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Autore: Claudia    17/12/2004    6 recensioni
Cacciati dal Paradiso Terrestre, sperimentavano la stessa sofferenza.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Asuka Soryou Langley, Shinji Ikari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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// PURE FIRE vr.01 // IL Riposo dell'ANIMA

IL RIPOSO DELL'ANIMA

 

 

 

Da anni, li osservo. Spesso mascherati dalla nebbia, dalla notte e perfino dalla neve, rimangono implacabili, immobili come simboli di un mondo pieno di peccato. Un mondo che è rimasto privo dei propri peccatori. Sorrido, quegli angeli crocifissi hanno tinto con il loro sangue le acque che oggi ci dissetano.

Abbiamo bevuto del sangue degli Angeli.

 

Forse, siamo diventati anche noi degli Angeli... o meglio, dei Messaggeri del Genere Umano. Unici sopravvisuti di una stirpe andata persa dal mondo.

Osservò l'acqua che lambiva i suoi piedi. I suoi occhi erano ampolle castane che fissavano la sabbia finissima, sabbia artificiale, creata a suo tempo per quel bacino. Un bacino che era diventato il simbolo del sacrificio umano. Il sacrificio di Dio. Non badò alla leggera brezza che gli scompigliava i capelli e ricacciò indietro quei ciuffi ribelli che si ostinavano a seguire sempre il vento. Con lo sguardo seguì la linea delle colline che si tuffavano nell'acqua. Poi più niente se non una distesa di liquido azzurro.

 

"... è da tanto che ti cerco. Potevi avvertire che uscivi."

 

Non si voltò, semplicemente perché non ne aveva bisogno. Esisteva una sola persona che aveva quel timbro di voce. E non si spaventò, perché nessuno avrebbe più potuto incutergli timore. Sorrise con amarezza, ostinato nella sua contemplazione. Che bisogno c'era di sapere dove fosse? In fondo erano soli, nessuno avrebbe potuto far loro del male. Ormai non esisteva nessuno che avrebbe potuto farlo. E questo gli dispiacque. Si, perché la loro vita apatica era una fonte infinita di noia. E con il tempo, crescevano in loro i desideri di autolesionismo e di masochismo. Ma alla fine, per una ragione sconosciuta ad entrambi, erano sempre vivi. Illesi. Così continuavano a trascinare le loro magre esistenze, sperando sempre in un miracolo. Un miracolo. Se gli Angeli esistevano, esisteva anche colui che li aveva creati. Prima o poi questo colui li avrebbe ricordati, si sarebbe scusato e li avrebbe liberati dalle catene che li tenevano avvinghiati a quella terra peccatrice.

 

Fino a quel momento, avrebbero continuato a muoversi su un suolo sempre più sconosciuto.

Si voltò ed osservò quegli occhi opachi, uno azzurro, l'altro marrone. Quest'ultimo leggermente più chiuso del primo.

 

"... che differenza vuoi che faccia. Anche se volessi, non potrei andarmene."

 

Infatti, non esisteva alcuna differenza. Almeno secondo il suo punto di vista.

I luoghi che desiderava esplorare richiedevano troppi giorni di viaggio. Mancava di voglia, ma soprattutto lei non lo avrebbe mai lasciato andare.

 

Troppa paura.

 

Già. Lei non lo avrebbe mai ammesso... ma aveva paura.

E non parlava di quella paura insita nel genere umano di fronte a un film dell'orrore.

No... la paura che intendeva lui era tutt'altra cosa.

E forse chiamarla *paura* era troppo riduttivo. Ma l'alfabeto dell'uomo era limitato, pertando lo erano anche le parole.

 

"Sai bene che questi discorsi non li tollero."

 

L'aveva detto di nuovo, con un tono di voce che si sforzava di controllare. Ormai era passato parecchio tempo dall'ultima volta che lei aveva cercato di imporsi sugli altri.

 

Ma in un certo senso, era rimasto il detto... il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Forse si era ammansita... si, sicuramente. Perché tutto ciò a cui teneva per non mandare in pezzi la sua immagine era stato spazzato via il giorno del Third Impact. Non aveva più modo di comportarsi come era solita fare. Si arrabbiava sempre con lui, ma a lungo andare aveva perso interesse nell'offenderlo e nel gridargli contro.

 

La belva era stata imprigionata.

In una gabbia dalle sbarre d'acciaio.

Aveva sguainato gli artigli e le zanne per liberarsi, ma alla fine era rimasta ferita e aveva rinunciato al proprosito di evadere.

Si, Asuka aveva forse rinunciato alla vita stessa.

Ma nonostante questo, rimaneva sempre in piedi, con sguardo inespressivo, come se volesse sfidare il mondo.

