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Autore: Desperate Housewriter    18/04/2014    2 recensioni
E poi, finalmente, una figlia. La piccola ultima creatura venuta al mondo. Non la chiamò più Nausicaa, ma Calypso. L'aveva aspettata per così tanto tempo, come se si fosse nascosta. E il nome le si addiceva perfettamente, perchè voleva dire proprio "colei che si nasconde".
Calypso, un'anima nel buio costretta a conoscere la luce. Questo lei era.
«Se ben mi pare di capire, ora non dobbiamo più trovare l'assassino ma capire se questo si ricorda ciò che ha fatto. Non è vero?»
Genere: Introspettivo, Mistero, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A tutti coloro che desidererebbero immensamente dimenticare qualcosa,
vi sentireste sollevati a sapere che basterebbe anche solo un paio di scarpe?


Alètheia

*Il termine Lete viene da una radice greca, leth, "dimenticare", da cui deriva anche alètheia, "verità", con l'alfa privativo che indica dunque "ciò che non si dimentica"

 
Correva.

Non sapeva fare altro che correre in quella notte di fianco al mare. A piedi nudi, anche se non avrebbe voluto. Li guardò per un attimo mentre si muovevano tremanti. Provavano dolore. Non per il freddo della sabbia, ma per ciò che avevano vissuto in tutti quegli anni. Passi, non facevano altro che andare avanti, sotto i comandi della ragazza. Ma non erano dei semplici schiavi i suoi piedi, no. Erano i suoi occhi che non volevano vedere. E perciò si erano ribellati in quella notte. Erano scappati. Erano letteralmente matti da legare, volevano portarla chissà dove. Si muovevano all'impazzata, accompagnati dalle onde che li incitavano ad andare ancora più veloce per far loro compagnia.
Eppure lei non se ne sarebbe dovuta andare. Ma non era colpa sua.
Era colpa dei suoi piedi.
«Smettetela, tornate indietro!» li urlò contro la ragazza, ma non le diedero retta.
«Calypso.» pronunciarono in risposta, ma non era un nome quello che avevano pronunciato. Era un'affermazione. Era un'offesa, una tremenda offesa, un'offesa che infastidiva tacendo, un'offesa che sapeva quando non voleva sapere. Un'offesa che si era trasformata in un sussurro che continuava a ripetersi.

Calypso, colei che si nasconde.

 
*
 
La mano di Eumaeus chiuse la porta, lasciandosi alle spalle la stanza con un gran sospiro.
«Allora?»
L'impazienza dei tutti si poteva sentire in quella stanza dai loro occhi sempre aperti e dal loro fastidioso e continuo girare del capo all'improvviso e di scatto da una parte all'altra.
«Niente da fare.» Sputò questo alzando le braccia esasperato. «Continua a ripetere e ripetere la solita frase.»
«Io devo entrare, non posso aspettare ancora.» Il poliziotto Mibruxa si fece avanti, alzandosi dalla seggiolina ospedaliera.
«Dobbiamo aspettare ancora, potrebbe scandalizzarsi.»
«Sono venuto qui da Malta per l'indagine, se non glielo dite voi, mi ritrovo costetto a dirglielo io. Qualcuno avrebbe il piacere di comunicarglielo personalmente o posso procedere da solo?»
Silenzio assoluto.
«Bene, allora.» avanzò alla porta. «Il silenzio acconsente.»
Sbattè la porta, entrando. Non aveva avuto il tempo di prendere il caffè quella mattina e ne stava subendo le consuguenze.

