Buonasera
meraviglioso fandom del mio cuore!
Stavolta ci ho messo di meno, visto? Che soddisfazione!
Ringrazio con tutto il cuore il blocco note del cellulare, senza il
quale,
vista la frequenza scarsissima con cui ultimamente ho potuto utilizzare
il pc,
questa storia non avrebbe mai visto la luce.
Se ne sia valsa la pena o meno, sta a voi giudicarlo!
S.
A
Cristina,
creatrice di mondi, scrittrice di storie.
Per
Aspera ad Astra*
*
Non
ha mosso un muscolo a parte le labbra
sottili, solcate da segni profondi, schiusesi soltanto il necessario
per
permettere a quell'imperativo, mascherato da gentile imposizione,
di trovar voce per essere udito, recepito, compreso
senza trascinarsi dietro nemmeno l'ombra di un possibile dubbio.
"No"
io rispondo, senza neanche pensarci,
conscio che per un tale ordine non
esista nemmeno la possibilità
di una
diversa risposta.
John
non chiede perché. Rimane lì dov'è,
immerso
della scomoda comodità
di una poltrona
divenuta confortevole soltanto dopo essere diventata, per colpa (o
merito)
dell’ abitudine, di sua proprietà.
Tutto
sembra migliore, quando ne si diventa gli
assoluti proprietari.
Si
solleva appena un po', accompagnato dallo
scricchiolio sommesso delle molle sotto il cuscino.
Non
mi mostro affatto attratto da quel rumore.
Faccio pressione su me stesso per non guardarlo, per non dargli neppure
la
remota soddisfazione di intuire che m'importi di carpire la delusione
dal suo
volto, scelgliendo di fissare lo sguardo sul fuoco che sfrigola nel
camino e
consuma i tizzoni, consapevole di sembrare assorto nella contemplazione
di
qualcosa, nascosto nelle schegge che lentamente mutano in cenere,
invisibile a
chiunque altro. So che si sta chiedendo cosa io stia guardando, o se
mai
tornerò a parlargli, o se non volgerò nemmeno gli
occhi nella sua direzione,
quando andrà via, dimentico di lui e della sua presenza. Le
mie dita danzano,
non realmente controllate dalla mia volontà, sulla mia
coscia, tirando il tessuto
dei pantaloni scuri, tormentandolo senza averne coscienza.
Una
volante della polizia, o forse un'ambulanza,
sfreccia in Baker Street a sirene spiegate. Torno bruscamente alla
realtà ma
non mi mostro interessato, frenando un'impazienza frutto di
un'abitudine
passata. Non mi sollevo trafelato dalla poltrona, né sorrido
a John complice,
così com'era un tempo, immutabile preludio a un'avventura.
La mano si blocca, e
mette fine alla danza. Anche nella stanza qualcosa sembra fermarsi,
quasi
quella carezza di pelle sulla stoffa fosse stata accompagnata fino a
questo
momento dalla musica di uno strumento inesistente.
Credo
che John abbia comunque compreso,
leggendolo nella mia inerzia, di essere, nonostante tutto,
più importante di
qualunque altra cosa, in questo momento.
È
più forte di me.
È
il momento di fare un altro passo. Lo capisco
dal modo in cui tossisce, sistemandosi meglio, forte di un potere che
non avrei
dovuto concedergli. Prende fiato. Nel silenzio che segue, posso quasi
udire il
rumore della paura che prende piano
possesso del suo corpo, quasi fosse liquida, simile a un'acquazzone che
ti
coglie all'improvviso, costringendoti a correre per sfuggirgli. Ed
è questo,
che John fa. Corre, senza pensare
alla possibilità di inciampare, sul terreno fradicio.
"Baciami"
John prova ancora.
S'illude che una fasulla sicurezza possa sortire l’effetto
desiderato, osando, come
è conscio a me piaccia,
mettendosi in gioco, chiedendo ancor più di quanto gli
è stato negato.
Io
sorrido, incapace di fare altro, chiedendomi
quando sia diventato così scaltro, così
insolente, così incapace di comprendere
qualcosa di chiaro, lampante, rimasto tanto a lungo davanti ai suoi
occhi,
sotto le sue mani, dentro la sua pelle.
Non sento mio il ghigno che mi deforma il volto in una smorfia
grottesca,
sconosciuta.
Non vederebbe Sherlock, su questa faccia. Neanche un'ombra, nemmeno una
traccia. Se avesse il coraggio di guardarmi, tornerebbe immediatamente
a
fissare le proprie mani, incapace di alzar nuovamente gli occhi su un
viso che
non conosce e che lo spaventa.
"No"
rispondo ancora. "Non lo
farò."
Un
respiro si mozza, e non è il mio. Mi sento
soffocare al suo posto e prendo fiato per lui, lasciando che l'aria
chiusa del
salotto penetri nei miei polmoni, bruciandoli, spingendo la mia mente a
distogliere l’attenzione dal reale motivo per cui mi trovo a
dover fronteggiare
una situazione come questa, quello per cui sto deliberatamente
rinunciando a
ciò che voglio di più al mondo.
Non è quello che si sarebbe aspettato. È deluso,
nuovamente. Lo percepisco
nell'aria, nel suo silenzio, nell'incertezza tra perseverare e
rinunciare.
So
che non è ancora al limite, nonostante stia
contemplando l'idea di andare, di lasciarsi alle spalle le parole aride
di uomo
ostinato, il bocciolo mai fiorito di un amore sbagliato. È
combattuto su quanto
ancora potrà osare, John Watson, soldato coraggioso,
disarmato e sconfitto dal
più inerme tra gli uomini.
