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Autore: freelance    14/07/2008    1 recensioni
Pagine del diario di un pedone nella prima linea della scacchiera
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Era una giornata da soldato come tante altre, stavo presidiando un checkpoint nel centro di una città.
Importanza strategica zero, il fronte era lontano quasi cinquanta chilometri ma questi erano gli ordini e, se devo essere sincero, ne ero felice: non avrei rischiato il brivido di un proiettile, almeno quel giorno.
La guardia procedeva tranquilla, io ed i miei compagni passavamo il tempo a fumare, a parlare del più e del meno. Mi sentivo veramente bene, felice, sembrava quasi una scampagnata tra amici. La guerra non faceva paura quel giorno.
Un soldato semplice si vantava delle sue conquiste amorose dell’ultima licenza. Ci stava, andava bene e io guardavo la strada sorridendo e fumando, con le parole del soldato che entravano ed uscivano dalla mia testa.
Fu allora che vidi quella scena che ancora oggi mi visita nei miei incubi. Un camion con dei rifornimenti per il fronte, dopo i normali controlli al nostro checkpoint, proseguì diritto, fino ad una leggera curva cento metri più avanti, resa instabile dai detriti degli edifici distrutti.
Nel sterzare, le ruote del camion incedettero in un masso particolarmente grosso ma il camion lo superò, passandoci sopra. Nel farlo, con un grande fracasso, dal retro del camion cadde un bottiglione d’acqua, uno di quei bottiglioni di plastica da circa cinque litri che avevo avuto modo di vedere nelle mie giornate da soldato del fronte, al momento del rancio. L’autista ed il passeggero del camion non si accorsero di nulla e continuarono a guidare, sparendo dietro l’angolo.
Il bottiglione cadde, rotolò per alcuni metri e l’urtò fece saltare il tappo, lasciando fuoriuscire tutta l’acqua che si riversava in una macchia nera sull’asfalto inaridito dal caldo della stagione.
Non era prima acqua. Neanche seconda. Era acqua fetida, talmente sporca da sembrare quasi inchiostro. Sebbene noi fossimo le mani della guerra, il cervello non ci concedeva granché in fatto di cibo. Ne ero abituato ed avevo imparato a mandare giù qualsiasi cosa mi fosse data come rancio velocemente. Il trucco era non guardarla e non lasciarle il tempo di toccare la lingua. Il pensiero ed il sapore di quella roba ti avrebbe tolto la voglia di mangiare e saresti crollato in azione. Più di una volta mi sono chiesto se quella roba non mi avesse ucciso a scoppio ritardato, uccidendomi quando la guerra fosse finita.
La caduta del bottiglione attirò la nostra attenzione solo per pochi istanti. Non avevamo bisogno di acqua e se volevamo avvelenarci avevamo sempre le borracce.
Il soldato tornò a parlare delle cosce bianche e lisce di una ragazza, gli altri tornarono ad ascoltarlo stancamente ed io tornai alla mia sigaretta.
Restai a fissare quell’acqua per molto tempo, il bottiglione era già mezzo vuoto. O ancora mezzo pieno. Qualcosa ruppe la scena. Uno schiamazzare. Voci giovani, anzi infantili. Come topi che sbucano dalle tane, un gruppo di bambini corse in strada, verso il bottiglione. Erano scalzi, i vestiti erano ridotti a stracci ed erano sporchi come quell’acqua. Scarni, ridotti quasi a scheletri, facevano paura ed ammetto che provai anche ribrezzo.
Avevano solo sete e mi dissi che era stato un bene che quel masso avesse intralciato l’incedere del camion. Almeno qualcuno di avrebbe guadagnato. Certo, dovevano sbrigarsi a rimettere in piedi il bottiglione, altrimenti l’acqua sarebbe tutta andata persa.
Il primo che giunse al bottiglione aveva si e no otto anni. In una mano stringeva una brocca piuttosto grande ed iniziò a riempirla con l’acqua che sgorgava dal bottiglione. A pochi metri da lui, in ogni direzione, si avvicinavano altri bambini e notai che tutti avevano una brocca, una tanica o dei bicchieri da riempire. Espirai una boccata sorridendo guardando quelle formiche avventarsi tutte sulla grande briciola la provvidenza aveva fatto cadere.
Eppure il bambino sembrava spaventato, nervoso. Il bottiglione, mezzo pieno o mezzo vuoto, ora lasciava uscire solo filo d’acqua e la brocca impiegava tempo a riempirsi. Poteva tentare di alzare il bottiglione con l’altra mano per far uscire più acqua, ma non lo faceva. Nell’altra mano stringeva convulsamente un sasso piuttosto grosso e sembrava che da quel sasso dipendesse la sua stessa vita.
