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Autore: Flajeypi    16/04/2014    4 recensioni
Il finale di Mockingjay mi ha lasciato l'amaro in bocca.
Come hanno fatto Peeta e Katniss a ritrovarsi? Che ne è stato di Gale? E degli altri?
L'ho immaginato così.
[Dal primo capitolo]
Vorrei dirgli che se se andasse per me sarebbe la fine: smetterei di alzarmi dal letto, di lavarmi, di mangiare, di vivere. Sopravvivrei, certo, perché incapace di uccidermi per via del debito che sento nei confronti di tutte le persone che hanno perso la propria vita per salvare la mia, ma questa non sarebbe una vita degna di essere vissuta. Vorrei dirgli che quando ha piantato le primule avevo creduto che fosse tornato da me, che avevo pensato che forse le cose sarebbero potute andare, se non bene, almeno meglio di come andavano prima. Ma non so farlo. Io non so parlare, non so esprimere i miei sentimenti, era lui che smuoveva le folle con le sue parole. Così rimango lì, a fissarlo, mentre lo vedo scrutarmi l’anima attraverso gli occhi.
“Ho capito”, dice. Ed io non ho idea di cosa abbia capito, ma dopo averlo detto mi stringe a sé e a me basta questo: è una promessa, significa “resterò, nonostante tutto”.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Gale Hawthorne, Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction




6.Fermare il tempo

Mi sveglio e realizzo di non aver dormito molto, perché quando guardo verso la finestra riesco a scorgere gli ultimi raggi del Sole che si tuffano nel crepuscolo.
Improvvisamente mi accorgo di un calore profumato di farina e cannella che viene dal mio fianco e mi volto: Peeta. Si è addormentato anche lui vicino a me mentre ancora mi stringeva la mano. Guardo il suo volto rilassato nella posa del sonno e mi ritrovo ancora una volta a pensare a quanto assomigli a un bambino quando dorme e a quanto è facile dimenticare le torture che ha subito guardandolo così beato e calmo. I capelli scompigliati gli incorniciano il viso e, con una punta di rossore sulle guance, osservo che così sembra ancora più bello.
Sento la sua mano stringersi alla mia: starà avendo un incubo? Non faccio in tempo a chiedermi se sarebbe meglio svegliarlo o meno che lui apre gli occhi, mi guarda e tira un sospiro di sollievo. “Nei miei incubi di solito ho paura di perdere te. E sto bene quando mi accorgo che ci sei”, mi tornano in mente le parole che mi sembra mi abbia detto secoli fa, in un altro mondo, quando ero sicura dei suoi sentimenti per me e non sono stata capace di ricambiarli o di apprezzarli come avrei dovuto. Ma adesso non saprei proprio dire se questo sospiro sia dovuto al fatto che è contento di constatare di non avermi persa o di essere sollevato per essere uscito dall’incubo che stava vivendo mentre dormiva.
“Scusa, mi sono addormentato”, dice lasciandomi di colpo la mano per mettersi seduto.
“Hai fatto bene, invece. Avevi bisogno anche tu di un po’ di riposo”, rispondo prendendogli di nuovo la mano:  mi mancava già il suo tepore. Lo vedo fissare le nostre mani intrecciate con uno sguardo dubbioso che non riesco ad interpretare.
“Che ore sono?”, chiede. Ma non sono tanto sicura che si stesse davvero preoccupando dell’orario.
“Non ne ho idea. A che ora dovremmo andare alla …”, non finisco la frase. “Mietitura”, penso, ma non riesco a dirlo.
“Alle 8”, risponde mentre cerca di afferrare la sveglia sul comodino dal mio lato del letto. Si sporge su di me per un attimo e io mi ritrovo a pensare che se Haymitch entrasse ora fraintenderebbe tutto. Ma è solo un attimo, la afferra e torna a sedersi accanto a me. Mi metto anche io seduta e lo guardo aspettando che legga l’orario.