«Buongiorno Calypso,» disse Mibruxa antipaticamente e con voce roca «io sono-»
«Non serve che me lo dici, lo so chi sei, » rispose la ragazza per nulla intimorita «non sono sorda. Da quanto urlate, posso sentirvi anche io da questa stanza! Dite che devo dormire perchè sono stanca, anche se in verità stanca non sono per nulla, e poi vi mettete a fare un gran chiasso.»
Il poliziotto la osservò, seduta nel lettino bianco, era molto pallida. Ma non aveva nessuna flebo attaccata, nè altro. Sembrava solo priva di energie anche se la sua voce e le sue parole suggerivano il contrario.
«Io sono il poliziotto Mibruxa» continuò, infastidito, non sopportava che qualcuno gli desse del tu, tantomeno una bambina.
«Te l'ho detto, lo so e poco mi interessa» soffiò, guardandosi le unghie «e so anche che hai preso il traghetto, stamattina.»
«Come, scusa?» Chiese il poliziotto, ripensando al viaggio turbolento.
«Non hai preso il traghetto per venire qui a Gozzo?» Calypso sorrise, fiera di aver raggiunto un alto livello investigativo.
«Oh, già.» Rispose Mibruxa, non volendole dare soddisfazioni.
«Io li odio, i Maltesi!» Affermò con tutta l'acidità in bocca, mentre Mibruxa si accese un sigaro «Ci avete rubato Ogigia, siete dei ladri.»
«Ogigia, che cos'è, un formaggio?» Il poliziotto buttò fuori una nuvola di fumo.
«Non sa che cosa sia Ogigia? Ogigia è un'isola, altro che formaggio, per l'amor del cielo! E' dove Omero viene imprigionato per tre anni da Calypso, che se ne era innamorata. E' il nome antico per dire "Gozzo", ma gran parte della popolazione non sa neanche della nostra esistenza e ci confonde con Malta. Non leggi mai?»
«A dire il vero la letteratura non mi ha mai affascinato.»
«Io mi chiamo come lei.»
«Beh, se devo essero sincero, a me questa faccenda interessa poco. Devo concludere il caso, e in fretta. Ti devo porre alcune domande.» Affermò schiettamente il poliziotto.
«Perchè hanno fatto venire da Malta proprio te? Almeno fossi bravo! Ce ne sono già tanti, qui a Gozzo.»
«Calypso, sono serio. Hai sentito quello che ho detto, ti devo porre alcune domande.»
«Da quando mi sono svegliata in questo letto d'ospedale tutti quelli che sono entrati volevano subito uscire, sbrigarsi, correre. Perchè?»
«Ti ricordi che cos'è successo ieri notte, Calypso?»
Calypso rimase per un po' in silenzio. Fu salvata dalla porta che si aprì.
Una donna era entrata.
«Lei è la dottoressa Wajer» la presentò Mibruxa, facendole segno di avvicinarsi.
Calypso la studiò a lungo, poteva percepire anche in lei una paura nei suoi confronti. E questo la infastidiva alquanto, si sentiva come un cane che aveva bisogno di saltare addosso a chi lo temeva.
«Si sieda, dottoressa Wajer, eravamo giusto al dunque. Non abbiamo ancora proceduto, la signorina non me l'ha permesso.»
Lei fece un sorriso come risposta e a Mibruxa bastò quest'ultimo.
Egli si mise comodo a sedere e, incrociate le gambe, fece un sospiro che stava chiaramente ad indicare l'inizio del doloroso dialogo.
«Allora, Calypso, che è successo ieri notte?»
Calypso osservò la donna pronta a prendere appunti nel suo block notes e si irrigidì. Rimase in silenzio.
«Ieri notte ti abbiamo trovata svenuta sulla spiaggia qui a presso. Mi sai dire che ci facevi lì?» chiese il poliziotto cercando di stare calmo mentre la dottoressa Wajer la guardava cercando di incoraggiarla.
«Anche tu hai paura, dottoressa?»
«Adesso basta, Calypso, rispondi alla mia domanda!» urlò Mibruxa spazientito alzandosi e scompigliandosi i capelli.
«No, lasciala domandare.» La dottoressa cercò di calmare Mibruxa tirandolo di nuovo a sedere, sembrava interessata. «Paura, di che dovrei aver paura? »
«Di me. Da questa notte tutti mi temono, ma il poliziotto Mibruxa non mi vuole dar retta. Mi parlano, ma sembra che non vedano l'ora di andarsene. Mi odiano, mi detestano, vogliono scappare. Dovrebbe vedere come mi guardate, dottoressa Wajer! Avete degli occhi... Pietrificati, ecco! Riesci a capirmi?»
La dottoressa prese nota, scrivendo freneticamente sul suo quadernetto. Non le sembrava dare molto retta, scriveva e basta. Anche lei aveva paura.
«L'abbiamo fatta finita di sviare?» sbottò il poliziotto.
«Lo vedi? Anche lui non vede l'ora di andarsene.» Disse Calypso rivolta alla dottoressa, voleva scoprire il motivo di tutta quella tenebra accerchiata attorno a lei.
«Senti, Calypso, devi ascoltarmi.» Mibruxa si avvicinò al lettino, prendendole una mano che lei ritrasse subito.
«Ieri hanno sparato atuo fratello. Ne sai niente?»
La bocca di Calypso si aprì, poi si richiuse. Poi di nuovo si aprì, pronunciando ogni singola parola lentamente.
«Dicono che le scarpe siano l'unico strumento con cui ci si possa viziare. I piedi devono sentirsi rilassati e al caldo al loro interno, devono sentirsi comodi. Dalle scarpe che indossa si può sapere tutto della vita di una persona, quindi bisogna averle sempre a posto. Devono essere belle, pulite e ordinate. E se non si  ha, un paio di scarpe, allora è la fine. Se non hai un paio di scarpe ai piedi, puoi svanire nel nulla.»
«E questa da dove la sei andata a pescare? Da una pubblicità, forse?»
«No. Dalla mia vita, signor Mibruxa.»
A quest'affermazione, la dottoressa Wajer sembrò cancellare ciò che aveva prima scritto. Il poliziotto si alzò e iniziò a girare intorno al lettino, facendo alcuni gesti con le mani incomprensibili. Poi, se le mise dietro la schiena, come per legarsele.
«Calypso, te lo dico per l'ultima volta, devi rispondere!»
«Ho risposto.»
Gli occhi di Calypso non andavano mai ad incrociare quelli del poliziotto, sembravano più interessati all'esile figura che si nascondeva dietro, la dottoressa Wajer. Se ne stava in silenzio e non parlava mai, scriveva e basta. Calypso desiderava che la guardasse, che l'ascoltasse. Non voleva che scrivesse.
«E ti pare una risposta, la tua? Senti, non volevo arrivare a questi modi ma tuo fratello è morto. Emme, o, erre, ti, o! Non fai nulla? Non dici nulla?»
Il poliziotto Mabruxa era particolarmente agitato. E Calypso ne era sicura, era per via sua. Era colpa sua, se era agitato. Lui aveva paura, era intimorito da lei. Più di tutti, più di qualsiasi altra persona che fosse entrata in quella stanza.
«Di-cono che le scarpe» iniziò Calypso, quasi ipnotizzata «siano l'unico strumento con cui ci si possa viziare. I piedi, infatti, devono sentirsi comodi e-»
«Adesso basta! Tua madre non te l'ha insegnata la buona educazione? Fossi lei, ti avrei già tirato due ceffoni! »
Mibruxa camminò velocemente verso la porta e impugnò la maniglia stingendola fino a quasi distruggerla.
«Venga con me, dottoressa. E Calypso, non credere di averla scampata, ti farò uscir tutto dalla tua inspida boccaccia!»
E con questo, i due uscirono.

