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Autore: Madness in me    18/04/2014    2 recensioni
"Raggiunsi la solita panchina isolata, quella che nessuno vedeva, quella che tutti evitavano solo perché era rotta, perché le mancava una piccola parte di una delle stecche su cui ci si sedeva.
Quella panchina era mia amica, perché ? Perché anche lei era rotta ed evitata da tutti proprio per quello, perché essendo rotta era definita “pericolosa” quindi la gente preferiva non sederci."
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Listen up, i have a lot of scars,
a lot of fears.
But, ehi, come a little closer,
hold my hand and listen.
I will stay here, until you need me.
One day i will rise, i will smile,
and then i will scream,
i will scream to the world of us.
I will talk about those scars and fears.
I will tell to the others that if i survived,
then they can do the same.
So hold my hand, we get away.
-Sah. 


 

 

Passeggiare lungo una strada affollatissima senza essere notata neanche dalle persone che mi arrivano addosso, velocemente, spostandomi di qualche centimetro ad ogni urto, era diventato ormai un passatempo.
Ero quasi completamente abituata a quel senso di invisibilità che circondava la mia vita.
I miei anfibi scuri calpestavano l’asfalto senza produrre alcun rumore o forse era semplicemente la musica alta a coprire qualsiasi rumore attorno a me.
Gli shorts di jeans tutti strappati avevano dei filetti che pendevano, disperati e persi, dondolando a ritmo con i miei movimenti lenti.
Le pieghe delle calze scure mettevano fin troppo i risalto le ossa spigolose.
Il mio maglione nero, enorme, a coprirmi fin quasi al sedere, con le maniche abbastanza lunghe da coprirmi tutte le mani.
Quelle mani che ero abituata a tenere strette per evitare che il maglione sfuggisse e mostrasse al mondo quelle stupide, piccole braccia rovinate.
Il cappello nero calato fino a metà fronte e quello stupido ciuffo di capelli nero a coprirmi la metà della faccia che faceva più schifo.
L’altra metà non era bella, però era accettabile ed avrei comunque dovuto guardare dove mettevo i piedi, così ero costretta a lasciarla scoperta.
Raggiunsi la solita panchina isolata, quella che nessuno vedeva, quella che tutti evitavano solo perché era rotta, perché le mancava una piccola parte di una delle stecche su cui ci si sedeva.
Quella panchina era mia amica, perché ? Perché anche lei era rotta ed evitata da tutti proprio per quello, perché essendo rotta era definita “pericolosa” quindi la gente preferiva non sederci.
Ogni tanto qualcuno ci camminava sopra, ogni tanto qualche corridore ci appoggiava i piedi per fare stretching, qualche secondo, poi ripartiva e la mia piccola panchina rimaneva di nuovo sola.
Sola e rotta, in attesa di qualcuno che la aggiustasse.
Ma l’avrebbero mai aggiustata ? Ne dubitavo.
Forse, prima o poi, l’avrebbero sostituita.
Sorrisi amaramente a quel pensiero, senza sapere se stessi ancora pensando alla panchina o a me.
Mi misi seduta accarezzando delicatamente il legno rovinato e vecchio di quella panchina tanto sola.
Ero impegnata a guardarmi le dita, completamente massacrate dai miei morsi, stringere in un possente stretta la sigaretta che mi stava aiutando a distruggere quel poco di me che rimaneva quando accade ciò che mi accadeva ogni giorno con milioni di persone diverse.
Un’anziana signora mi passo davanti, incrociando il mio sguardo vuoto, triste, spaventato e contornato di nero e storse il naso, come schifata.
Solitamente ad una simile reazione avrei risposto abbassando lo sguardo e sospirando, pensando “quanto schifo posso fare ?” ma quel giorno qualcosa era diverso.
Nell’istante stesso in cui lo sguardo schifato dell’anziana signora toccò –o meglio, ustionò- la pelle pallida, nelle mie orecchie Chris Motionless gridò “YOU ARE NOT FUCKING ANGELS AND MUCH LESS FUCKING KINGS”  e la mia reazione fu assurdamente rapida.
La mia mano si sollevo dal mio ginocchio, raggiunse l’altezza del mio viso, si chiuse in un pugno e lasciò dritto il mio dito medio.
L’anziana signora sgranò gli occhi, si portò una mano davanti la bocca con fare sconvolto e poi accelerò il passo, allontanandosi in fredda da me.
Rimisi al suo posto la mia mano guardandola come non facesse parte del mio corpo, come fosse qualcosa di estraneo a me.
Avevo appena mostrato il mio dito medio in risposta al disgusto di una persona nei confronti della mia distruzione totale.
Io, che di solito abbassavo la testa e mi lasciavo sommergere dallo schifo sempre di più ad ogni sguardo o parola storti.
Perché quella reazione ?
Forse il perché lo sapevo, forse avevo solo paura ad ammetterlo.
Ma forse era appena arrivato il momento di cominciare a scoprire tutte le bestie che tenevo dentro, chiuse in gabbie coperte da teli pesanti e neri, neri come la mia anima.
Forse, semplicemente, ero stanca di tutto quell’odio gratuito.
Senza forse, ero stanca.
Stanca degli sguardi storti e schifati delle persone.
Sguardi storti e schifati per cosa, poi ?