Rumore
di unghie sulla pelle consunta della
poltrona. È un grattare sordo, che posso carpire in ogni
singola sfumatura,
immaginando ogni sottile filo di stoffa spezzarsi sotto quel tocco
inclemente,
lasciando indelebile traccia del passaggio di una mano rozza, mossa
dalla
rabbia, dalla voglia di sferrare un pugno sedata un attimo prima che
l'inevitabile accadesse.
"Bene"
John dice, anche se non va bene,
men che meno per lui.
"È okay."
È
sempre stato così. Me lo urlò in faccia il
primo giorno, continua a gridarlo adesso, anche se in faccia ci
guardiamo a
malapena. È tutto okay anche quando non lo è,
quando non lo è mai stato, per
quanto so, per quanto dice, per quanto poco sorride, ormai.
Demorde.
Forse no.
Non so cosa aspettarmi. La lingua scorre sulle sue labbra. È
indeciso. I piedi
si muovono, sta per alzarsi o forse per mettersi più comodo,
rigido sul cuscino,
dolorante ma impassibile, incapace di rompere l'incanto, di rinunciare una volta per tutte.
Sento
le sue parole schiaffeggiarmi, ma
la mano è ritratta un secondo dopo, senza
lasciarmi la possibilità di assaporare l'idea delle sue dita
sul mio viso,
sulla pelle arrossata, abrasa, cosparsa di barba leggera, segno di
sfrontata
svogliatezza.
Le
parole che seguono quella carezza violenta,
sono le peggiori, le più belle, le più disgustose,
per la semplice, pura derisione che si cela dietro ognuna.
"Fai
l'amore con me" mi chiede, e la
sua voce tentenna meno che mai, come non fosse la prima volta, come se
la sua
bocca l'avesse pronunciato tante di quelle volte da averci fatto
l'abitudine.
Il sapore di una simile richiesta
è
all'apparenza così consueto al suo palato da non serbare
alcuna amarezza,
alcuna incertezza.
Non
so cosa sia, il sesso. Non so e non ho mai
voluto sapere, prima di John, quali
piaceri serbasse il frenetico, irrazionale, contorcersi di corpi,
membra e
labbra, e men che meno conosco l'amore e la dolcezza che accompagnano
quell'intima connessione, segno di
fiducia profonda o riprovevole irresponsabilità.
Un
tizzone colpisce il tappeto, e sento qualcosa
bruciare nel mio petto alla stregua di quel truciolo di legno e cenere.
Penso a
quel desiderio a lungo celato, nascosto lì dove sono solito
rinchiudere
vergogna e rimpianto, che John ha, con pochissime parole, riportato a
immeritata libertà.
Chiudere
gli occhi, stavolta, ha il solo effetto
di scalfire un altro mattone di quella barriera creduta impenetrabile
tra me e
il pensiero di lui, di noi, intenti
in un atto a lungo deplorato. Chiudere gli occhi, riporta
inevitabilmente
all'immagine di un me stesso scoperto, senza difese, vulnerabile e
conscio
d'esserlo, felice di mostrare a qualcuno qualcosa sempre stato mio
soltanto.
Felice di poter permettere a lui, lui su ogni altro, di conoscere il
mio corpo,
d'impararne a memoria ogni minuscola
lentiggine, segno, cicatrice.
Non
lo incoraggio, stavolta. Non mostro
alcun'emozione, nemmeno la più bassa, eloquente, espressione
di scherno. Non
rispondo, sperando che interpreti il mio silenzio come una tacita
esortazione a
smettere di lottare.
A
smettere di credere.
Non
mi chiede niente, comunque. Aspetta,
forte di quella pazienza che
non riesco più a sopportare.
Non
ho alcun diritto su di lui, nonostante mi
azzardi a chiamarlo 'mio', come quel
primo giorno, come ogni singolo minuto da quando lo conosco.
È
sempre stato mio, qualunque cosa facesse,
qualunque ruolo ricoprisse, al mio fianco.
Il
mio John. Il mio dottore, il mio assistente,
il mio amico, la mia coscienza.
Nonostante
non lo sia davvero, non riesco ancora
a tollerare il pensiero di altre mani su quel che adesso, generoso
quanto
ingenuo, mi sta offrendo. Mani sottili. Mani di qualcuno che non esiste
più ma
la cui presenza ancora mi disgusta.
Le
parole graffiano la gola, aggrappandosi alle
pareti come implorandomi di dar loro voce. Una sensazione spiacevole,
come di
acqua ghiacciata che scorre nelle vene, mi coglie impreparato. Gemo.
"Sai,
ho sempre creduto che lo avremmo
fatto davvero, prima o poi" mi costringo a dire, anche se è
il mio segreto,
anche se mai avrei contemplato, prima, la possibilità di confessare, "che di ritorno da un caso,
dal lavoro, da
qualunque cosa stessimo facendo prima, tu ti saresti semplicemente
avvicinato,
pretendendo da me qualcosa che ti avrei dato."
Lui
è sconvolto. Lo capisco dal respiro
irregolare. Spero in cuor mio che non stia credendo
in qualcosa che probabilmente non accadrà.
Mi
piace pensare, con un pizzico di insano
orgoglio, che stia pensando all'occasione persa. Alle scelte sbagliate,
di
certo più numerose, troppo, di quelle compiute con giudizio.
"Prima,
sai. Prima, quando eravamo solo io
e te" Sto sussurrando, me ne accorgo solo adesso. "Quando la gente
indicandoci per strada parlava di due metà perfette.
Non di una metà che cercava disperatamente di congiungersi
con quella di
qualcun altro."
La
sensazione di malcelata onnipotenza non mi
abbandona. Voglio che sia la colpa,
a
tenerlo sveglio stanotte. Non il mio corpo, come vorrebbe. Non le sue
mani su
di me.
Non adesso.
Ha
osato, John, sperando e sbagliando.
