Anime & Manga > No. 6
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Autore: Danielle_Way    14/04/2014    2 recensioni
Viviamo su due pianeti distanti anni luce, non potrà mai accadere che io venga da te o che tu venga da me.
Ma se creassimo un passaggio?
Se ci fosse una strada che permettesse di raggiungerci?
Sono pronto a crearla, a scavarla con le mie stesse mani. Scaverò fino a quando i palmi non sanguineranno e le dita perderanno la loro sensibilità, scaverò fino a spezzarmi la schiena.
Scaverò perché possiamo finalmente incontrarci a metà strada.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nezumi, Shion
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Story of an Airhead ~ Come back to me.”
 

Il vento soffia con forza piegando i rami più fragili degli alberi e scompigliando le loro folte chiome di un verde acceso, le foglie si staccano con estrema facilità dai rametti e si adagiano per pochi secondi alle basi dei tronchi, finiscono sulle finestre delle case e ne oscurano i vetri, prima di essere spazzate via da una nuova e più violenta folata.
Il sole splende nel punto più alto e centrale dell’immenso e libero cielo azzurro, segnando qualche minuto dopo mezzogiorno, caldo e luminoso nonostante la giornata ventosa.
Mi volto di scatto al rumore così simile a un ululato causato dall’ennesimo colpo di vento, guardando attraverso il vetro della finestra. Faccio vagare lo sguardo oltre gli alberi e il parco fino a quando la vista non viene oscurata dagli alti palazzi in costruzione, poi lo sposto in tutte le altre direzioni.
Come se fossi alla ricerca di qualcosa, come se credessi davvero di poter vedere, catturare, tirare a me quel qualcosa con la forza, come il vento strappa le foglie e le allontana per sempre dai loro rami.
Con un sospiro appena pronunciato abbasso nuovamente la testa sulle pratiche sparse disordinatamente sulla scrivania lignea, stropicciandomi piano le palpebre.
Alla mia destra, poco lontano dal mio braccio, una busta bianca con un foglio che sporge dall’interno e con la linguetta rovinata dal continuo aprirla e chiuderla, gettarla via, poi riprenderla, chiuderla nuovamente e riaprirla pochi attimi dopo.
Ogni giorno vola via così.                                  
Alzarsi, prepararsi, raggiungere il prima possibile la sede del Comitato di Ristrutturazione, presiedere la riunione mattutina dei membri del gruppo, dare indicazioni sul da farsi e ritirarmi nel mio piccolo studio per dedicarmi a questioni burocratiche e alla coordinazione delle “operazioni” dalla mattina fino al tardo pomeriggio, con una piccola pausa soltanto verso l’una; sistemare tutto e accertarsi di non aver lasciato nulla incompiuto o in disordine, dare ai membri del gruppo l’appuntamento per l’indomani, tornare a casa da mia madre per cenare e scambiare qualche parola con lei. Capita anche che si uniscano a noi il signor Rikiga o Inukashi e il piccolo Shion, sempre con un paio di cani al seguito.
Sono fiero di far parte del Comitato di Ristrutturazione, che si occupa direttamente della rinascita -anzi, dell’assoluto rinnovamento- di quella che è stata No.6 fino a non molto tempo fa, in questo modo riesco a intervenire non soltanto nella ricostruzione fisica della città, ma anche negli interventi di annessione dei territori prima al di là delle mura di No.6 (come il West Block, per esempio), nei rapporti con le altre città-stato e nel sistema interno di governo che a poco a poco va nascendo e sviluppandosi. Nulla deve essere tralasciato, tutto deve essere modificato perché non ci sia mai più una nuova No.6.
Era quello che volevo, no? Occuparmi personalmente di queste cose.
Sono sicuro che anche Safu lo avrebbe voluto, e avrebbe voluto prenderne parte anche lei.
Safu. Se potessi essere qui e vedere come sto adesso, mi molleresti uno schiaffo.
Dannazione.