“Sono le 7”, mi informa. “Forse sarebbe meglio prepararsi”, conclude guardandomi negli occhi. Non so cosa dire: non voglio prepararmi, non voglio assistere alla mietitura, non voglio uscire da questa stanza, da questo letto. Voglio restare qui. Con Peeta.  E lui capisce, lo vedo dal suo sguardo, ma non saprei dire se per lui sia altrettanto, se voglia restare con me.
“E’ solo la mietitura. Non significherà niente. Non li faremo entrare nell’arena, ricordi?”, dice lasciandomi la mano per accarezzarmi una guancia. Non posso fare a meno di chiedermi se questi piccoli gesti sono dettati dalla compassione o dall’eco dell’amore che provava nei miei confronti prima del depistaggio.
“Giusto”, sussurro rispondendo al suo sguardo, occhi negli occhi.
“Credo che dovremmo cambiarci. E dovremmo farlo in fretta: non so se Effie impazzirebbe di più per l’abbigliamento sbagliato o per il ritardo”, dice sorridendo per la prima volta da quando si è svegliato. Sorrido anche io, divertita dal fatto che riesca a sdrammatizzare anche nelle situazioni più tragiche. “Sì, la glassatura. L’ultima difesa del moribondo”, mi disse quando era più morto che vivo nell’arena dei Settantaquattresimi Hunger Games. Il ricordo mi colpisce improvvisamente e il mio sorriso si spegne.
“Cosa c’è?”, mi chiede notando il mio cambio d’umore. Sembra … preoccupato? Indubbiamente lo è, ma non per il motivo che la mia parte emotiva crede: non è più innamorato di me, anche questo è senza ombra di dubbio un dato di fatto. Continuo a fare finta di dimenticarlo e non so nemmeno per quale motivo.
“Brutti ricordi”, dico distogliendo gli occhi dai suoi. Giro il viso verso la finestra dal lato opposto per non guardarlo. Improvvisamente mi cinge con le sue braccia e mi stringe. Giro di nuovo il viso verso di lui e lo seppellisco nel suo petto mentre lo stringo anche io. E’ un gesto che sostituisce mille parole perché lui sa quanto possono essere orribili i ricordi che conservo e, anche se non sa quale ho rievocato, sa che la scelta è ampia e che ognuno di quei ricordi ha lame affilate più di una spada.
Vorrei rimanere così per sempre, ma Peeta ha ragione: dobbiamo prepararci in fretta se non vogliamo che Effie ci venga a prendere di persona e ci trascini per le orecchie alla mietitura. Mi stacco e lo guardo negli occhi.
“Credo che dovremmo prepararci, ora”, dico arrossendo senza sapere perché.
“Giusto”, mi imita lui sussurrando come ho fatto io poco fa. Si alza e si avvia verso la porta che spalanca velocemente.
“A tra poco”, dice cercando di sorridere. Ma è turbato almeno quanto me, lo vedo. In fondo non sappiamo ancora cosa fare per impedire che 24 bambini innocenti vengano spediti nell’arena.
“A tra poco”, gli faccio eco con una voce inespressiva. Chiude la porta dietro di sé e sparisce.
Rimasta sola decido di darmi da fare: magari concentrarmi su abito e trucco mi impediranno di pensare a cosa mi aspetta. Magari.
Faccio una doccia veloce e torno a sedermi sul letto poggiando la valigia affianco a me. Mi faccio coraggio e la apro: ci ho infilato qualche vestito di Cinna senza nemmeno guardarli perché non ci riuscivo senza piangere e non volevo rovinarli. Faccio un respiro profondo e ne tiro fuori uno molto semplice: azzurro, come gli occhi di Peeta, a maniche lunghe con una generosa scollatura sulla schiena, arricciato in vita, largo sui fianchi e lungo fino al pavimento. Copre la maggior parte delle mie cicatrici se si vogliono ignorare quelle sulla schiena ma, soprattutto, copre con la gonna larga e lunga anche le scarpe, così sarò libera di non indossare quelle trappole mortali che chiamano “scarpe col tacco”. Lo indosso insieme a un paio di ballerine in tinta e mi ritrovo a pensare a quanto Cinna fosse attento ai dettagli: nel disegnare i miei vestiti, teneva conto di tutti i miei vizi. Scuoto la testa per scacciare via questi pensieri. Non posso permettermi di pensare a tutte le persone che ho perso ora, questa giornata sarà già abbastanza pesante senza che io mi crogioli nel senso di colpa.
