OCCHI DI CERBIATTO
Il rumore
dei suoi tacchi riecheggiava sui sampietrini.
Il cielo era troppo chiaro per essere notte e troppo scuro per essere giorno.
Il centro di quella piccola città era inumidito dalla pioggia appena
scrosciata, il silenzio era avvolgente e placido.
Non c’era anima viva.
Solo i rintocchi dei suoi passi.
L’uomo era
in attesa da ore che il destino gli offrisse il suo cibo.
La vide e sorrise beffardo, già
ingolosito, pregustando l’odore della paura che di lì a poco avrebbe respirato.
Gli piaceva così tanto che la bocca gli si inumidì di saliva.
Godeva nel sentire la preda fremente, lo faceva sentire forte, onnipotente, si
cibava della debolezza altrui, dato che disprezzava la propria.
La donna
percepì qualcosa, come un’ombra furtiva alle spalle.
Affondò le mani nell’impermeabile e allungò il passo decisa.
La stazione era vicina, bastava poco per raggiungerla e dileguarsi.
La notte lentamente stava morendo e lei voleva solo andare a casa per riposare.
Il boia la raggiunse e diede vita al suo rituale. L’aggredì da dietro.
Immobilizzandola e puntandole un coltello alla gola.
“Shhhh” le alitò nell’orecchio “Non un fiato, o ti sgozzo”.
La sentì irrigidirsi e capì che era in suo potere.
La paura stava facendo il suo buon lavoro. Come sempre.
“Lasciami andare ti prego…” lo supplicò la donna.
Lui si sentì un dio. Era questo che gli piaceva.
Erano i suoi preliminari.
Poi ci sarebbe stato il sangue e la carne lacerata. La vita che esalava e il climax finale.
“Girati!” le intimò.
Gli piaceva guardarle in faccia, leggere nei loro visi distorti dal terrore, la
consapevolezza che stavano per morire.
La loro morte era la linfa della sua vita.
Lei si voltò.
Aveva occhi grandi, ambrati e liquidi, come quelli di un cerbiatto.
Bellissimi e pieni di una dolcezza malinconica.
L’uomo vi ci si perse appena, spiazzato da questa visione così inaspettata,
pensava di leggervi terrore e non quella che lui percepì come mansuetudine.
Qualcosa cambiò di colpo.
Un lampo animò quegli occhi.
La donna spalancò la bocca.
Un ruggito disumano squarciò la notte.
Erano zanne di lupo quelle che staccarono di netto la trachea dell’uomo con un
solo morso.
La sputò immediatamente sul selciato umido, mentre lui, con un’espressione
incredula e stupida, si accasciava a
terra, morente, in un lago di sangue.
Non ne mangiò.
Non si cibava di putredine.
Si pulì la bocca con un clinex e suoi passi veloci tornarono a riecheggiare sui
sampietrini.
Poco dopo, in lontananza, le apparvero tremolanti le luci della stazione.