Le cose non potrebbero andare meglio con il Comitato, stiamo facendo tutti in gran lavoro e i risultati sono davvero soddisfacenti. Anche gli abitanti del West Block, che all’inizio si erano mostrati giustamente ostili nei nostri confronti e nei confronti del nostro desiderio di unificare tutti i territori appartenuti a No.6, adesso convivono senza alcun problema con gli ex-abitanti della città-stato.
Il negozio di mia madre va a gonfie vele, e di recente abbiamo fatto ingrandire un po’ la nostra casetta.
Il signor Rikiga ha smesso di avere a che fare con l’alcool da quando l’ha incontrata dopo tutti quegli anni, ha ripreso la sua attività di giornalista e fondato una rivista tutta sua con una sede in un palazzo messo a nuovo del West Block.
Inukashi ha preferito non cambiare nulla del suo vecchio hotel, anche se qualche pezzo ormai troppo cadente è stato sistemato, e anche i suoi affari vanno abbastanza bene; il piccolo Shion cresce tranquillo e ha già cominciato ad andare in uno degli asili per bambini che noi del Comitato stiamo istituendo.
Direi che va tutto benissimo, aver raggiunto questi risultati in un così breve tempo è un traguardo enorme.
Ma..
Inukashi dice sempre che penso troppo- e che i miei pensieri sono troppo confusi e ingarbugliati perché la gente normale possa comprenderli. E che nonostante tutto non sono cambiato, sono il solito ragazzino svampito, e mi chiede ancora di andare ad aiutarla a lavare i cani.
Proprio come se nulla fosse cambiato da quando eravamo tutti nel West Block, tenuti insieme dall’ardente desiderio di vivere, di sopravvivere.
Quando mi ritrovo grondante di sudore sotto il sole cocente di metà settimana, con i cani spelacchiati che si scuotono ricoprendomi di goccioline d’acqua e sapone, Inukashi che mi punzecchia e ride, Rikiga che ogni tanto ci raggiunge con una scusa qualsiasi per non ammettere di aver desiderato ritrovarci tutti nuovamente in una situazione simile, è come ritornare indietro nel tempo per qualche ora.
Non dico che quello sia stato un periodo facile, che riuscissi ad essere felice sapendo di mia madre al di là di quelle mura e non poter tornare per abbracciarla e rassicurarla che stessi bene, di Safu in pericolo, con il rischio costante di voltare l’angolo ed essere colpito da una pallottola in testa o essere aggredito da qualcuno soltanto per un tozzo di pane duro.
Eppure, per qualche motivo, non riesco a trovare nulla di tutto ciò che quel periodo della mia vita mi ha dato, adesso.
Porto la mano ai capelli, arricciando con un dito un paio di ciocche bianche. Alla luce accesa del sole sembrano quasi trasparenti.
Mi alzo con lentezza dalla sedia e comincio a raccogliere e impilare i vari fogli, li ripongo in un cassetto della scrivania e controllo di non aver lasciato altro in giro. Faccio indugiare lo sguardo sulla busta aperta ancora per qualche secondo; la afferro, la accartoccio e la getto con uno scatto nel cestino.
Infine, dopo aver indossato il cappotto, esco velocemente dallo studio.
Non riesco a concentrarmi con tutti questi pensieri per la testa. Non posso proprio farcela, è più forte di me.
Safu, perdonami.
«Shion? Oggi non hai il turno fino a sera?» mentre sto scendendo velocemente le scale, sento una mano poggiarsi sulla mia spalla.
«Ah … » mi volto un po’ a disagio, incontrando gli occhi di una ragazza che fa parte del mio gruppo. «Sì. Ho già fatto il grosso, continuerò domani. Sento il bisogno di prendere un po’ d’aria oggi.»
Lei rimane ad osservarmi ancora per qualche secondo, prima di annuire con un sorriso e salutarmi cordialmente.
Mi allontano ricambiando il saluto, anche se probabilmente ormai non può più sentirmi.
Finalmente arrivo al piano terra dell’edificio, sempre affollato di membri del Comitato e di volontari che ogni giorno si presentano numerosi per unirsi a noi e darci una mano nella ricostruzione della città. Intrufolandomi riesco a evitare altri incontri, e finalmente le mie mani si poggiano sulle maniglie del grande portone dell’entrata principale.
Aria.
La prima cosa che sento su di me, una volta messi i piedi fuori, è una violenta folata di vento che mi scompiglia i capelli e i vestiti.