Mi guardo allo specchio e comincio ad armeggiare con i pochi trucchi che ho. Il risultato finale non è male, anche se il mio trio di preparatori storcerebbe sicuramente il naso. Come tocco finale, intreccio i miei capelli come al solito, come a volermi ricordare chi sono nonostante questo vestito e il trucco.
Sto mettendo via le poche cose che ho usato per prepararmi quando un lieve bussare alla porta mi distrae. Saranno passati 45 minuti da quando io e Peeta ci siamo separati e deduco che sia lui.
Vado ad aprire ma mi ritrovo davanti un Gale in giacca e cravatta con un espressione rabbiosa in viso.
“Ciao Catnip”, dice tra i denti. Poi si sofferma a guardarmi bene e la sua espressione cambia da corrucciata a stupita.
“Sei bellissima”, mormora dimenticando per un attimo il motivo della sua rabbia. Arrossisco senza volerlo al complimento.
“Grazie”, dico sentendo una strana sensazione, come se mi sentissi lusingata dal fatto che Gale pensi ancora che io sia gradevole, nonostante le cicatrici, la magrezza e i capelli bruciati. All’improvviso sento il bisogno di spiegargli perché l’ho spinto via prima, del patto che ho fatto con me stessa e mi ritrovo a sperare che capisca.
“Dovevo aiutarlo. L’ultima volta che ci siamo divisi è stato depistato. Io … dovevo”, dico in preda alla confusione. Gale cambia di nuovo espressione: non è più arrabbiato, non è più sorpreso è soltanto … triste?
“Sapevo che ti saresti sentita in colpa per sempre”, dice semplicemente prima di stringermi in un abbraccio che ricambio automaticamente. Ancora una volta in questa giornata, vorrei poter fermare il tempo e restare così. Anche se a stringermi è Gale, anche se ha progettato quelle dannate bombe, anche se non è venuto a trovarmi al 12 dopo la guerra. E’ Gale. Per un periodo ho pensato che potesse essere lui il mio futuro e mi sorprendo a pensarci anche ora.
Improvvisamente si stacca facendomi tornare alla realtà, mentre lo vedo diventare serio di colpo e fare un passo indietro.
“Devo scortarvi alla mietitura”, dice con tono grave prima di andare a bussare alle porte di Haymitch e Peeta.  Peeta appare sull’uscio della porta quasi subito con un’espressione a metà tra lo stupore e la preoccupazione, Haymitch, come al solito, tarda ad aprire la porta. Gale bussa di nuovo e sentiamo un rumore sommesso seguito dallo sbraitare del mio mentore che intanto spalanca la porta.
“Ah bene, vedo che il magnifico triangolo amoroso si è ricomposto”, dice ironico. Arrossisco cercando di ignorarlo mentre stringo i pugni.
“Divertente”, risponde Gale pungente. Peeta non parla e, pensandoci, non ha detto una parola da quando ha aperto la porta della sua stanza. Sbircio verso di lui e mi accorgo che mi sta guardando ma, quando incrocia i miei occhi, distoglie lo sguardo. Un’immagine di un dente di leone solitario si fa strada nella mia mente: l’ultima volta che io e Peeta abbiamo giocato a guardarci di sottecchi ne ho trovato uno e quello è stato il momento in cui ho capito come avrei impedito alla mia famiglia di morire di fame. Ma ora vedo qualcosa di diverso nel suo sguardo; non c’è più l’imbarazzo che gli imporporava le guance da bambino. A cosa starà pensando?
“Seguitemi, devo scortarvi alla mietitura”, ripete meccanicamente Gale notando la direzione del mio sguardo.