«Vorrei sapere perchè escano tutti pieni di rabbia, da quella stanza.»
Sbottò la zia Siren. «Se faceste entrare me, magari...»
«Magari un corno!» Mibruxa si scompigliò i capelli ancor più velocemente della volta precedente, sembrava aver preso una mania. Eamus comprendeva la sua reazione, Siren invece appariva sempre più allibita, tanto da voler frenare la sua curiosità entrando in quella stanza. Sembrava che dentro, al posto di sua nipote, ci fosse stato un drago, o un mostro ancor più grande. In ogni caso privo di sentimenti, un mostro che non poteva comprendere nulla, era testardo e sapeva sputare solo fuoco. «Lasciate fare agli esperti, voi altri sapete solo seminare miseria!»
«Dottoressa Wajer, che cosa ne pensa della vicenda?» chiese la zia, nella speranza di avere un appoggio.
«Io...» la dottoressa si schiarì la voce «Penso che io e l'agente Mibruxa dovremmo discuterne a lungo, prima di decidere che cos'è giusto e che cosa non è giusto fare. Quindi, se ci scusate...»
Lasciò un'occhiata a Mibruxa e lui si alzò e le aprì una porta, che portava ad un ambiente dove avrebbero potuto parlare con più calma.
«Sei sempre il solito, Sylvan.» Sbuffò Clare, osservando le crepe del muro ingiallito.
«Se non fossi stato così, non avrei questa carriera.»
«Ma devi ricordarti che ha soltanto dodici anni e che ha appena perso il fratello!»
«Non risponde, non risponde alle domande!» Sylvan sussurrò piano per non farsi sentire, battendo il pugno contro il bianco del muro.
«Non ricorda, Sylvan. Probabilmente non ricorda bene. Quella frase, la frase delle scarpe che continuava a ripetere, l'avrà probabilmente sentita da qualche parte prima dell'accaduto. Lo chiamano "buio". E' quando non si ricorda nulla di un preciso momento, solamente qualche immagine o... Una frase!»
«Uhm... Ma hai visto, non ha avuto alcuna reazione dopo aver saputo della scomparsa del fratello! Non mi ha neppure chiesto quale dei quattro fosse morto.»
Clare si sedette nel pavimento, tentando di pensare.
«Lei ha avuto la reazione di sviare il discorso. Questo significa che non voleva ricordare. Ciò sta a dire che molto probabilmente ha cancellato dalla mente la sera di sua spontanea volontà, non volendo soffrire.»
«Non credo che sia un processo così facile da essere portato a termine da una dodicenne.»
«E' qualcosa comportato anche dal dolore. Vedi, non le hai dato ascolto mentre ci accusava di aver paura.»
«Tentava di sviare.»
Al contrario di Sylvan, Clare si stava molto più appassionando al caso. E questo la portava sempre ad ottenere nuove soddisfazioni.
«Non credo proprio, Calypso si vergogna di qualcosa. Crede di aver fatto qualcosa di molto grave tanto che tutti la temono. E' convinta, non vedi? Continua e continua a ripeterlo.»
«E cosa avrebbe fatto, di tanto grave? Tanto da dimenticarsene dalla vergogna?» Sylvan iniziò a camminare avanti e indietro, nervoso, ma finalmente più coinvolto.
Clare sorrise, soddisfatta.
«Giurerei che ciò che non ricorda ha a che fare con l'evento di ieri sera.»