Chiudo gli occhi, un po’ per proteggerli da polvere e foglie e dal sole accecante, e un po’ per assaporare questo momento.
Anche quella notte c’era vento.
Alcune piccole foglie vanno a posarsi sui miei capelli scombinati, una scivola sulla punta del naso e poi giù, a terra.
Quella notte c’era un vento forte, fortissimo. Molto più forte di questo. E pioveva, anche.
Allargo le braccia e le agito un po’ per scotolare il cappotto, poi mi blocco. Rimango così, con le braccia spalancate, gli occhi chiusi e un desiderio quasi incontenibile di sfogare tutta la mia frustrazione urlando.
Voglio urlare, urlare fino a quando non avrò più la voce, fino a quando non sentirò le corde vocali lacerate dal dolore. Fino a quando non avrò usato la forza di ogni singola fibra del mio corpo.
Voglio gridarlo così forte che tu possa sentirlo, e che nessun altro all’infuori di te possa.
Torna da me.
Stringo e mi mordo le labbra fino a sentire il sapore del sangue.
Lascia che il vento e la pioggia ti conducano da me, proprio come quella notte.
Riapro lentamente gli occhi, sperando di non vedere ciò che in realtà mi aspetto.
La strada è vuota, deserta.
C’era da aspettarselo, dopotutto è ora di pranzo, e con questo vento non sono molte le persone che uscirebbero per fare una passeggiata.
Con un sospiro lascio cadere le braccia contro i fianchi, scuoto la testa per far cadere ciò che era rimasto impigliato fra i capelli e mi stringo nel cappotto, coprendomi alla meno peggio.
Mi dirigo verso sinistra per fare il giro dell’edificio, diretto al parcheggio. Lì recupero la mia bici e vi monto su, imboccando la strada che si trova proprio di fronte.
Quasi non c’è nemmeno bisogno che spinga i piedi sui pedali: fa tutto il vento. Mi basta direzionare il manubrio e dare qualche colpetto di tanto in tanto per mantenere la giusta velocità. Fortunatamente, non essendo controvento, riesco a calarmi il cappuccio in testa e a coprirmi un po’ meglio.
In pochi minuti sono a casa.
«Grazie a lei, e buona giornata. Tornate a trovarci!» la voce dolce e appena un po’ stanca di mia madre e l’allegro scampanellio della porta della piccola panetteria che gestisce mi fanno subito capire che ha appena terminato con le vendite di questa mattina.
Di solito non torno così presto, spesso non arrivo neanche prima della chiusura serale.
«Shion!» si apre in un largo sorriso non appena mi vede. «Sei tornato presto, oggi. Proprio in tempo per il pranzo, ho preparato uno stufato di quelli che ti piacciono tanto. Pensavo che avrei potuto dartelo soltanto stasera, ma visto che sei qui … » la sua voce si affievolisce non appena si accorge che il mio sguardo è altrove, fisso su un biglietto appeso al frigorifero.
«Oh, sì, credevo di avertelo accennato … forse l’ho dimenticato? Ho chiesto al fioraio di prepararmi due bei mazzi di fiori per domani, proprio come mi avevi chiesto.»
Mi volto per lanciarle un’occhiata fugace.
Quando mamma fa preparare i fiori, segna sempre l’ordine su un foglio di carta che poi appende da qualche parte. E quando i fiori sono pronti, significa che andremo a trovare Safu.
«Grazie, ma non mi fermo a pranzo» dico a voce bassa, aprendo la porta della mia stanza.
Tsukiyo, che si trovava comodamente raggomitolato sul letto fino al momento in cui ho messo piede in camera, salta giù squittendo e venendomi incontro.
Mi abbasso per permettergli di arrampicarsi sulla mia spalla, poi torno nuovamente di là.
«Shion»
«Ho soltanto bisogno di fare una passeggiata. Non preoccuparti, mamma» le sorrido sperando di sembrare almeno un po’ rassicurante. «A più tardi» mi avvicino per sfiorarle la guancia con un bacio ed esco senza aggiungere altro.
Con Tsukiyo che si infila dentro una tasca del cappotto, monto di nuovo in bici. Ci vuole un po’ di più per arrivare all’area che prima comprendeva tutto il West Block, anche se noi del vecchio quartiere di Lost Town eravamo abbastanza vicini alle mura.