Ci guida verso la parte più elegante della residenza di Snow, fino al giardino in cui sono esplose quelle maledette bombe. Come allora, è pieno di bambini e ragazzini che aspettano il loro destino. Cerco di non guardare nella loro direzione mentre già sento le gambe tremarmi e il sudore imperlarmi la fronte. Devo resistere.
Gale ci sta accompagnando verso gli altri mentori, tutti ex-vincitori, e già da lontano riesco a scorgere Johanna, Beetee ed Enobaria. Mi chiedo dove sia Annie, quando ricordo che si trova in stato interessante e un’esperienza del genere non è proprio adatta ad una donna incinta. Fintanto che faccio queste considerazioni, ci siamo avvicinati al gruppetto di mentori e sento già i commenti fuori luogo di Johanna: “Ehi, ragazza in fiamme! Sempre rigida come una tavola, eh?”, mi rimbecca appena mi vede. Più la guardo nel suo vestito nero aderente, più penso che Johanna sia bellissima e più mi convinco di essere orribile con questo vestito e le mie cicatrici. E più mi rimprovero per dei pensieri così frivoli in un momento come questo.
“Ciao, Johanna, anche per me è un piacere rivederti”, le rispondo cercando di non pensare alle sue parole e ai pensieri che mi affollano la mente. Mi ignora per rivolgersi a Peeta: “Fornaio, ti trovo più sexy del solito”, dice tranquilla. A queste parole, guardo Peeta con attenzione e mi ritrovo a pensare di essere d’accordo con Johanna. Non so come ci riesco, ma evito di arrossire. Lui risponde con un “grazie” mentre sorride e si china a baciarle una guancia per salutarla. Non so perché, ma questo gesto mi infastidisce e mi distrae per un attimo da quello che mi succede intorno. Intanto Gale mi ha preso la mano per richiamare la mia attenzione e mi sta indicando un punto preciso sul palco che è stato allestito davanti all’entrata della villa.
“Io sarò esattamente lì, al fianco della Paylor. Se hai bisogno di qualcosa,  vieni da me. Ok?”, dice stranamente premuroso, prima di allontanarsi verso il punto che mi ha indicato senza aspettare una risposta. Il Gale che ricordo non aveva modi così gentili, anche se, lo devo ammettere, queste attenzioni non mi dispiacciono. Annuisco, anche se ormai non può più vedermi, improvvisamente grata del fatto che Gale non si allontanerà. Non mi sento a mio agio qui. Con Peeta e Johanna insieme, aggiunge il mio cervello.
Mi sento inquieta, tanto più che i miei occhi continuano a fuggire verso i visi spaventati di quei poveri bambini. Come farò ad aiutarli? Sento le gambe venirmi meno e la testa girare, così mi aggrappo alla transenna che delimita lo spazio dei mentori. Una mano si poggia sulle mie e alzo lo sguardo: Peeta.
“Tutto bene?”, mi chiede preoccupato.
“Una favola”, rispondo nervosa.
“Sei bellissima con questo vestito”, dice all’improvviso con un mezzo sorriso. Non rispondo e lo fisso imbambolata. Cerca di alleggerire la tensione, lo so, eppure non riesco a fare a meno di sentire un nodo allo stomaco: crede davvero che io sia bella o lo dice solo per cortesia? Mi ha ignorata da quando è uscito dalla mia stanza ormai quasi un’ora e mezza fa. Perché c’era Gale, mi suggerisce una parte di me, mentre l’altra è inspiegabilmente gelosa delle attenzioni che Peeta ha rivolto a Johanna prima di venire da me. Nuovamente, mi rimprovero mentalmente per questi pensieri stupidi mentre dei poveri bambini stanno per essere estratti per combattere per la propria vita. Quand’è che sono diventata così frivola?