 
*
 
«Dove l'appoggiamo, Chardon?» chiese Bridie pulendosi le scarpe per entrare, dando un'occhiata ai quadri colorati della casa, mentre insieme con la sua cliente cercava di resistere al peso del vaso di fiori.
«Mettiamolo nel tavolo, poi ci penso io, grazie e grazie anche a te, Skie.»
Skie rispose con un sorriso, sapendo di non aver aiutato un granchè. La sua mamma Bridie la chiamava ironicamente "Skie dalle mani d'oro", perchè ogni volta che doveva aiutare a trasportare qualcosa da una parte all'altra non faceva altro che appoggiare le sue mani nell'oggetto in trasferimento.
«Sei riuscita a vendere qualche foto, ultimamente?» chiese Bridie, sistemando al posto giusto i fiori nel vaso.
«Ad essere sincera sono stata così tanto di qua e di là che non ne ho avuto neanche il tempo. Ho viaggato molto ultimamente, ho fatto molte foto ma di venderle... Non ci ho ancora pensato!» esclamò Chardonnay con voce squillante.
«Dove sei andata di bello?»
«Beh, sono stata a Cannes, a Barcellona, a Venezia e vediamo... A York in Inghilterra, a Gozzo, a-»
«Dove sarebbe Gozzo?» chiese Skie, infilandosi in mezzo al discorso.
«Gozzo è un'isola vicino alla Sicilia, giusto?» chiese a sua volta Bridie.
«Sì, diciamo che è accanto a Malta, anche lì sono stata! Ma dovresti vedere com'è il cielo del mattino, a Gozzo! Non ti ho fatto vedere le foto?»
Birdie scosse il capo e Chardon salì le scale a passo spedito «vado a prenderle, te le devo assolutamente far vedere!»
«Quindi ti sei dovuta alzare alle sei del mattino solamente per fare delle foto?» chiese Skie e la madre le diede un'occhiatacchia.
«Ma anche prima, tesoro! L'ottanta per cento delle foto belle che vedi sono scattate di prima mattina.» Arrivò con un pacco di album e li consegnò a Bridie, soddisfatta.
Lei aprì quello che Chardonnay indicò.
«Wow!» disse lentamente «Qui sì Skie che ci vogliono delle mani d'oro per fare certi scatti.»
«Più che mani d'oro, ci vuole della buona musica.»
«Io ho sempre a portata di mano delle cuffiette. Serve qualcosa che ti ispiri a cogliere l'attimo preciso per scattare.»
Dalle sue parole, Chardon sembrava proprio appassionata e anche Skie un giorno, qualunque lavoro avesse deciso di fare, avrebbe voluto avere tanta passione quanta la sua. Magari anche senza alzarsi così presto.
«Ehi, ti ho fatto vedere la fotografia dell'uomo in gondola?»
«No, com'è?»
«Credo che sia uno dei miei scatti migliori, prendi l'album verdognolo.»
«Mamma, mi puoi passare l'album che avete appena guardato voi, io lo devo ancora vedere!»
«Basta che fai attenzione a non rovinarlo, Skie.» Bridie passò l'album rosa alla figlia e poi pose lo sguardo verso l'altro.
«E' vero, è molto bella, c'è molta luce.»
«Ho pensato di farlo incorniciare. Non sarebbe una buona idea?»
«Sicuramente!»
«Chi sono questi qui?» chiese Skie, avvicinandosi alla foto che aveva in mano.
«Questi chi?»
«Questi, oltre alla rete, chi sono?»
Sia Bridie che Chardon si avvicinarono, incuriosite. La madre guardò Chardon, sorridendo.
«Sei riuscita a far posare nella foto due persone?»
Chardon si sedette, confusa. Guardò la foto attentamente. Mille volte già l'aveva guardata, non si era mai accorta di quel particolare. Mille persone l'avevano guardata, ma tutti guardavano il punto messo a fuoco: in alto il cielo mattutino. Nessuno si era degnato di guardare più in basso.
Se ne era accorta una bambina che c'era qualcosa di insolito.
Chiuse l'album con occhi impauriti.
«Devo chiamare la Polizia.»