Continua
ad accumularne, giorno dopo giorno, di
sbagli.
"È
questo, che sono?" John,
inaspettatamente, risponde. "Un giocattolo che non vuoi più,
dopo che
qualcun altro ha osato giocarci?"
Oh,
il mio John. Investito di barlumi d'ingegno,
nei momenti più inaspettati.
"Hai
deciso tu a chi appartenere"
dico, e non c'è pentimento nella mia voce, "io ti avrei
ripreso. Rotto,
danneggiato, distrutto. Tu hai deciso di restare con chi ha fatto di te
un
ammasso di rottami."
Una
risata segue, ed è l'ennesima sorpresa in
una serata che ne sembra stranamente colma.
"Cazzo"
dice, con voce cenciosa, quasi
non riuscisse a scandir bene le parole, "come se io ci fossi nato,
rotto."
So
a cosa si riferisce. Serbo, di quel giorno,
il ricordo di ogni istante.
"Io
ti ho spezzato" è tutto quel che
posso concedergli, "il colpo di grazia lo hai inferto con le tue stesse
mani."
Nessuna
risata sprezzante, nessun improvviso
grattare di unghie sul divano o tendersi di nocche. Sembra quasi stia
meditando, nel suo cuore, nella sua testa, ovunque egli nasconda quel
briciolo
di coscienza che gli è rimasta, sulle mie accuse.
Forse
non dovrei dire ciò che sto per dire.
Forse dovrei solo rimanere zitto e trattenermi, ma non graffiano
più, le
parole, nella gola. La dilaniano.
Fanno un rumore di ossa spezzate, se le si ascolta con attenzione. Il
rumore è
secco, tristemente familiare.
"Quanto
hai lasciato passare, John?"
chiedo, nonostante io sappia,
nonostante possa contare ogni giorno, ogni singola ora, ogni secondo. "Quanto tempo è
passato,
prima che fosse una foto al telegiornale a ricordarti di che colore
fossero i
miei occhi?"
Il
gemito che segue la mia domanda sembra colmo
di rammarico, o forse dolore, magari soltanto rabbia. Oppure, tutte e
tre le
cose insieme.
Non
mi dispiacerebbe se mi colpisse. Gli darei
occasione di toccarmi, almeno, mostrando una misericordiosa
pietà.
"Non
hai mai pensato, Sherlock" John
sussurra, la voce gonfia di qualcosa che trascende la rabbia e sfiora
il
pianto, "che possa essere stata la mia incapacità di
dimenticarmi dei tuoi
cazzo di occhi, a spingermi a cercare una distrazione?"
Oh,
il caro, dolce, sentimentale dottor Watson.
L'uomo che raccoglie, che serba in sé, che rende i propri
sentimenti
impenetrabili per poi potersene avvalere in sua difesa. L'uomo che ha
poche
pretese, in amore, per timore di non poter soddisfare quelle di chi
dice di
amare.
La
persona che soffre, che chiede indietro e non
riprende con sé, quando gliene si offre la
possibilità.
"Commovente,
John. Sul serio" non
posso fare a meno di prendermi gioco del suo tono melodrammatico. "Io
ti
ho teso una mano. Non l'hai stretta. Ho tentato, in ogni modo, di
spingerti a
capire cosa realmente volessi. Non hai reagito."
È
strana, questa conversazione faccia a faccia
in cui nessuno dei due conosce l'espressione sul viso dell'altro.
È un gioco di
deduzione, di quelli che amo, in cui però ogni indizio non
fa che deviarmi,
riportandomi al punto di partenza, impedendomi di andare avanti.
"Io
non ho più la forza, Sherlock"
John ammette, con un sospiro trattenuto che urla sconfitta, resa, mani
alzate.
"Non ho più la forza di leggere tra righe."
L'esasperazione
riempie gli spazi vuoti nella
frase. È un punto. Una virgola.
"Avrei
dovuto aspettarti, Sherlock?"
trascina le parole, insostenibili macigni che gravano sul suo petto. "Adeguare la mia vita alla decisione
dell'uomo che amavo di metter fine alla propria?"
Qualcosa
scatta. Non c'è realmente un rumore, ma
é simile a un sibilo quello che percepisco, della durata di
un istante. Il
rumore degli ingranaggi di un orologio maneggiati dalle mani sapienti
di mio
padre. Il sommesso fruscio di seta che scivola sulle corde del mio
violino. Il
rumore di un respiro mozzato al momento di un bacio.
"Sì"
mi ritrovo a dire, senza indugio.
"Avrei voluto che tu lo facessi."
Non
colgo egoismo nella mia scelta.
Neanche
un po'.
È
sempre stata l'unica possibile. Il solo
sentiero da intraprendere, in un labirinto di strade senza uscita. Non
è mai
esistita altra possibilità, per noi due, che adeguarci a
questa schietta,
sincera verità. Arrivata come uno schiaffo in pieno viso,
come un fulmine a
ciel sereno, senza belle parole a mitigarne gli effetti devastanti.
Per
chi uccide il primo giorno, per chi uccide
l'ultimo, per chi accetta senza fiatare, per chi sopporta per la
felicità
dell'altro, non c'è via di uscita.
Anche
per chi ama senza dirlo.
Anche
per chi, come noi, non ha mai scambiato
con l'altro una carezza, un bacio. Una parola d'amore.
Non
mi pento di ciò che ho detto.
Credo
stia piangendo. Sento gli spasmi leggeri
del suo petto scalfire l'aria, coprire il crepitio del fuoco.
"Già"
il suo è un leggero bisbiglio,
esitante, "è questo, quel che avrei dovuto fare sin
dall'inizio."