Quando avvisto da lontano le rovine e la distesa di erbacce incolte e rifiuti, comincio a rallentare; scendo e procedo a piedi per l’ultimo tratto, altrimenti rischierei di passare sopra qualche pietra troppo bruscamente e di bucare una ruota. Arrivato alle ripide scale di pietra che portano al cuore delle rovine, mi fermo.
Ripercorrere questa strada mi riporta indietro ogni volta, è come aprire tutto in una volta una grande scatola colma di ricordi che non si è mai trovato il coraggio di buttar via.
«Perdonate l’attesa, Vostra Maestà.»
Non è cambiato nulla dall’ultima volta che sono venuto qui. Ho desiderato che questa piccola zona rimanesse esattamente com’era prima della caduta definitiva di No.6. Prima vi erano diverse famiglie e diversi viandanti che si fermavano presso queste rovine, ma ormai tutti gli edifici inagibili del West Block sono stati abbattuti e ricostruiti e i loro abitanti trasferiti da qualche altra parte.
Anche i bambini che di solito mi cercavano per aver lette delle storie si sono ormai spostati in una vera e propria casa, lasciando qui soltanto silenzio e solitudine.
Percorro lentamente il corridoio deserto, stando attento a non fare alcun rumore, come se volessi preservare la tranquillità di questo luogo in cui il tempo sembra essersi fermato a qualche anno fa.
La porta di legno che appare davanti ai miei occhi per prima non è chiusa, ma soltanto accostata. Sposto subito lo sguardo a terra, tentando di individuare il pezzo di legno che avrebbe dovuto essere incastrato tra lo stipite e la porta stessa, non trovandolo.
Il corpo mi si paralizza all’istante, le mani cominciano a tremare senza controllo.
Con il cuore in gola, la spingo leggermente per lanciare una sbirciata all’interno, prima di spalancarla completamente.
A sinistra il pianoforte, ricoperto da un notevole strato di polvere, e accanto a lui un vecchio divano dalla federa rossa e sgualcita; a sinistra scaffali su scaffali, librerie ricolme di libri fino al soffitto; davanti il divano un tavolino in legno con una piccola lampada a olio spenta sopra e una sedia; infine, in fondo alla stanza, un letto.
Sia la coperta che le lenzuola sono completamente intatte.
Cosa aspettavo di trovarmi davanti?
Non l’avrò mica creduto davvero?
Tsukiyo fa capolino con la testa dalla profonda tasca, riconoscendo l’odore di quella che è stata la sua tana per molto tempo, e subito salta fuori, prendendo a percorrere e annusare ogni parete e oggetto della stanza.
L’unica cosa che manca è il piccolo fornello da viaggio, ma sapevo già che quello era partito con lui.
Tutto è esattamente come lo avevo lasciato. Il pezzo di legno non era abbastanza pesante da poter reggere anche con quel vento.
Dopo essermi chiuso la porta alle spalle mi lascio cadere a peso morto sul letto, sospirando pesantemente. Aspiro a pieni polmoni, espiro. Aspiro, espiro. Aspiro, espiro.
Il battito non accenna a rallentare. Tornare in questa stanza mi ha ridotto così.
Mi ero ripromesso che non avrei mai rimesso piede qui dentro da solo, eppure eccomi qua.
Raggomitolato su un letto, su questo letto, le mani strette fino a far male alle coperte e gli occhi ad un passo dall’offuscarsi di lacrime, neanche fossi una ragazzina.
Se solo la lettera che ho accartocciato e cestinato avesse raggiunto Inukashi il giorno in cui l’ho scritta, qualche settimana fa, forse adesso saprei già dove ti trovi, Nezumi.
Inukashi è pur sempre la miglior informatrice che si possa trovare nei territori dell’ex-No.6. Ora che non ci sono più barriere e anche i rapporti con le altre città sono migliorati, ha molte più conoscenze in giro per il mondo di quanto si possa immaginare. Con un po’ di fortuna, se tu ti fossi trovato nei territori di una di queste città, avrei potuto raggiungerti.
Non so cosa avrei fatto dopo, ma sarei venuto da te.
E invece, mi sono imposto di aspettare ancora.
L’ho promesso, no?
Non importa quanti anni ci vorranno, non importa quanto vecchio diverrò, io continuerò ad aspettarti qui, in queste terre.
 