Gli altri bambini erano sempre più vicini. Correvano ed in poco tempo gli furono addosso. Fu allora che accadde il fatto. Il secondo arrivato, alzò una mano, in corsa. Anche lui teneva un sasso e con un gracile urlo abbassò con tutta la sua forza la mano che reggeva il sasso sulla testa dell’altro bambino. Un tonfo sordo e l’altro si afflosciò come un burattino.
Restai fermo, immobile, paralizzato dallo stupore e dall’orrore. Il grido del bambino aveva attirato l’attenzione dei miei compagni e ora stavano lì con me, in piedi, in silenzio, alcuni con la bocca aperta e la sigaretta tra le dita.
Il secondo era arrivato sul bottiglione e ora tentava di riempire una tanica, mentre con l’altra mano era pronto a proteggersi in ogni direzione. Fu subito accerchiato dagli altri bambini. Uno di loro tentò un assalto, un altro lo colpi alla nuca con il sasso ma anche questo non ebbe più fortuna: subito gli furono addosso in due che, dopo averlo colpito si azzuffarono a vicenda, mordendosi, graffiandosi e tentando di far valere ognuno il proprio sasso.
Ci trovavamo dinnanzi ad uno spettacolo orrendo: ogni bambino colpiva con violenza, l’odio era dipinto sui loro volti. Alcuni l’avrebbero chiamata rissa ma a me sembrava più un massacro. Nessuno era amico di nessuno, ognuno colpiva ed il sangue si mischiava all’acqua sull’asfalto che si disseminava di bambini caduti sotto i colpi di qualche avversario.
Nessuno di noi mosse un dito. Noi, i soldati, i grandi eroi che guardavano la morte in faccia ogni giorno, eravamo rimasti ammutoliti e terrorizzati da quei bambini. Ma non erano bambini, sembravano più bestie. Eppure facevano esattamente quello che facevamo noi. Si uccidevano a vicenda, senza ritegno, come noi. Ma una voce nella mia testa negava con tutto il suo cuore questa tesi. Non erano come noi. Noi eravamo diversi, eravamo migliori, eravamo ancora uomini.
Perché? Perché noi utilizzavamo il piombo e le bombe invece dei sassi? Perché noi combattevamo per nobili ideali invece che per semplice e fetida acqua?
Su questo, loro erano meglio di noi. Si affrontavano a testa alta, corpo a corpo e non c’era paura nei loro occhi. Non ricorrevano a futili armi e si uccidevano per qualcosa di immensamente più grande dei nostri nobili ideali. Si uccidevano per sopravvivere.
Non ricorrevano alla violenza per l’ideale. Il pensiero che qualcun altro potesse appropriarsi di quell’acqua provocava un infernale odio in loro. Erano pronti a morire per quell’acqua. E noi? Noi potevamo morire per l’ideale?
Qualcosa dentro di me rise malignamente. Ne avevo visti cadere di eroi. Tanti. E tutti alla fine avevano la stessa espressione. Difficile descriverla. I colori della paura, del rimpianto e dell’odio si mischiavano bene dando luogo alla tela che puzzava di morte. Ed eccoli lì, a tenersi con una mano le budella all’interno della pancia lacerata da una scheggia d’artiglieria, a chiamare la mamma con le lacrime agli occhi, a supplicare aiuto, a chiedere dove fosse l’arto perso, ad urlare che non volevano morire. I grandi eroi. Noi. Nessuno di quei bambini era come noi. Era vero. Loro erano migliori di noi. Loro erano i veri soldati, le macchine perfette.
Noi eravamo solo i manichini, gli uomini vuoti. I nostri petti erano gonfiati dalla visione romantica e distorta della guerra e le nostre teste erano riempite della paglia dell’ideale.
Il male, quei cattivi terribili come quelli dei grandi film o dei libri, che minacciano il bene, le persone da odiare e da combattere non erano i politici contro i quali altri politici ci avevano aizzato contro. Eravamo noi. Noi avevamo creato tutto questo.
Noi eravamo gli uomini vuoti che lasciavano impronte nel terreno solo per il peso del fucile che stringevamo tra le mani.
Noi eravamo gli uomini vuoti che svuotavano altre persone della loro vita.
Noi eravamo gli spaventapasseri che scacciavano le colombe della pace.
Noi eravamo gli uomini vuoti che si meravigliavano dinnanzi alla perfezione delle loro creature.
Forse anche Dio, il settimo giorno, guardando all’uomo che aveva creato provò la stessa emozione.
E forse anche Dio perse come me la speranza.
  
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