Si
è arreso. In modo diverso da come mi sarei
aspettato. Non va via. Non abbandona il mio, nostro,
salotto. Non trascina via le sue membra stanche e quel che
rimane della sua dignità. Ride, questo fa. Ride, ma non di
quella risata colma
di amarezza di cui ormai conosco fin troppo bene il suono. È
sconosciuta, in qualche modo. Non ne
riconosco una sola, singola nota.
"Ammetterlo"
dice, ed è un passo nella
giusta direzione, "Venire a patti con la realtà che il
futuro non sarebbe
stato possibile con nessun altro."
Fa
uno strano effetto, sentire quell'ultima
parola abbandonare le sue labbra. Un brivido freddo, poi caldo, poi
tutti e due
insieme, rinvigorisce il mio corpo teso, stanco.
Altro.
È una bella parola. La mia preferita.
È
una dichiarazione d'amore, di profonda
tenerezza, di totale abbandono.
Più
eloquente di un bacio, più di un abbraccio, più
di un intimo, profondo,
sfiorarsi di corpi nudi. Più del mostrare, l'uno all'altro,
i reciproci
difetti, molto più numerosi dei pregi, accettando.
Amandone il disequilibrio.
"È
tardi, allora" parla nuovamente,
senza aver bisogno della mia risposta, probabilmente già
conscio, in cuor suo,
del mio pensiero, della mia visione di questa storia mai nata che ci
sta
distruggendo.
"Ho
osato provarci. Ho osato andare
avanti, quindi è finita. Nessuna possibilità in
più per chi infrange le
regole."
Forse
dovrei dirgli che è vero. Che ogni via è
chiusa. Che ogni speranza è bruciata, arsa in una brace di
sogni rimasti tali.
Per incoscienza. Per codardia.
Eppure.
"Fondamenta,
John" mi ritrovo a dirgli,
senza nemmeno sapere perché io abbia scelto queste esatte
parole. "Le fondamenta, sono sempre
state la
chiave."
Un
ambulanza sfreccia lungo Baker Street, per la
seconda volta. Mi vengono in mente immagini su vecchi libri di scuola,
volte a
esplicare a studenti svogliati il concetto di Effetto Doppler. Non mi
alzo
nemmeno stavolta. Incomprensibilmente, non vorrei essere in altro luogo
che
questo.
"Fondamenta"
lui ripete, quasi abbia
bisogno di imprimerne bene il suono in mente, certo di poterne
comprendere il
significato solo dopo averlo fatto proprio.
"Abbiamo mai avuto fondamenta a sostenerci, io e te?" domanda.
Rispondo,
senza esitare. Non ho bisogno di
pensarci, stavolta. Le parole giacciono in attesa sulle mie labbra,
avide di
trovare libertà.
"Mai"
dico, e volgo lentamente lo
sguardo nella sua direzione, senza però saziare la mia
voglia di guardarlo, di
strappare violentemente l'immaginario drappo di stoffa che mi impedisce
di
scorgere il suo volto, di alleviare i morsi di una fame
che distrugge, dilania, spezza. È come un quadro,
infinitamente
bello, infinitamente raro, tenuto
celato per mantenerne intatto lo splendore.
"Sono
crollate ancor prima di
sorgere."
È
la fine.
Lo
sento nell'aria. Nelle parole in sospeso.
Nel modo in cui la poltrona
sembra avergli mostrato, improvvisamente, quella scomodità
di cui non si è mai
accorto prima. È inequivocabile. È in piedi, e
muove un passo. Uno, poi due,
poi tre, poi altri fino a perdere il conto. Il parquet sconnesso li
accoglie, custodendone
il suono familiare, caldo.
"Ho
capito, Sherlock" sussurra, a voce
talmente bassa da risultare impercettibile, "è chiaro."
Andrà
via. Entrerà in un pub, affogherà questa
serata in una pinta, o forse due, probabilmente troppe. Poi
tornerà a casa. Si
sdraierà sul letto, penserà a noi, e forse
piangerà. Non so dirlo con
esattezza. Percorrerà i diciassette gradini fino alla soglia
del 221B, e
scaccerà via le immagini, le istantanee della nostra vita
insieme, per
l'ennesima volta. Fuori di qui, cercherà invano di relegarle
in quel posto dove
finiscono le cose perdute.
Quello
dove vanno a finire i mozziconi di matita
delle scuole elementari, i libri prestati, i vecchi palloni da calcio
finiti
nel cortile sbagliato. Dove trovano asilo le lacrime non versate e le
occasioni
perse. Gli amori appassiti ancor prima di fiorire.
Cianfrusaglie.
Afferra
la maniglia, ma non l'abbassa. Sta
pensando, troppo forte.
A
me. A nessun altro. Io solo,
perché non esiste niente, al di fuori di me. Me con
lui, me senza di lui.
Verità,
ancora una volta. Solo questa.
Onestà.
Mi
chiedo, per un attimo soltanto, cosa sarebbe
successo, se avessi acconsentito a soddisfare il suo desiderio, questa
notte.
Se
lo avessi toccato, quando me lo aveva
chiesto.
Se
lo avessi baciato.
Se
avessi assecondato, senza indugio, il bisogno
fisico del mio corpo di abbandonarsi al calore del suo.
Non
è bello pensarci. Sembra quasi che un pugno
mi stia torcendo le viscere in una morsa di ferro.
Mi
accorgo che John non ha ancora varcato la
soglia d'ingresso. Credo sia fermo, la mano ancora tesa sulla maniglia
d'ottone. Forse aspetta un congedo che non gli concederò
mai. Un arrivederci
non lo ingannerebbe. Non al momento di un addio.
Le
note di una canzone, urlate a tutto volume
dalle casse di un'auto di passaggio, riempiono il silenzio nella stanza.
Non
riesco a distinguere una parola.