Ma perché- perché non torni da me, Nezumi?
Hai promesso anche tu.
Hai promesso che saresti tornato, che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo.
 Un giuramento, non un bacio d’addio.
“Ci riuniremo ancora, Shion.”
 
Anche io avevo fatto un giuramento, poco prima.
Mentre il terrore di perderti dominava dentro di me, mentre tentavo disperatamente di fermare il sangue che continuava imperterrito a sgorgare copioso dal tuo petto, mentre urlavo incitandoti ad aprire gli occhi, a mantenerti cosciente, avevo giurato che, quando tutto sarebbe finito, saremmo tornati in questa stanza insieme.
Insieme.
 Ma tu hai scelto di partire, di lasciare questi luoghi per inseguire la tua natura di vagabondo, la curiosità, la sete di conoscenza.
Perché, per te, siamo sempre stati due mondi incompatibili.
Due esseri di due pianeti troppo distanti tra loro per comprendersi e incontrarsi, ma abbastanza per entrare in guerra.
 
Bianco o Nero.
Amici o nemici.
Dentro o fuori il muro.
“Me o No.6. Fai la tua scelta.”
  
Sono stato io a parlarti per la prima volta di una terza opzione.
“E se il muro venisse abbattuto?”
Per te e per gli altri sono sempre stato quel ragazzino svampito che sognava e proponeva idee da idealista.
Alla fine l’abbiamo fatto, lo abbiamo distrutto. Il muro che divideva gli abitanti di No.6 da quelli degli altri territori è crollato, ma non hai permesso che anche il muro che ha sempre diviso noi venisse abbattuto.
 
Così distanti.
Così diversi.
Così incompatibili.
Destinati a guardarci da lontano, ma mai a raggiungerci.
 
Eppure, da ingenuo ottimista quale sono sempre stato, ho raggiunto un risultato.
Ho perso le mie battaglie, non sono riuscito a mantenere la promessa fatta a Safu – non sono riuscito a salvarla – ed è una cosa che non potrò mai perdonarmi, ma insieme abbiamo davvero distrutto quella che era No.6.
 
