro ultimo litigio.

Proprio mentre ero immerso in una conversazione con mia cugina Jane –più giovane di me di almeno tre anni- qualcuno mi agguantò per il braccio e mi trascinò via, lontano dalla calca. Avrei voluto ringraziarlo, ma non feci in tempo ad aprire bocca che mi ritrovai sotto il portico di casa. Era stato mio padre, evidentemente voleva parlarmi senza avere nessuno tra i piedi.

"Allora, Edward, ti stai divertendo?".

Scrollai le spalle. No, non mi stavo affatto divertendo, anzi, avrei tanto voluto andare in camera mia e buttarmi sul letto, ma non volevo offendere mio padre: lui e la mamma si erano impegnati tanto, e non volevo che il frutto del lavoro di due settimane andasse sprecato. Inoltre, non capita tutti i giorni che la famiglia Masen si riunisca, in quanto tutti residenti in città diverse. Pensai alla zia Sara, che si era recata qui dal Nord Dakota solo per il mio diciassettesimo compleanno. Oppure la sorella di mio padre, Ingrid, che abitava in una sperduta cittadina dell’ Ohio, insieme alla figlia.

Potevo dare questo dispiacere ai miei genitori?

"Si, papà, è una bellissima festa", mentii spudoratamente; negli ultimi tempi ero diventato così bravo a raccontare il falso da suonare convincente. Lui però sembrò soddisfatto.

"Volevi chiedermi solo questo?".

Papà scosse la testa. Mi fece cenno di seguirlo in casa. "Vieni, voglio darti una cosa".

Curioso, lo seguii fino al piano di sopra. Forse aveva intenzione di farmi vedere il regalo di cui lui e mia madre avevano discusso per parecchi giorni. Non ero mai stato il tipo da origliare da dietro le porte, ma ultimamente lo facevo spesso; ero ansioso di avere notizie riguardo il fronte americano, dato che la guerra infuriava ancora. Qualche giorno prima però ero incappato in una conversazione alquanto strana: mamma e papà erano chini su di uno scatolone nero rettangolare, ma non ero riuscito a sbirciarne il contenuto.

Papà entrò nella stanza che divideva con mia madre e, una volta soli, chiuse la porta per bene. Si chinò e da sotto il baldacchino estrasse un pacco. Lo stesso che avevo visto nella camera quattro giorni prima.

"Questo…questo è per te, Edward", esordì mio padre. Benché fosse avvocato, quindi, in teoria, un eccellente oratore, non si sentiva a proprio agio nel mettere a nudo i propri sentimenti, specie con la sua famiglia. Presi la scatola tra le mani; non era leggera, ma neanche pesante. Assomigliava a quei pacchi da regalo per i vestiti d’alta classe. Sperai con tutto me stesso che i miei genitori non si fossero messi in testa di regalarmi un altro completo da sera, o avrei rischiato di esplodere: ne avevo già cinque, senza contare quello che lo zio Henry mi aveva spedito da New York –non era potuto venire a Chicago per problemi di salute, a quanto pare aveva l’influenza- e l’abito da cerimonia che Evan mi aveva regalato il giorno prima. ‘Non si sa mai’, aveva detto facendomi l’occhiolino e scoppiando a ridere alla vista della faccia che feci quando ebbi capito a cosa alludesse –quel ragazzo aveva un senso dell’umorismo da pagliaccio.

Ecco perché ero curioso di sapere cosa contenesse quel pacco: sforzandomi di non mostrare troppo zelo, scartai la carta nera che lo copriva e sollevai il coperchio.

Rimasi a bocca aperta dallo stupore.

"Allora…che te ne pare?", chiese mio padre.

Adagiata sul fondo di velluto, c’era una divisa, ma non una qualsiasi: era la divisa militare che avevo visto indosso a papà in qualche sua fotografia da giovane. Era di un verde spento, le spalle e i bordi delle tasche e delle maniche ricamati in fili d’oro. Sul petto, anch’essa cucita in oro, spiccava una scritta, o meglio, delle iniziali: E.A.M. Era il nome di mio padre –Edward Alfred Masen.

"Puoi sempre dire che la A sta per Anthony, no?", suggerì papà quando non vide una mia risposta. "Certo, forse, giovane come sei, avresti preferito qualcosa di più adatto alla tua…".

Non gli fu possibile continuare perché lo abbracciai di slancio e lo strinsi con tutta la forza che avevo; lui ricambiò, e sentii una lacrima scendermi lungo la guancia.

"È bellissimo, papà. Grazie".

Lui si staccò e mi mise le mani sulle spalle. Lo guardai negli occhi, lucidi, e vi lessi tormento. Erano diversi dai miei –il castano scuro dei suoi non era affatto simile allo smeraldo degli occhi che avevo ereditato da mia madre- eppure in quel momento notai una somiglianza.

"Figlio mio…io…io non ho mai approvato, e mai approverò, la tua decisione di arruolarti, ma sappi che…io e la mamma ti sosterremo sempre, qualsiasi scelta farai. Sappi che…qualsiasi cosa accada, tu portai sempre contare su di noi. Intesi?".

Annuii, incapace di rispondere a quella richiesta. Era sincero, me lo dicevano quegli occhi, ma dietro sentivo che per lui era un sacrificio. Sapevo a quale rischio andavo incontro –il rischio di cadere in battaglia ancora giovanissimo- ma per nulla al mondo avrei rinunciato al mio sogno.

In quel momento la porta della stanza si aprì, e io e papà ci scostammo, rossi in viso –un po’ per la commozione, un po’ per l’imbarazzo- e vedemmo mia madre che ci guardava con affetto.

"Non ho avuto l’occasione di darti il mio regalo, tesoro", disse, "perciò…tieni". Non mi ero accorto che tra le mani reggeva un piccolo pacchetto.

La carta grigia che lo ricopriva raggiunse quella nera sul pavimento. Non riuscendo a trattenere la mia curiosità, lo aprii. Era una medaglietta d’oro a forma di ellisse, di quelle che potevano contenere delle piccole fotografie; non era ornata, anzi, era piuttosto semplice, per niente femminile. Notai che era aperta. Dentro c’erano due fotografie in bianco e nero: una raffigurava i miei genitori abbracciati e sorridenti, e l’altra invece ritraeva loro e un bambino dodicenne con le lentiggini. Io e la mia famiglia.

"Così…non ti dimenticherai di noi…quando partirai", sussurrò mia madre senza riuscire a trattenere le lacrime.

Impossibile descrivere l’ondata di emozioni che provai nel constatare che, nonostante la ma scelta potesse sembrare insensata e stupida, avrei sempre avuto una casa e una famiglia da cui tornare –mi rifiutai di pensare ‘se fossi tornato’.

In quel momento, mentre abbracciavo mia madre e mio padre, feci una promessa: sarei tornato. In un modo o nell’altro, sarei tornato a casa, forse con la divisa di mio padre strappata e sporca, e avrei raccontato la mia esperienza da soldato, dei giorni in trincea col cuore in gola per l’angoscia, ma confortato dal metallo che portavo al collo e che mi infondeva coraggio e speranza.

"Mamma, papà…vi prometto che tornerò. Non so come né come né quando, ma tornerò. Ve lo prometto".

  
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