Sembra
quasi che il mondo voglia intromettersi
tra noi con la forza, senza però riuscire a trovare un
passaggio, un qualunque
modo per irrompere tra le quattro mura del mio appartamento. Freme,
impaziente
di renderci nuovamente partecipi della sua esistenza.
Impaziente di riportarci a una realtà di cui sia io che John
non sembriamo più
essere consapevoli.
"Io
ho provato, Sherlock" John esclama
e la sua voce respinge quel mondo una volta ancora, lasciandolo fuori,
chiedendogli di aspettare. "Ho calpestato la mia stessa
dignità affinché
comprendessi fino a che punto io ti ami."
È
la rabbia, che segue l'immediata amarezza. La
rabbia che s'insinua nel midollo dell'incomprensione, nel nucleo stesso
dell'incertezza, della frustrazione.
"Ti
ho aperto il mio cuore" poi
aggiunge, e odio, detesto il suo tono implorante, "non ho avuto
segreti,
con te. Non oggi."
Maschera
tutto con l'amore, John Watson. Non è
capace di fare altro.
Parliamo
due lingue differenti, io e lui, senza
neanche accorgercene.
"Il
cuore non c'entra, John" lo rendo
edotto su questa triste, necessaria verità, "l'unica tua
colpa, questa
notte, è quella di non aver preteso nulla da me, nulla John, che anche lei
non ti abbia concesso senza indugio."
C'è
un brusio sommesso, una presa allentata. Il
cigolio della maniglia che torna al suo posto, risparmiata,
quest’oggi, da una
torsione deleteria per l'arrugginita carcassa di ottone opaco.
Quella
che segue è attesa. Di quelle lunghe,
silenziose. Di quelle che dilatano i secondi e li mutano in minuti
troppo
brevi, in attimi troppo lunghi.
"È
questo, quindi" finalmente
comprende. "È lei."
Mi
irrita, corrode
come fossi acciaio sfiorato da una goccia d'acido, che ci abbia messo
così
tanto. Che abbia faticato ad attribuire la colpa all'unica, sola, responsabile di quanto accaduto
tra noi.
È
gelosia. Non conosco altra emozione, io che ne
sono scevro, che possa meglio equipararsi a quel che provo.
È morbosa.
Totalizzante. Rabbiosa nella
violenza
con cui mi trascina nel suo vortice.
"Non
c'è mai stato nessun altro, John"
la mia voce è affilata, colma di un sarcasmo che brucia, che
colpisce,
acuminato come la punta di una lama, "non c'è mai stato
qualcuno, nella
mia intera, penosa, esistenza, cui io abbia desiderato strappare via la
vita a
mani nude più della donna, la bugiarda, che tu chiamavi moglie."
Non
m'importa di sconvolgerlo.
Non
m'interessa se mi guarderà con ribrezzo,
d'ora in poi, o se sarà l'orrore
ad
adombrare i suoi occhi ogni qual volta si degnerà di porre
il suo sguardo sul
mio volto.
M'importa
parlare.
Portare
alla luce quel che ho nascosto per
troppo tempo.
Confessare
i miei crimini. Espormi alla pubblica gogna,
incurante delle conseguenze.
Arrendermi.
In
alto le mani, Sherlock. È stato facile, in
fin dei conti. Il peso è andato. Stai meglio,
così.
Anche
se adesso è consapevole dei mille modi in
cui l'hai uccisa, nella tua testa.
Forse
sta pensando che sia stato tu a farlo per
davvero. Il pensiero ti lusinga.
Avresti
voluto.
Indietro
non si torna.
Sembra
una vecchia filastrocca, come quelle che
recitava tua madre.
"Who killed Cock Robin?
I,
said the Sparrow,
with
my bow and arrow,
I
killed Cock Robin." (1)
Io,
disse Sherlock.
Io,
con le mie mani.
Io
l'ho uccisa.
La
sua reazione mi sorprende. Non grida. Non
emette un suono. Non accusa.
Sto
parlando del tempo, per lui. Delle nuvole
che sfumano il blu. Del vento gelido che entra nelle ossa, sotto la
pelle.
"Dannazione,
Sherlock" la voce non
graffia ma accarezza. "Perché è tutto
così complicato?"
Non
pronuncia quel nome nemmeno una volta. È
solo il mio, solo quello, a sfiorare le sue labbra, accarezzato dal suo
respiro. Qualcosa nel mio petto batte, dotato di mani, dita, nocche,
chiedendo
di uscire.
"Non
sei il primo. Non lo sarai mai"
poi aggiunge, ed è un'accusa stavolta, tagliente ma
smussata, agli angoli, dal
tono placido della sua voce. "Lo sai, Sherlock."
È
stupido, anche per lui, sottoscrivere un fatto
tanto ovvio. Non me l'ha mai nascosto.
"Non
avrei mai nemmeno preteso il diritto
di essere l'ultimo" è la mia risposta, "mi sarebbe bastato
essere uno."
Penso
alle crepe nel soffitto, al fuoco che
brucia l'ultimo ceppo, all'ennesima sirena dal suono distorto
giù in strada.
Penso a una sigaretta, all'odore del tabacco compresso nella sua
cartina. Penso
a due anni fa. Ai pugni in pieno volto. Ai denti rotti, al braccio
spezzato. Al
ghiaccio sui lividi. Alla sensazione che si prova quando hai una canna
di
pistola puntata alla tempia. Che scava. Che imprime un segno.
Penso
a una dose. Allo stantuffo che affonda. All'ago
che accoglie.
Ho
nostalgia della vertigine.
Del
vuoto
al petto, subito dopo il salto. Come sull'altalena. Più in
alto di tutti.
Una
voce mi parla. Assomiglia a quella di mio
fratello. Non mi piace.