Ho sempre stretto fra le mani due corti fili, stretti fino a farmi sbiancare le nocche perché non potessero mai cadere.
Safu. Il suo filo è scivolato giù prima che me ne rendessi conto, lasciando il pugno vuoto. E’ stato raggiunto dal vento, trasportato dove non avrei mai più potuto recuperarlo.
Nezumi. Il tuo è sempre stato il filo più sottile, così piccolo e trasparente da risultare quasi invisibile. Da quando ti ho conosciuto, l’unica cosa che mi è rimasta è stata aggrapparmi a questo filo. Le mie spalle si sono incurvate, le ginocchia hanno ceduto, sono rovinato a terra diverse volte, tenendo alto il pugno che stringeva la mia unica certezza, un filo invisibile e sfuggente. Facendo leva su quel pugno, sono riuscito ad alzarmi dopo ogni caduta.
Ma adesso l’unica cosa che riesco a percepire è soltanto l’estremità di questo filo.
Così vicino a disperdersi anche lui.
Così vicino ad abbandonarmi per sempre.
 
Dopo averti conosciuto, in quella notte di tempesta, sono passati quattro anni prima che ti rivedessi. Non avevo alcun progetto o prospettiva per il futuro che mi allettasse realmente, ma coltivavo ogni giorno un desiderio ardente di rivederti.
E quando siamo fuggiti insieme e abbiamo vissuto nel West Block è nato ciò che rappresenta adesso la mia condanna e la mia salvezza al tempo stesso.
Le ore passate insieme si sono trasformate in giorni, settimane, mesi. Abbastanza perché i tuoi splendidi occhi grigi completassero l’opera che avevano iniziato la notte del nostro primo incontro.
Profondi, imperscrutabili, di una sfumatura mai vista prima.
Quante volte mi hanno guardato duramente, ammonendomi; altre volte ridenti, sarcastici e maliziosi, o preoccupati e impauriti.
Colmi di lacrime, anche.        
E’ stato allora che l’opera si è compiuta. Si sono portati via tutto di me, cuore, anima, corpo.
Sono nelle tue mani, Nezumi.
Puoi portarmi sempre con te, oppure puoi semplicemente ignorarmi. Puoi anche lasciarmi per terra, e pestarmi violentemente.
Io aspetterò.
Non mi arrenderò, non lascerò che il filo più importante della mia vita mi venga strappato via. Mi butterò a terra per riprenderlo, per tirarlo a me nuovamente.
Finché non tornerai da me.
 
Ti aspetterò
Sono qui, puoi raggiungermi
Soltanto, torna da me
Lanciati fra le mie braccia spalancate, Nezumi.
 
Mantieni la tua promessa, io manterrò la mia.
 
“Voglio vivere qui. Sono attratto da te.”
“Ci sono molte cose che non capisco, ma nulla mi spaventa più del pensiero di perderti.”
“Se non ti avessi incontrato, non avrei mai capito che tipo di persona fossi realmente. Sarei divenuto un adulto apatico, stolto e obbediente. Tuttavia, passando il tempo con te … piangendo, ridendo e finendo anche per arrabbiarsi, so adesso che anche io ho tutte queste emozioni dentro di me. E ciò mi rende fiero. Sono felice di averti conosciuto.”
“Non andare, Nezumi. Voglio stare al tuo fianco. Voglio che tu mi sia accanto. È tutto ciò che desidero.”
“Nezumi, il mondo non significa niente senza di te. Nulla.”
 
 
Torna da me, Nezumi.
Spalancherò la finestra della mia camera per te.
Voglio rivedere i tuoi occhi grigi posarsi ancora su di me, i tuoi gesti eleganti e misurati, la tua figura comparirmi dietro all’improvviso. Voglio sentire ancora la tua meravigliosa voce cantare per qualcuno, voglio sentire la tua risata, la tua lingua tagliente apostrofarmi e deridermi perché sono pur sempre una testa vuota.
Vorrei che tornassimo insieme in questa stanza, l’unico posto in cui ho davvero sentito che ci fosse qualcosa di diverso, un “noi”.
Mi mancano le serate passate cercando di impiegare il tempo in qualche modo per non pensare alla fame che ci attanagliava lo stomaco; le serate in cui, dopo esserci divisi un tozzo di pane duro e aver bevuto in silenzio una tazza d’acqua calda, ti chiedevo se ti andasse di recitare qualche parte del Macbeth. E tu annuivi, e recitavi per me, per Cravat, Hamlet, Tsukiyo.
Quelli sono stati i nostri momenti, i momenti in cui ci siamo incontrati davvero, i nostri momenti.
 