Una voce amplificata interrompe i miei pensieri. E’ la Paylor. Sta iniziando un discorso sulle difficoltà di aver scelto di celebrare questi Hunger Games della Pace, sul coraggio che questi bambini dimostrano stando qui oggi senza battere ciglio. Mi chiedo cosa dovrebbero fare, secondo lei: sono obbligati a stare qui. Continua dicendo che questi Giochi sono necessari per dare stabilità alla Repubblica nascente di Panem e che saranno i primi e gli ultimi Hunger Games che questa Repubblica vedrà. Si allontana dal microfono e in sottofondo, in un crescendo sempre più potente, si sente l’inno di Panem. Vengo catapultata nell’arena quando al suono dell’inno seguiva la proiezione nel cielo di tutti i caduti della giornata, all’orrore che provavo nel vedere cosa eravamo costretti a fare per sopravvivere.  L’inno finisce e il silenzio cala come un velo su tutti i presenti.
Vedo tre bocce di vetro arrivare sul palco, portate da degli inservienti: niente più Senza-voce. Tre? Non faccio in tempo a domandarmi il motivo che Plutarch, che intanto si è avvicinato al microfono, chiarisce i miei dubbi: anche i mentori saranno estratti casualmente. Con estrema lentezza ed esagerata teatralità comincia ad estrarre i nomi dalla boccia in quest’ordine: prima un ragazzo, poi il suo mentore, poi una ragazza e poi il suo mentore. Il mio cervello non riesce a registrare i nomi dei ragazzi, sento solo che Johanna e Peeta sono già stati assegnati ai loro tributi, mentre io sto ancora aspettando di sentire il mio nome. Plutarch, intanto, sta pescando nuovamente dalla boccia delle ragazze e si avvicina al microfono. Vedo tutto a rallentatore come in uno di quegli stupidi film capitolini.
“Evelyn Snow”, legge dal foglietto. Il silenzio si impossessa prepotente della scena: qualsiasi rumore risuona come l’esplosione di mille bombe. Se prima sembrava un velo posato sulla folla, adesso questo silenzio somiglia più ad un cuscino premuto sulle bocche dei presenti per soffocare tutti i respiri.
E’ lei, la nipote di Snow. Vedo una ragazza bionda, che potrà avere al massimo 15 anni, farsi largo tra la folla. Mentre si avvia verso il palco dandomi le spalle, non riesco a scorgerle il viso, ma so che sta cercando di ostentare sicurezza, come ho fatto io quando sono stata un tributo: cammina a testa alta e non accenna a portarsi le mani agli occhi, segno del fatto che non si è lasciata sfuggire nessuna lacrima da dover asciugare con le mani.
Ora Plutarch sta pescando dalla boccia dei mentori.
“Katniss Everdeen”, dice. Un mormorio sale dalla folla. Vedo la mia faccia sbigottita proiettata sugli schermi. Non può essere vero. Non posso essere la mentore della nipote del mio peggiore incubo. E non conta che cercheremo di non farli arrivare all’arena, non posso essere la sua mentore. Non posso immaginare di essere per lei ciò che Haymitch è stato ed è per me. Cerco di concentrarmi. Sono Katniss Everdeen, ho 17 anni, sono sopravvissuta ad una guerra, sono viva, mia sorella è morta, sono la mentore della nipote di Snow. Ripeto queste parole come un mantra, sperando di riuscire a calmarmi mentre inizio a rifletterci su. Alla fine arrivo alla conclusione che proverò lo stesso a salvarla: le scelte dei padri ricadono sui figli, è vero, ma restano comunque dei padri; lo stesso vale per nonni e nipoti. Sento lo sguardo di Evelyn addosso e la guardo anche io. Se i nostri occhi potessero parlare direbbero: “questa è una sfida e non sarò io la prima delle due a mollare”. Non sarà facile farle da mentore, per nessuna delle due. Un pensiero mi colpisce: se davvero dovrò farle da mentore dovrò seguire Evelyn al centro di addestramento, così come Peeta ed Haymitch dovranno seguire i loro tributi. Almeno lasceremo la villa di Snow e tutti i ricordi macabri che contiene.