Mi
chiede se voglio una spinta. Può farlo. Non
ha da studiare, può scendere in giardino.
Mi
chiede se la voglio forte. Mi chiede quanto.
Non
so rispondergli. Il volto di John aleggia
davanti ai miei occhi come fosse la mia coscienza, personificatasi per
indurmi
a non accettare.
Quello
che vorrei, è rispondere a Mycroft di
farlo. Forte, più che può.
Tanto
da poter sfiorare le nuvole con le punte
dei piedi.
"Cosa
vuoi, allora, Sherlock?"
esclama, domanda, grida, "di
quale ulteriore prova hai ancora bisogno?"
È
la domanda che avrei meritato sin dall'inizio.
È la domanda corretta in un mare di possibilità
sbagliate. Non è una mano tesa
che sfiora, né un bacio, né la promessa di un
piacere sconosciuto. C'è lui che
parla. Che ha bisogno di sapere. Che aspetta.
Ci
sono io che rispondo. Io che sazio il
bisogno. Io che soddisfo la pressante, estraniante, necessità.
Non
ho dubbi. Le parole vengono fuori lente,
premeditate, imparate a memoria.
"Fondamenta,
John" ripeto,
"Fondamenta."
È
in quest'esatto momento, che qualcosa accade.
Che il pollice preme sulla molla della biro, con uno scatto secco. Che
la
mano
trema, tentenna, si stringe a pugno.
Esito,
ma non ho tempo.
Non
più.
"Non
un bacio. Non l'amore" John
sussurra, ed è più vicino, "non un solo,
impercettibile, tocco."
Sfiora
la manica della mia camicia, nell'esatto momento
in cui pronuncia l'ultima parola. Un dito sfiora il mio polso, scoperto
dal
bottone slacciato.
È
il suo modo per dirmi che accetta, ma che non
è d'accordo. Non del tutto. La minuscola frazione di pelle
nuda sfiorata dalle
sue dita, brucia come fosse in fiamme.
"Tutto,
John" poi io dico, senza
nessuna intenzione di giungere a un compromesso, "ho bisogno di tutto
quel
che non hai dato a lei. Di ogni dono di cui l'hai ritenuta
immeritevole."
Mi
sento nudo. In qualche modo lo sono, anche se
non nelle vesti. Ho freddo, quasi ne fossi realmente privo. Il fuoco,
sulla
pelle, è appena una fiammella, adesso.
"Non
mi sarà mai concesso, quindi,
dimostrarti il mio amore in altro modo che a parole?" John mi dice, e
c'è
dolore nella voce, quasi quanto ne contengono le sue parole,
"sarò per
sempre macchiato dalla colpa di aver tentato
di amare qualcun altro?"
Di
nuovo mani, grandi, delicate, rispettose,
nella mia testa. Le sue, su un corpo sconosciuto. Su un corpo che non
è il mio.
Non
ne posso più. Sono così stanco che quasi non
percepisco più le mie stesse membra, la mia stessa voce. Mi
sento quasi un
esasperato precettore, intento a spiegare una nozione elementare a un
allievo
svogliato. Mi sembra di guardare la mia immagine da un punto indefinito
della
stanza. Come un film. Uno che non conosco ma di cui saprei ripetere
ogni
battuta a memoria.
È
ora che finisca. È ora che io smetta di
tormentarmi. È tempo che io abbandoni le fila alleate per
consegnarmi al nemico.
A uno che, in fondo, ha i miei stessi ideali ma diversa divisa.
"Non
ho bisogno di labbra sulle mie, per
quanto io le desideri. Per quanto faccia male rendermi conto di non
poter in
alcun modo rifuggire a un bisogno tanto degradante"
parlo, o forse grido, o forse entrambe le cose, "vorrei solo che tu
tornassi
a guardarmi."
Non
ho bisogno di uno sguardo, per insinuarmi
nei suoi pensieri. Rivanga, scava, soffia via la polvere. Apre
finestre,
spalanca porte, sfila via teli bianchi da mobili immaginari.
Riporta
una dimora abbandonata a uno sfarzo
antico, dimenticato, quasi a voler
dire 'sono qui, sono tornato.'
Quasi
sussurrando, silenzioso come il battito
d'ali di una mosca, 'sono sempre stato
qui'.
Lui
lo è stato. Sono stato io, ad essere andato
via. Fiducioso. Colmo dell'infondata sicurezza che ogni cosa sarebbe
cambiata,
al mio ritorno, tranne la certezza
di
me e John.
La
certezza incontrovertibile del noi.
Ha
capito
nell'esatto istante in cui l'ultima parola ha sfiorato le mie labbra,
perdendosi nell'aria afosa della stanza, che odora di bruciato e di
legno secco.
Pensa
a lei.
Si
sofferma, di certo, sull'unica immagine che
di lei conserva. È una piccola foto, racchiusa in una
cornice ammaccata agli
angoli.
È
finita così spesso sul pavimento, e contro il
muro, che John nemmeno ricorda quale fosse il suo aspetto, prima.
Non
la tiene con sé. È nella sua stanza.
Nascosta nello scrittoio in legno da due soldi che a lui tanto piace.
Quella
camera che è stata sua e
che ora torna ad esserlo all'occasione. Per un
giorno, una settimana, qualche ora.
Non
gli ho mai detto di no. Nonostante la sua
fugace presenza fosse solo un doloroso promemoria della sua assenza.
La
gelosia corrode, ma non lascio che prevalga
sul buonsenso. Credo abbia chiuso gli occhi, riportando alla mente quel
viso, i
cui tratti sono impressi su carta dai colori sbiaditi ma non nel suo
cuore. Non
sul suo corpo, né altrove.
Tossisce,
e corruga le labbra, e non ho bisogno
di guardare, perché lo so. Perché lo
conosco.