 
*

Calypso, come ogni mattina, se ne stava studiosa a guardare fuori dalla sua piccola finestra.
Odiava non poter avere l'orologio in camera. Ma ciò che odiava di più era non essere a conoscenza del tempo. Non riusciva a percepire l'orario guardando il cielo, era buio. Era presto, fin lì ci arrivava, ma quanto presto? Un "presto" da poter sgattaiolare fuori? O un "presto" da dover ritornare nel letto a dormire beatamente?
Ciò che forse la irritava maggiormente era il dover sentire in continuazione il ticchettio proveniente dalla cucina. Lo sentiva, lo sentiva eccome. Riusciva a immaginarsi la lancetta dei secondi girare in continuazione. Ma voleva essere a conoscenza della posizione di quella dei minuti e delle ore. Poteva immaginare, ma non poteva vedere, pur desiderandolo tremendamente. E un'approssimazione sulle basi di uno scarso consulto a poco oltre la facciata della sua finestra non le bastava. Non si fidava neanche di se stessa. Aveva bisogno di vedere, ma non poteva. E questo le dava tremendamente fastidio.
A volte si sentiva come il discepolo Tommaso, che non credette fino a quando non vide. Era diffidente anche lei, forse ancor di più. Si ribadì però che proprio quel Tommaso era stato fatto Santo, quindi forse delle speranze rimanevano anche a lei.
Magari fosse stata saggia un quarto di quanto fu egli. Tommaso, d'altronde, fu messo davanti ad ostacoli di livello maggiore. L'incredulità alla comparsa di Gesù sarebbe stata più giustificabile, quale uomo non avrebbe dubitato a qualcosa che va oltre al concetto che si ha nel mondo del possibile e l'impossibile?
Mentre Calypso... Lei sì che era una gran peccatrice!
Amava nascondersi. Amava nascondersi dietro ai dubbi e alle incertezze. La confusione era il suo nascondiglio abituale. Era creato di proposito dalla ragazza, come rifugio.
E temeva con paura il giorno in cui perfino la sua casa l'avrebbe abbandonata, crollando dalle troppe bugie. Fin dove sarebbe fuggita?
Doveva prendere le scarpe, prenderle prima degli altri.
La situazione familiare di Calypso non era delle migliori. Erano tutti i maschi in casa, il suo babbo Milman e i suoi quattro fratelli più grandi.
Sua madre lavorava in Irlanda come giornalista. Com'era intelligente, la sua mamma. Fin dall'età di quindici anni era interessata alla scrittura e sua nonna l'aveva spedita lì, a studiare. Lì si interessò all'Odissea, perchè le chiedevano così tanto della cultura e della storia di Gozzo che fu costretta a comprarsi e a studiarsi un libro. Scoprì che Ulisse venne intrappolato da Calypso nell'isola di Ogigia, isola ribatezzata come Gozzo. Scoperta la notizia iniziò ad appassionarsi via via di ogni singolo canto, fino a quasi sapere a memoria alcune pagine.
Ne fu così tanto travolta che una volta sposata supplicò il marito di chiamare il primo figlio Alcinous. Alcinous, curioso e intelligente. Era per Calypso una guida spirituale, le sapeva dare consigli e con lui la ragazza si sentiva a suo agio. Qualche anno dopo nacque Demodocus. La madre avrebbe voluto una femmina, ma non fu accontentata. Un bambino intuitivo, un po' troppo schivo e responsabile, ma molto protettivo e con una certa fissazione per le armi, che l'avrebbero sempre difeso in caso di pericolo. Ma non era ancora contenta, voleva una femmina. Purtroppo nacque di nuovo un maschio, Poseidon. Molto gentile ed educato e per questo sempre trascurato, non aveva neanche un amico. La speranza nella madre non mollò la presa, desiderava comprare dei vestiti ad una bambina, viziarla, riempirla di regali. L'avrebbe chiamata Nausicaa, come la bella principessa provieniente dalla terra dei Feaci. E così ci ritentò ancora, ma senza risultati. Nuovamente un maschio, Nestor. Solare, simpatico, ma un po' egocentrico. E poi, finalmente, una figlia. La piccola ultima creatura venuta al mondo. Non la chiamò più Nausicaa, ma Calypso. L'aveva aspettata per così tanto tempo, come se si fosse nascosta. E il nome le si addiceva perfettamente, perchè voleva dire proprio "colei che si nasconde".
Calypso, un'anima nel buio costretta a conoscere la luce. Questo lei era.