Intanto Plutarch continua a chiamare tributi e mentori, fino a che non sono state sorteggiate 48 persone tra bambini spaventati ed ex-vincitori segnati da un passato di cui nessun essere umano dovrebbe poter dire “l’ho vissuto”. A questo punto ognuno di noi ha un tributo a cui badare e a cui insegnare a sopravvivere in un posto in cui tutti sono contro tutti in un gioco di vita o morte. Mi guardo intorno, incerta sul da farsi, e incrocio lo sguardo di Peeta. So che stiamo pensando alla stessa cosa: come faremo ad evitare di farli arrivare nell’arena? La mia mente inizia a lavorare frenetica, in cerca di una via di uscita, di un’illuminazione qualsiasi, di uno spiraglio di speranza. Guardo i visi dei bambini che non sono stati estratti e non trovo sollievo ma soltanto orrore. I loro amici, forse anche fratelli, sorelle e cugini potrebbero essere tra quei 24 ragazzini che sono stati estratti. “Stanno per morire”, è tutto quello che leggo sui loro volti. Sposto di nuovo lo sguardo su Peeta mentre immagini confuse di tutte le Mietiture a cui ho assistito si susseguono nella mia mente e terminano con un “mi offro volontaria come tributo”.
La voce di Gale in lontananza che chiama il mio nome mi distrae dai miei pensieri e dal volto di Peeta. Mi giro verso il suono della sua voce e vedo che si sta facendo largo tra la folla per raggiungermi. In lontananza vedo che i tributi vengono scortati verso delle auto scure come quella che ha accompagnato me, Peeta ed Haymitch alla villa di Snow. Il terrore di non riuscire a fare niente per loro mi assale improvviso proprio mentre Gale mi raggiunge. Mi aggrappo a lui, sopraffatta dai ricordi e dalla paura, prima di sprofondare nell’abisso del terrore e dei sensi di colpa, mentre lui mi stringe forte. Mi sento come se fossi sul ciglio di un burrone e stessi per cadere.
“Mi dispiace”, mi dice in un sussurro tra i miei capelli.
“Voglio salvarli”, dico sull’orlo delle lacrime che mi costringo a non versare. La mente che continua a cercare una soluzione a tutto questo.
“Anche lei?”, chiede sorpreso e so che si riferisce alla nipote di Snow.
“Soprattutto lei”, rispondo improvvisamente decisa. Il momento di debolezza è passato. Mi sono allontanata dal burrone e sto correndo via. Mi stacco da Gale che mi osserva perplesso e mi guardo intorno. Incrocio lo sguardo di Peeta, poi quello di Haymitch, poi quello di Johanna e infine quello di Beetee. Beetee. Ora so cosa fare. E per farlo ho bisogno delle trasmissioni via etere.





Angolo dell'autrice
Ciao ragazzi! Eccomi qui con questo capitolo che, se devo essere sincera, mi piace meno di quello precedente :/
Non so, ditemi voi! 
E' un periodo un po' così, in cui non so mai se quello che faccio mi piace o se lo faccio solo per abitudine e temo che questo si riversi anche sulla scrittura. Aspetto vostri pareri più che mai, perchè non so proprio che pesci prendere. Vi imploro quindi di recensire (la scorsa volta non sono arrivate tante recensioni quante avrei sperato, sob). Recensite anche perchè così mi gaso e ho più voglia di scrivere e siamo tutti contenti (o almeno spero)! :)

Come al solito, ringrazio la mia Cccch, fonte perenne di ispirazione e di idee per la trama. Graaazie Cccch <3
(oh regà, leggete la sua fanfic che è asdjaskjfabknsfjabnskjsjf *_*  link qui: 
http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2462888 )

Ringrazio anche tutti quelli che mi seguono silenziosamente e che hanno aggiunto questa storia alle seguite/preferite/ricordate ma soprattutto quelli che hanno recensito e recensiranno perchè mi hanno dato e mi daranno modo di sapere cosa vi piace e cosa no :)

Alla prossima e ricordate: #moreshirtlessPeetaforeveryone!
  
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