Avvalora,
col suo silenzio, la mia teoria. La
mia certezza.
Un'ipotesi
sulla cui veridicità non è mai
esistito dubbio.
Senza
quel piccolo ritaglio di carta lucida,
liscia, dai contorni tagliati alla bell'e meglio con forbici poco
affilate,
John non serberebbe di lei alcun ricordo.
La
verità, adesso, è chiara anche a lui.
L'ha
toccata. Baciata. Ha fatto con lei quello
che io non ho mai fatto con nessuno.
Eppure,
non l'ha mai guardata. Non ha mai,
neanche una sola, singola volta, indugiato
sul suo volto più del minimo necessario.
È
un sottile fil-rouge
ad unirli ancora.
Impalpabile.
Distruttibile.
Un
secondo passa. Un altro lo segue, ma è lungo
un'era. Un re viene ucciso. Un assassino impiccato. Un
altro sovrano sale al trono.
E
io sono ancora qui. E lui, è ancora con me.
Lo
sento, quando il suo sguardo incontra lo
scorcio del mio volto illuminato dal fuoco.
Le fiamme tremolano, instabili. Resistono.
Riflettendosi
nei miei occhi, mi dipingono
sull'orlo del pianto.
Percepisco
ogni esitazione, ogni timido
soffermarsi dei suoi occhi sulla curva della mia guancia.
Carpisco,
senza margine d'errore, la mano che
sfiora il proprio, di viso, immaginando.
Ha
compreso l'errore commesso. Lo so.
Hic
et
nunc(2),
ha detto qualcuno.
Sarà
qui. Sarà ora.
Mi
basta un attimo. Un istante, e i
miei occhi incontrano i suoi.
Ci
veniamo incontro a vicenda, come bisognosi d'aiuto,
di sostegno.
Due
persone che hanno camminato da sole per
tutta la vita e che comprendono, improvvisamente, quanto sia
infinitamente più
bello, in due.
Fondamenta,
gli ho chiesto.
Prima
dell'amore.
Prima
di ogni possibile dimostrazione dell'amore
stesso.
Respira.
Sembra tornare a farlo dopo ore.
Nonostante tutto, non ha dimenticato come si fa.
"Non
ne ho mai sentito il bisogno,
prima" poi dice, "perché non esiste un singolo dettaglio di
te che io
possa dimenticare."
La
sua voce è suono puro, assoluto. È la
rapsodia di un'orchestra che suona soltanto per me.
Ho
più colpe di quante ne abbia lui. Ne ho adesso
più di quante lui potrà mai
averne in una vita intera.
Ha
saldato ogni debito, questa notte.
Io,
sono sulla buona strada.
Si
avvicina. Non ha più timore di varcare una
soglia oltre il quale non sarà desiderato. Il fuoco si
spegne, lasciandoci al
buio. La luna, sopperisce come può.
Le
assi del parquet cigolano, sotto il suo peso,
mentre si ferma a un passo dalla mia poltrona.
Trovo
la sua mano senza nemmeno cercarla. Sollevo
le dita a sfiorare le sue senza averlo neanche premeditato.
È un gesto
istintivo.
Primordiale.
La
stretta non è esitante. Non tentenno e non lo
fa nemmeno lui. Sta accadendo.
È
come svegliarsi, appena dopo un bel sogno,
accorgendosi che la realtà non si discosta poi molto da
quella delle tue
fantasie.
È
una sensazione totalizzante.
La
assaporo senza ingordigia, mentre porto la
sua mano a sfiorare la pelle scoperta del mio petto, guidandolo alla
scoperta
di un territorio straniero.
Quasi
del tutto sconosciuto anche al
tocco delle mie stesse mani.
Sta
guardando,
con l'ausilio delle dita. Scopre, accarezzando. Accennando a tocchi
più audaci,
seguiti da riverente timidezza.
Sta
accertandosi, nell'unico modo che conosce,
che tutto sia davvero rimasto com'era. O meglio, come aveva sempre
creduto che fosse.
Ritrae la mano, poi, invertendo i ruoli e accogliendo la mia nella sua.
Appena
le sue labbra sfiorano leggere la pelle
morbida del mio polso, non c'è più modo di
tornare indietro.
La
consapevolezza
di ciò che questo bacio porta con sé, mi
sconvolge. Rimango immobile, la mano
stretta nella sua. La sua bocca si sposta, lenta, sulla mia fronte.
Nessuno
mi
conosce meglio di John Watson.
Sa
di me più di quanto sappia io stesso, e mi va
bene. Non avrei mai potuto desiderare mani migliori, nel cui rifugio
porre la
mia intera esistenza.
Il
mio ieri. Il mio oggi. Il mio domani.
Sono
stato derubato
di me stesso, ma non mi sento mancante, né vittima di
un'indicibile
ingiustizia.
L'abbraccio
in cui egli mi custodisce, é colmo
di un calore che guarisce. Che
riempie i vuoti. Che cicatrizza le ferite.
John
mi arricchisce,
invece di privarmi.
John
mi completa,
facendo della mia vita parte indispensabile
della propria.
"Perdonami"
egli infine sussurra,
quasi temendo di disturbarmi, "sono soltanto un'inguaribile distratto."
Sorrido,
mentre nella mente riassaporo ogni
parola. È un gioco tutto nostro, che simboleggia qualcosa
appena tornata in
vita. Rinata dalle sue stesse
ceneri.
"Va
bene" io rispondo, e la mia voce è
inevitabilmente mitigata dal sollievo,
"dopotutto, è diretta conseguenza del tuo essere
un'inguaribile idiota."
E’
il nostro linguaggio. Un codice.
Ne
abbiamo sempre avuto uno, soltanto per noi,
senza averlo nemmeno mai concordato. Ci bastava un'occhiata per
arrivare alla
medesima, corretta, soluzione. Uno sguardo sfuggevole. Un cenno del
capo.