La ragazza scivolò dal letto e a passi lenti si avvicinò alla porta. Uscì velocemente e si chiuse con il fiato sospeso la porta alle spalle. Potè intuire un brivido percorrergli la schiena.
Come se sapesse di sbagliare. Come se conoscesse a memoria la strada di un lungo tragitto ma non fosse a conoscenza degli ostacoli lungo il cammino. Come se intuisse il peccato ma non la condanna.
Si guardò intorno, spaesata. Sensazione di vuoto.
Proseguì. Entrò in cucina e camminò dritta verso la dispensa. Guardò in basso.
E poi, colpita dalla sorpresa, si girò d'istinto verso l'orologio.
Cinque e trentadue. Com'era possibile, non erano neanche le sei! Riguardò in basso.
Guardò allora in alto. I suoi occhi vagavano dispersi.
Le scarpe, non c'erano le scarpe.
Com'era possibile? Chi le aveva potute prendere?
Ad un certo punto Calypso sentì dei passi provenire dal piano inferiore. Di chiunque fossero stati, sembravano un trotterellare velocemente. Si sentì sbattere la porta. La bambina si diresse immediatamente in camera del fratello Demodocus e sentendolo russare aprì il suo armadio e estrò dalla tasca dei suoi pantaloni una chiave minuscola. Usò questa per aprire una scatola nel comodino del fratello. Ne estrasse una pistola.
Non avrebbe mai saputo giustificare la sua strana azione. E' come se in quel momento avesse preso il sopravvento l'istinto e tutti i suoi pensieri fossero svaniti insieme con la polvere.
Scese le scale di corsa, uscì e seguì il ladro delle scarpe dimenticandosi di essere in canottiera e a piedi nudi. Corse molto per raggiungerlo e per rendersi conto di chi fosse. Ma non fu sorpresa, appena scoprì l'identità dell'indiziato. Già sapeva che cos'avrebbe fatto con quelle scarpe.
Si fermò per qualche secondo.
«Nestor!» urlò con il fiatone «Fermati, ti prego!»
Il fratello si girò e cercò di nascondere l'imbarazzo per essere stato colto nel tentativo. Ma non disse nulla, alzò solo le spalle.
«Non puoi venderle!»
«Che cos'hai in mano?» Chiese Nestor, non era il solo ad aver rubato qualcosa.
«Prima pensavo fosse scappato un ladro, non mi sbagliavo.»
Nestor si irrigidì e strinse ancora più forte le scarpe.
«Senti, Calypso... Lo sai anche tu. Abbiamo bisogno di soldi. Dobbiamo mantenere anche te, lo sai?»
Calypso abbassò la testa e sentì gli occhi pizzicarle.
«Che fai, ora piangi? Piangi per delle scarpe?» Il fratello non faceva nulla per consolarla. Le faceva solo venire un certo prurito. Sembrava che le volesse proprio far venire un'irritazione.
«Ricordi, ricordi la mamma che cos'ha scritto nella lettera?» La bambina singhiozzava sempre più, sentendosi in imbarazzo davanti al fratello.
«Sì, ma ora ormai non importa più.»
«Ha detto che chi prima si sarebbe alzato avrebbe usato quelle scarpe. Ha detto che quelle scarpe avrebbero dovuto essere sempre il simbolo di fratellanza. Ha detto che non sarebbero dovute andare perse, perchè così sarebbe svanita anche la luce nei nostri occhi, nei nostri sguardi. Te lo ricordi?»
«E' acqua passata. Sono passati quattro anni, ormai. Sarà in Irlanda a godersi la sua bella vita. Già si sarà dimenticata di noi. Ormai non è più nessuno per dirci che cosa fare e che cosa non fare. Mi dispiace Calypso, ma devo andare adesso.»
Mentre Nestor se ne andava, la ragazza sentiva sempre più voglia di grattarsi in ogni parte del corpo, quasi fino a strappare la pelle.
«Ha detto anche che saremmo dovuti essere disposti a tutto pur di salvare quelle scarpe.» Urlò tutto d'un fiato, cercando di far girare di nuovo il fratello.
E ci riuscì. Nestor si vide una pistola contro. Ci mise molto tempo per realizzare le azioni della sorella, ma appena lo fece rise. Ma la sua risata nascondeva una completa incomprensione. Il ragazzo aveva sempre paura di ciò che non capiva.
«Che fai, ora, mi vuoi sparare?»
Calypso non rispose e impaurita si avvicinò sempre più.
«Vuoi spararmi solo per un paio di scarpe? Calypso, tu non lo farai mai. Ci vuole fegato per uccidere. Tu non ce l'hai. Non sapresti uccidere neanche una mosca. Sei come tua madre.»
La bambina strinse forte l'arma, cercando di assumere uno sguardo deciso.
«La vuoi sapere la verità? Non è stata la tua cara mamma a scriverci la lettera. E' stato nostro padre, così come ha fatto anche con le scarpe.»
«Sei un bugiardo!» ansimò disperata, le sue lacrime sarebbero potute bastare a dare da bere a tutta la famiglia per una settimana.
«Voleva nasconderti il fatto che tua madre non era per niente interessata a te. Da te ci era scappata. Con te non ci voleva più vivere. Sei tu che l'hai fatta scappare!»
«Non è vero!»
Calypso aveva prurito, non resisteva più. Quel prurito era fastidioso, le impediva di pensare. Non pensava ad altro oltre a che cosa sarebbe successo se si fosse grattata. Due dei suoi diti si avvicinarono al grilletto.
«Dai, forza, spara Calypso! Spara se ci riesci. Sono qui. Sei solo un'egoista viziata. Pensi solo a te e a tua madre. Non pensi a noi, alla famiglia? Sparami. Ci vuole meno di un secondo per farmi morire. Fallo.»
Calypso pensava. Si può mai sentire prurito e non grattarsi?
E la risposta la sapeva bene. Era no. Non ci si poteva sentire sollevati con il semplice ignoramento. Era necessario fare qualcosa.
La ragazza chiuse gli occhi e cercò di cancellare le provocazioni del fratello. Ma non ci riuscì.
«Dicono che le scarpe siano l'unico strumento con cui ci si possa viziare. I piedi devono sentirsi rilassati e al caldo al loro interno, devono sentirsi comodi. Dalle scarpe che indossa si può sapere tutto della vita di una persona, quindi bisogna averle sempre a posto. Devono essere belle, pulite e ordinate. E se non si  ha, un paio di scarpe, allora è la fine. Se non hai un paio di scarpe ai piedi, puoi svanire nel nulla.»
E tremolante sparò. Le avevano sempre detto che il prurito era una sensazione che provocava il desiderio di grattarsi. Sbagliavano. Il prurito era un riflesso. Il prurito non faceva pensare.
Grattarsi inizialmente dava sollievo. Ma poi da questo non ci si ricavava altro che segni sulla pelle e altra voglia di grattarsi.
Non si ricordava il momento in cui si era accasciato a terra, nè di cosa avesse provato fuggendo rapidamente nella spiaggia. Ma ciò che non avrebbe mai scordato erano i suoi occhi che lentamente perdevano la luce che tanto la mamma amava.
Il fratello aveva ragione. Ci era voluto meno di un secondo per vederlo a terra. Ma quanto ci sarebbe voluto per dimenticare?