E poi? E poi hai scelto di andare, non sono riuscito a trattenerti in alcun modo.
Perché siamo due dimensioni opposte in continuo contrasto tra loro, che non troveranno mai un punto in comune.
E’ così? Non c’è proprio nulla da fare?
Io so cosa posso fare.
Viviamo su due pianeti distanti anni luce, non potrà mai accadere che io venga da te o che tu venga da me.
Ma se creassimo un passaggio?
Se ci fosse una strada che permettesse di raggiungerci?
Sono pronto a crearla, a scavarla con le mie stesse mani. Scaverò fino a quando i palmi non sanguineranno e le dita perderanno la loro sensibilità, scaverò fino a spezzarmi la schiena.
Scaverò perché possiamo finalmente incontrarci a metà strada.
 
“Non vuoi proprio ascoltare, bambino testardo? Sii maturo.”
So che me lo ripeteresti per l’ennesima volta.
Un ragazzino, un ingenuo, uno svampito, uno sciocco idealista, un immaturo, un sognatore che non riesce a stare con i piedi per terra.
Questo sono io, soltanto una testa vuota.
Così stupido da sperare ancora che tu un giorno possa decidere di ritornare qui, a vedere se ho fallito nella promessa fatta a Safu oppure no, a vedere se rispetto e mi assumo le mie responsabilità, e magari fermarti, rimanere.
Così stupido.
Così un caso disperato.
Soltanto la triste storia di una testa vuota.
 
Riapro gli occhi, fissandoli sul soffitto scuro e chiazzato di muffa.
Avrei assolutamente dovuto evitare di tornare qui.
Tsukiyo spunta all’improvviso da sotto il divano, facendomi quasi prendere un colpo, e saltella squittendo fino a raggiungere la porta. Sembra proprio che stia cercando di dirmi “Esci! Esci!”.
Mi alzo con un po’ di difficoltà, sistemo per bene il letto e indosso nuovamente il cappotto,  che avevo lanciato sul divano.
Faccio scivolare lentamente le dita sulla fila di volumi con tutte le opere di Shakespeare, rimediando un po’ di polvere sui polpastrelli, e infine esco, sentendo la gola stretta nella morsa dell’ennesimo addio.
Non posso più tornare in questo posto, non da solo, non senza mantenere la promessa.
Una volta fuori do un’occhiata a terra, cercando un pezzo di legno adatto a sostituire il precedente: il vento sta cominciando a scemare, presto non sarà nient’altro che una piacevole brezza in grado appena di scombinare qualche ciuffo di capelli.
Mentre sono calato a rovistare fra un mucchio di foglie e rametti vari, un richiamo particolarmente forte Tsukiyo mi raggiunge tutto in una volta seguito da altri due diversi.
Si tratta di due topi della sua stessa dimensione. Uno ha il pelo di un bianco candido, l’altro di un marrone piuttosto chiaro.
Hamlet. Cravat.
Tento di tirarmi su, barcollo e mi addosso al muro. Fisso incredulo lo sguardo sui due topini, che ricambiano con i loro occhietti vivaci.
Avverto un rumore più forte nelle vicinanze, finché due stivali sporchi di fango fanno capolino dalle scale che portano alle rovine. La figura si abbassa dopo ogni gradino, e ben presto ecco anche dei pantaloni chiari, una giacca blu e un telo grigio di superfibra che copre la gran parte del suo volto.
Il cuore perde un battito.
I rami e le pietre che avevo in mano cadono rumorosamente a terra.
La figura si sfila il telo, rivelando dei capelli corti dai riflessi blu e due profondi pozzi di grigio come occhi.
E’ … è tornato … sul serio.
Nezumi si apre in un sorrisino divertito, non appena il suo sguardo mi individua.
«Sapevo che ti avrei trovato qui. Sciocco ragazzino, non cambierai mai.»
Gli occhi mi si riempiono di lacrime senza che possa fare nulla per impedirlo, non so se sia più gioia, sollievo o rabbia dovuta all’attesa tanto lunga.
Con due grandi salti sono davanti a lui, lo afferro per le spalle e lo stringo a me, incurante di ciò di cui aveva cominciato a parlare. Probabilmente il solito saggio sulla mia immaturità, ma non importa più nulla.
Non importa più nulla adesso.
Dopo qualche secondo di esitazione le braccia di Nezumi si sono chiuse attorno alla mia schiena, durerà per pochi attimi, ma saranno probabilmente tra i più felici della mia vita.
«Hai mantenuto la tua promessa.»
 