Una
sola parola.
Lei
va via. La sento allontanarsi, come una
brezza fredda che lentamente lascia spazio al calore del sole.
Non
esiste più. Non è più un nome. Non
è più
umana, né reale.
È
qualcosa che è successo, e poi passato.
È
un'estate troppo calda. Un inverno troppo
rigido.
La
piena del Tamigi, i lavori in corso, lo
sciopero della metro.
I
giorni.
"E
adesso?" John mi desta, senza
irruenza, dai miei pensieri, "Cosa succede adesso, Sherlock?"
Non mento.
Non
posso che rispondergli che non si va da nessuna
parte, da qui.
Che
si è arrivati per restare. Per non muoversi.
Per rimanere così per
sempre.
Resto
vago. Distaccato. Innamorato e freddo.
Pieno di passione e distante.
Rimango
Sherlock.
A
lui va bene. Lui ama quel che sono più di
quello che potrei essere ma non
sarò
mai.
"Sinceramente,
John" sussurro,
sfiorando il suo viso col mio sguardo, "non m'importa
granché."
So
che è sorpreso. I suoi occhi non sono mai
riusciti a mentirmi, a differenza delle sue labbra.
"Una
volta qualcuno ha detto che chi ben
comincia, è a metà dell'opera" io spiego, e lui
sorride, finalmente giunto
al bandolo di questa piccola matassa.
"È
vero" lui mi da corda, posando un
altro bacio sulla mia fronte, "ma non per noi. Non è stato
granché
piacevole, l'inizio di questa storia."
Non
oso dargli torto. Ha ragione su ogni fronte.
È una storia al contrario,
la nostra.
Che sfida ogni canone. Che ha principio nella fine.
"Infatti,
non ho mai dato tanto peso a
quelle parole. L'inizio non conta"
io dico, credendoci, "quel che
rende immortale le belle storie, è un degno finale."
Silenzio.
Poi un suono.
È John che ride. Che è felice.
John che non ride mai allo stesso modo.
John che non oltrepassa confini. Che resta lì, come se il
mio
viso si limitasse alla mia fronte, alle palpebre socchiuse, alla punta
del
naso.
"E nel mezzo, Sherlock?" egli sussurra, trovando
coraggio, muovendo le labbra sulle mie guance, appena appena. "Cosa
è
accaduto, tra l'inizio e la fine?"
Non è difficile, rispondere. È la domanda
più semplice, ovvia,
che mi abbia rivolto questa notte. Le sue labbra sono poco distanti
dalle mie.
La sua pelle profuma di tè, di sapone e un residuo di
dopobarba.
"Sono successe promesse fatte e non mantenute. Telefonate
perse. Fiori appassiti su un pezzo di marmo" Parlo a bassa voce, certo
che
potrà sentire le mie parole sulla sua pelle ancor prima di
udirle. "Sono
successe occasioni mancate tra uomini distratti."
Non esiste altro modo, per definire quel che siamo. Due rette
parallele incontratesi oltre ogni legge matematica.
Lui prende il mio viso tra le mani. Non stringe. È delicato,
quasi timoroso di potermi ledere in qualche modo. Mi guarda come non mi
ha mai
guardato. Mi conosce meglio di chiunque altro, eppure non è
stanco. È ancora
interessato, attratto, affascinato dal mio volto come il primo giorno.
La mente viaggia. Mi chiedo se mi guarderà ancora
così, quando
gli anni cominceranno ad appesantire i miei tratti. A segnare la mia
pelle.
I suoi occhi rispondono per lui, anche se non ha neppure udito
la mia domanda.
Questa notte non faremo altro. Non vuole più baciarmi.
Forse,
non lo voglio neppure io. Ricorderebbe a entrambi, inevitabilmente,
passi
compiuti troppo in fretta. Tappe bruciate. Sensazioni provate per
inerzia. Imposte.
Forse mi bacerà domattina. È un buon compromesso.
Sta pensando a
come succederà. Al modo in cui dolcemente mi
cingerà i fianchi, esitando.
Chiedendo il permesso. Annullando le distanze.
È strano, pensare a come è cominciata. Al rumore
di passi mai
proseguito oltre la porta.
Al coraggio. Al nonostante
tutto.
"È una bella storia" John dice, senza mai abbandonare
i miei occhi, "mi piace, il lieto fine."
Sorrido. Piace anche a me. A un uomo che sopravvive
grazie a chi un lieto fine non sa nemmeno cosa sia.
È una sensazione che non so descrivere, né
mostrare appieno.
Quel poco che riesco, lascio che sia lui a coglierlo.
Una saracinesca, al piano di sotto, si solleva, con un lento,
stonato fruscio meccanico. È colonna sonora di un risveglio.
C'è una pagina vuota, alla fine della storia. Le ultime
righe
del capitolo precedente sono ancora visibili, controluce, sulla pagina
accanto
a quella bianca. Non voglio leggerle. Non ancora.
Sarà da lì, che ricominceremo, quando
sarà il momento.
Che a decretarlo sia un bacio, o qualsiasi altro gesto, o
sguardo, o parola.
Nel frattempo, ricomincio a vivere una vita rimasta troppo a
lungo in stand-by.
È facile. Forse, perché sono con lui.
È tutto più semplice, con
lui accanto. Un peso, portato in due, è sempre meno gravoso.
A volte, con la
persona giusta, è addirittura impercettibile.
Vivere è naturale, come non lo era più da tempo.
Nonostante tutto, non ho dimenticato come si fa.
John, semplicemente, non me lo ha permesso.
*.
Frase latina,
il cui significato è: “Attraverso
le
asperità, alle stelle.”