 
*
 
«No!»
Calypso si alzò dal suo letto improvvisamente e aprì gli occhi. Si osservò nella stanza d'ospedale  e fece un respiro di sollievo.
Ma non si riaddormentò più, quella notte. Ora ricordava. Ricordava tutto. I mille dubbi che aveva erano svaniti, ma sarebbe tornata volentieri confusa come prima.
«Calypso» si sentì soffiare all'orecchio «un'anima nel buio costretta a conoscere la luce.»
Mille voci continuavano a girovagare da un orecchio all'altro facendola girare in continuazione.
Aveva molto freddo e si sentiva distaccata dall'ambiente in cui si trovava. Sentiva di impazzire.
«Calypso, Calypso, Calypso!»
«Infermiera Shatter, infermiera Shatter!» ansimò piangendo, in cerca d'aiuto «infermiera Shatter!»
Calypso vide sopra di sè un pulsante rosso, che doveva essere premuto solamente in caso di emergenza. Lo premette. Ottenne ciò che voleva, la dottoressa si precipitò dalla ragazza.
«Ti senti male?»
Calypso cercava di parlare, ma aveva il respiro corto.
«Che cosa ti senti?»
La ragazza iniziò a piangere, tant'era disperata.
«Voglio una-» disse a fatica «voglio un-a gomma.»
«Jordan, chiama il dottor Zevrev!» urlò l'infermiera «Sta avendo un altro attacco di panico!»
Calypso si sentiva soffocare.
«Tranquilla, va tutto bene. E' questione di minuti. Pochi minuti e tutto passerà.» la rassicurò la dottoressa.
«Una gomma.»
L'infermiera la guardò allibita. Durante i suoi due anni in ospedale non le era mai capitato che qualcuno le richiedesse qualcosa di simile, soprattutto in quelle situazioni.
«Una gomma? Calypso, a che cosa ti serve una gomma?»
«Per cancellare.»
Le lacrime erano sempre più numerose mentre i respiri sembravano accorciarsi sempre di più. Non era confusa, le sue idee erano perfattemente chiare. Magari lo fosse stata.
«Tranquilla, te la diamo noi, ora cerca di rilassarti. Ma che cosa devi cancellare?»
«Il passato.»

 
*
 
«Marija, Marija, Marí. Ismek fuq fomm kulħadd, isem ferrieħ!»
Una serie di parole che Mibruxa doveva ancora mettere a fuoco lo svegliarono. Ci mise qualche istante a capire che il suo cellulare stava squillando.
«Pronto?» disse il poliziotto, cercando di nascondere il fatto di aver dormito fino a quell'ora.
«Sylvan sono Clare, dove sei?»
«Sono a Malta a fare delle commissioni.»
«Mi sa che devi tornare a Gozzo.»
Sylvan si lasciò andare nel letto per la seconda volta e si chiese dove avrebbe trovato la forza.
«Perchè?»
«Calypso ha avuto un attacco di panico e ci hanno detto che questo è il momento più adatto per venire.»
«Non capisco...»
«Forse ora potrebbe ricordarsi.»