“Sai, alla fine, le persone tornano da coloro che amano di più.”
 
Ti aspetterò
Sono qui, puoi raggiungermi
Soltanto, torna da me
Lanciati fra le mie braccia spalancate, Nezumi.
 
 
 
 
Autor Corner.
                   
Shion è un sognatore, e lo sono anche io, perciò lo capisco fin troppo bene.
Ho voluto raccontare la sua “storia”, scrivere di quei pensieri che non è mai riuscito a comunicare o ad esprimere bene a Nezumi, e di quelli che neanche io forse riesco ad esprimere bene.
Questa one-shot può essere considerato un tentativo di scandagliare la mente di un personaggio in cui mi ritrovo particolarmente, di scandagliare la mia stessa mente, di comunicare per iscritto.
E’ molto probabile che il mio tentativo non sia andato a segno, ma va bene così.
Mi fa piacere averla scritta perché lo volevo e perché ne avevo un disperato bisogno, quindi eccola qui.
“Se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, sappiate che non s’è fatto apposta”, come disse il Manzoni (quindi adesso potete odiarmi doppiamente---).
Avrebbe anche potuto finire in modo molto più bastardo (fra le varie opzioni c’era anche far risvegliare Shion sul letto della stanza e fargli realizzare che il ritorno di Nezu era stato soltanto il suo ennesimo sogno).
Nezumi è uno spirito libero, non lo si può tenere per troppo tempo in un posto. Dopo un po’ comincerà a sentirsi come imprigionato, non riuscirà più a respirare. E Shion è la sua gabbia, ovviamente. Nezumi ha cambiato la vita di Shion, ma anche Shion ha cambiato la sua, e questo fa sì che entrambi si tengano in pugno, anche se in modi diversi.
Nezumi si sente in trappola, e questo lo fa allontanare. Shion lo sa, non può accettarlo fino in fondo, ma non gli impedirà di raggiungere la linea di partenza. Lui lo aspetterà sempre dopo quella del ritorno, sempre.
E poi, sapete, alla fine, le persone tornano da coloro che amano di più.
Insomma, se avrete voglia di lasciare un commento, di qualsiasi tipo, siete ovviamente i benvenuti, e vi ringrazio già da ora. Ringrazio chiunque deciderà di leggere, e magari anche di recensire.
Ah--- prima di chiuderla qui, volevo precisare che alcune delle citazioni prese da No.6 non sono andata a ricopiarle direttamente perché sarebbe stato difficile ripescare il capitolo giusto della novel, quindi a parte quelle dell’ultimo capitolo le altre le ho scritte come le ricordavo (perciò scusatemi per le eventuali imperfezioni). Avrei anche voluto aggiungere più descrizioni, ma capirete bene che questa os è già troppo lunga, quindi ho preferito lasciarla così.
 
This is for you, Nezumi.
 
 
xx,
Danielle.

 
 
   
 
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