Semplicemente perché ero il relitto di me stessa, l’ombra sbiadita di ciò che rimaneva di una diciannovenne distrutta.
Distrutta da chi ?
Proprio dalle stesse persone che ora mi guardavano con disgusto.
Distrutta da tutte le etichette che mi avevano conficcato nel cuore con degli spilli: “non abbastanza”; “errore”; “schifo”; “grassa”; “brutta”; “strana”; “depressa di merda”.
Ma la gente se lo chiedeva mai com’era essere una “depressa di merda” ?
Certo che no.
Non si fermavano mai ad osservare quel che c’era dietro quel mio essere “strana”.
Nessuno li vedeva, i demoni dagli occhi rossi e i denti aguzzi che ogni notte afferravano le mie membra e le laceravano gridando “FAI SCHIFO”.
Nessuno le sentiva mai quelle voci che, ogni fottuto e schifoso secondo, urlavano nella mia testa tutte quelle parole che mi venivano vomitate addosso ogni giorno e che pesavano sulle mie spalle come macigni.
Nessuno le guardava mai quelle braccia piene di sfregi, quegli sfregi che se visti venivano etichettati come “stronzate” ma no, cazzo, non erano stronzate.
Erano dannati sfregi, grondanti di sangue e odio.
Ma la gente no, era ferma alle apparenze.
Nessuno si fermava mai a pensare a quanto facessero male quelle ossa sporgenti.
Ero semplicemente un’ “anoressica di merda” e questo bastava, ma no.
Non lo capivano, non capivano che quelle ossa sporgenti facevano male, perché mi faceva schifo vederle in ogni centimetro del mio corpo e nessuno sapeva che continuavano a sporgere, sempre di più, fin quasi a lacerare la pelle perché il loro “grassa” risuonava pesante nella mia testa fin quasi a non farmele vedere, quelle maledette ossa; mi rimbombava in testa fino a farmi vedere grasso in eccesso dove in realtà non c’era, dove ormai era rimasto solo un sottile, sottilissimo strato di pelle che restava li, a fatica, a tenere insieme quello schifo che ero.
E non lo sapevano, neanche lo immaginavano, quanto facesse schifo l’idea di dover stare da soli su una panchina rotta e abbandonata in un parco in decadenza solo perché avevo paura dei posti affollati, perché nei posti affollati la gente mi avrebbe toccata ed odiavo essere toccata.
E se venivano a sapere che odiavo il contatto fisico ? Altra etichetta: “complessata del cazzo”.
E anche qui nessuno rifletteva, l’apparenza bastava ? No che non bastava,  non bastava affatto.
Nessuno si sarebbe mai fermato a chiedersi “perché mai ha così paura di un semplice contatto fisico ?” e dal momento che nessuno se lo chiedeva, nessuno avrebbe mai saputo che quella diciannovenne grassa, strana e complessata del cazzo aveva fisso in testa il ricordo di quel contatto fisico di anni precedenti che le aveva distrutto tutto, che le aveva fatto crollare addosso il mondo; quel contatto fisico violento e sporco, che l’aveva macchiata dentro, a vita.
Quel contatto fisico che le faceva venire da vomitare ogni volta che un’altra persona la sfiorava, quello stupido, maledetto e schifoso contatto fisico che l’aveva distrutta e che faceva sì che la sua mente la etichettasse come “sporca dentro”, ma sporca di quel lercio che non si pulisce, in nessun modo, mai più.
Di quello sporco che più cerchi di pulirlo più si espande arrivando a coprire l’intera superficie.
E quella superficie era la sua anima, ormai macchiata per sempre, logorata dai continui sfregare vani.
Ma nessuno si sarebbe ma soffermato a farsi domande.
Nessuno voleva le risposte.
A nessuno importava.
“Darling, you’ll be okay.” Quasi sussurrò, Vic Fuentes, da dentro quelle piccole cuffiette fisse nelle orecchie della piccola diciannovenne distrutta e logora, come la panchina su cui sedeva.
Sorrisi per metà.
Forse mi ero sbagliata.
Forse a qualcuno importava.
Forse disperso da qualche parte nel mondo, c’era qualcuno a cui importava di lei, che le avrebbe sempre chiesto di combattere, di rimanere forte.
Erano quelli che, prima di lei, erano stati riempiti di etichette.
Ma erano anche quelli che quelle etichette le avevano strappate dalla loro carne e le avevano buttate al fuoco per afferrare poi strumenti musicali e microfoni e nascondersi in delle piccole cuffiette, gridando nelle orecchie dei “non abbastanza”.
E gridavano, forte, fino a sovrastare il mondo e tanto bastava ai “non abbastanza” per dirsi “Ehi, se loro ce l’hanno fatta, forse c’è speranza anche per me.”
Accarezzai un’ultima volta la panchina poi mi alzai e mi incamminai di nuovo.
Verso dove ?
Non lo sapevo.
Ma camminare mi piaceva.
Mi ricordava, in qualche modo, che non ero poi così morta come la mia mente mi faceva credere. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E' solo un piccolo sfogo di cui necessitavo.
E' solo una parte di me messa su un foglio elettronico.
E la "citazione" iniziale è parte di un testo che sto scrivendo e a cui sono particolarmente legata, vi prego di non prenderlo senza scrivere di chi è.
Per il resto, spero di non aver fatto schifo.
Altrimenti, pace.
Somuchlove,
Sah. 

  
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