«Che succede?»
Mibruxa appena arrivato alla sala d'attesa si sedette accanto alla dottoressa Wajer.
«Lui è il signor Milman Bilsmear» disse con un sorriso compiaciuto.
«Io sono Sylvan Mibruxa» affermò il poliziotto «Mi occupo del caso. Mi... mi dispiace molto, signor Bilsmear.»
Il padre non disse nulla, come sola risposta gli strinse la mano.
Sylvan lo guardò per un attimo. Teneva chino il capo e il suo sguardo, che con difficoltà si poteva catturare, appariva appesantito, consumato. Anche il suo aspetto faceva capire in quali condizioni fosse. I suoi abiti, insieme ai suoi capelli, sembravano non esssere lavati da circa un mese. Ma ciò che più lo colpì era che non portava scarpe ai piedi, ma solo dei calzini di un grigio annerito.
E quei calzini, avrebbe detto Milman stesso, non erano i soli ad essere anneriti. Pian piano anche la forza che lo faceva alzare ogni mattina: la certezza di avere nonostante tutti i sacrifici una famiglia felice.
«Sylvan, il signor Milman è stato informato purtroppo di qualcosa di cui tu ancora non sai.»
«Che cosa?»
«Ci è arrivata una foto dall'Australia, da una fotografa. Pare che abbia scattato una foto dell'omicidio. Abbiamo fatto dei controlli approfonditi e la fotografia risulta non modificata.»
«Ma scusa, perchè aspettare così tanto prima di mostrarci la foto? E perchè non ha chiamato i soccorsi appena è successo l'accaduto?»
«Perchè stava fotografando l'alba, non se n'è accorta.»
«E vuoi dirmi che non ha sentito nessun rumore? Tutto mi sembra poco... Poco credibile.»
«Ha detto di avere le cuffie. Ma perchè dovrebbe mentire?»
«Non lo so, ce l'hai almeno questa foto?»
«Tieni, ho una copia.»
Il poliziotto a primo sguardo fu subito catturato dall'alba dov'era messo a fuoco, ma poi si spostò più in basso. Oltre a una rete, si potevano vedere due ragazzini. Uno a terra accasciato, l'altra più piccola in preda alla fuga.
«Non solo vengo a sapere della morte di mio figlio, ma poi vengo a sapere che a ucciderlo è stata la mia bambina!»
La dottorressa cercò di consolarlo.
«Signor Milman, so che cosa si provi e so che non è facile.»
«No, lei non può capirmi, nessuno mi potrà mai capire!»
«Io ti capisco, Mil.»
Finalmente, la donna che Mibruxa aveva visto avvicinarsi e allontanarsi in continuazione si era fatta avanti. Ma il suo arrivo non sembrò sollevare il padre, che si irrigidì ancora di più.
«Doris» disse soltanto.
«Non sai quanto io stia soffrendo, Mil.»
La donna allargò le braccia in modo insicuro nel tentativo di abbracciarlo, ma lui la schivò. A quel punto si sedette sul pavimento, abbattuta.
«Facevi più bella figura se restavi in Irlanda.»
«Che cosa stai dicendo Mil, si tratta pur sempre anche dei miei figli.»
«Tu, che ci hai abbandonati da anni e che non hai mai fatto una telefonata ora vieni qui e fai finta che niente sia successo. Lo sai quant'è stato difficile per me mantenerli tutti e cinque da solo? Tu non ne hai la minima idea!»
«Mil, io-»
«Non chiamarmi Mil!» sbraitò «Lo sai che ho dovuto fare con la tua piccola Calypso? Le ho dovuto mandare delle finte lettere da parte tua! Ho dovuto convincerla che tu l'amassi!»
«Ora basta!» li interruppe Mibruxa «so che non è facile ma dovete tenere a bada il rancore in questo momento delicato.»
Appena regnò il silenzio, iniziò a discutere. «Se ben mi pare di capire, ora non dobbiamo più trovare l'assassino ma capire se questo si ricorda ciò che ha fatto. Non è vero?»
La dottoressa fece cenno con la testa. «Bene. Inoltre, io non me ne intendo di psicologia ma la signorina Wajer ha detto che dobbiamo agire oggi, appena dopo il suo attacco di panico. Quindi credo di sapere che cosa fare. Dalla vostra lite ho potuto dedurre che Calypso nutre una profonda stima per la madre, correggetemi se sbaglio.»
Nessuno disse nulla allora il poliziotto fu certo della sua tesi. «Dottoressa, che cosa ricorda secondo le analisi Calypso?»
«Il luogo in cui vive, il suo nome e tutto ciò che ha letto e imparato durante la sua vita. Sa parlare, ma sa anche delle cose che ha appreso a scuola o dalla famiglia ma non ricorda chi gliel'abbia insegnate e dove e quando le abbia imparate.»
«Di conseguenza, non si ricorderebbe della madre se entrasse nella stanza, giusto?»
«Vuole che io entri?» chiese la madre, volenterosa di dare una mano.
«Esatto. Se Calypso non si ricorderà la saluterà ma non mostrerà molto affetto come lo dimostrerebbe vedendo sua madre che l'ama profondamente per la prima volta dopo tanti anni. Se si ricorderà invece le verrà incontro, si commuoverà o la saluterà affettuosamente. Staremo a vedere.»

Calypso pensava alle anime nell'Eneide che si tuffavano nel fiume Lete per dimenticare le vite passate così reincarnandosi.
Già l'aveva fatto, ma qualcuno sembrava averle tolto la testa da sott'acqua. Si sentiva così in una lunga coda in attesa di ributtarcisi di nuovo.
«Calypso, tesoro, ti ricordi di me?»
Si sentiva dire, ma lei non la guardava negli occhi. Era quasi il suo turno, presto sarebbe toccato a lei. Finalmente si buttò.
«Calypso, rispondi, non dici nulla?»
I suoi occhi ora erano tutti puntati su di lei, ma Calypso non si sentiva più osservata. Fece per parlare e vide tutti catturati dalle sue parole.
«Dicono che le scarpe siano l'unico strumento con cui ci si possa viziare. I piedi devono sentirsi rilassati e al caldo al loro interno, devono sentirsi comodi. Dalle scarpe che indossa si può sapere tutto della vita di una persona, quindi bisogna averle sempre a posto. Devono essere belle, pulite e ordinate. E se non si  ha, un paio di scarpe, allora è la fine. Se non hai un paio di scarpe ai piedi, puoi svanire nel nulla.»
Il suo discorso finì e nessuno osò interromperla. Era salva.








Ti ringrazio se sei arrivato fino a qua.
Ma ti ringrazio anche solo per avere letto una riga o aver aperto la pagina. Mi sento comunque ricompensata semplicemente avendo scritto qualcosa.
Il racconto sarebbe dovuto partecipare ad un contest, ma purtroppo non ho potuto finire entro la scadenza e mi sembrava assurdo affrettare i tempi perchè tanto sarebbe venuto male lo stesso.
Se avete qualche giudizio da farmi, sono tutta orecchie, non mi faccio problemi!
Baci,
Desperate Housewriter
  
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