 

"Lasciamo perdere. Torniamo a casa, ok?"

 

E le aveva preso un braccio. Quando lo vide, provò una morsa all'altezza dello stomaco. Era piena di lividi più o meno scuri, con graffi alle mani e agli avambracci.

Decisamente non gli piaceva vederla torturarsi a quel modo.

Torture che non servivano a niente, visto che rimaneva sempre in vita.

La guardò con uno sguardo colmo di rimprovero, mentre i suoi occhi si tuffavano in quelli non curanti di lei.

Era disarmante la sua bellezza.

I suoi capelli sempre rossi che le incorniciavano il viso, ribelli almeno quanto i suoi.

Le labbra... a volte rosse a volte di un color rosa pallido.

Bocca che amava sentire sulla sua, che adorava mordere fino alla comparsa di rigoli di sangue.

Le procurava una sorta di autolesionismo.

E a lei andava bene, lui le toglieva il gravoso compito di doverlo fare. Di ferirsi. Era opprimente, meglio se era lui a farlo.

 

...

 

... però le loro vite erano un'eterna contraddizione. Una testimonianza del loro lieve attaccamento all'esistenza.

Se potevano fissarsi a quel modo, era solo perché entrambi venivano spesso colti da una barlume di lucidità che spesso affiorava a galla.

Quella lucidità che divide l'uomo dalle bestie.

Le afferrò una mano e la sentì calda nella sua.

Gli fece capire che, nonostante le apparenze, la linfa rossa e vischiosa scorreva ancora nelle sue vene e pulsava, facendo pompare il cuore.

Non c'era niente di anormale in questo, ma la sola costatazione significava comunque molto.

Lei sorrise.

Un sorriso stanco, certo, ma pur sempre un sorriso.

E in quell'ultimo periodo sorridere era un dispendio di energie inutili.

.... come il sesso del resto. Quanto tempo era che non ne facevano?

Le buoni intenzioni c'erano sempre state, ma alla fine, la stanchezza spossava i loro corpi ancor prima della degna conclusione a quell'atto biologico.

La ricondusse mesta a casa.

Casa. Non era il termine appropriato, ma a lui piaceva definirla a quel modo.

Era un rudere, un edificio diroccato fatto di sassi e pietre di cemento armato che stavano ferme e immobili da tempo.

Non avevano mai spostato niente... sassi o cose del genere. Semplicemente perché sembrava loro un peccato.

Ogni pietra, ogni rudere, era simbolo di ciò che era stato.

Faceva parte del loro masochismo: ricordare, ricordare e mai dimenticare.

Cosa era successo al mondo, cosa era successo a loro.

 

"Shin-chan? L'acqua sta finendo."

 

"Lo so, domani andrò a prenderne dell'altra."

 

"Se vuoi posso venire con te."

 

La guardò mentre versava il contenuto di un secchio in un piccolo bicchiere.

"No... meglio se rimani qui con loro."

 

Gli porse il bicchiere e si accovacciò al suo fianco. Rimasero in silenzio, mentre Shinji aveva preso a bere quella poca acqua che era loro rimasta.

"Sai," Asuka prese a fissarlo " ho riflettutto su una cosa."

 

Shinji non abbassò lo sguardo, aveva smesso di guardare in volto le persone che gli parlavano. Non aveva motivo di farlo, visto che il numero di individui a cui parlare si era drasticamente ridotto a uno.

 

"Adamo ed Eva devono aver sofferto parecchio per crearci. Sono sicura che non gli andrebbe a genio sapere che tutti quanti i loro figli sono andati uccisi."

"In un certo senso sono stati loro ad ucciderci dal momento stesso in cui sono stati scacciati. Così come ci hanno creato, ci hanno distrutto."

"... noi versiamo nelle loro stesse condizioni. L'Eden ci ha espulso, per la seconda volta."

Si, l'Eden aveva chiuso loro le porte. Cacciati dal Paradiso Terrestre, sperimentavano la stessa sofferenza.

"... sei sempre in vena con questi discorsi. Dovresti smetterla."

 

Lui non capiva, o per lo meno faceva finta.

 

Ma quei discorsi, così come lui li definiva, erano l'unico metodo che garantiva la sopravvivenza dei loro cervelli.

La noia era diventato un parassita annidiato dentro le loro anime.

Ferirsi, pensare, mangiare e bere erano le uniche cose da fare per non cadere nello stato catodico-depressivo.

Asuka aveva avuto costante premura delle sue facoltà mentali. E anche se non servivano a molto nelle condizioni in cui versavano, erano sempre un appiglio sicuro a qualsiasi turbamento.

Ripassava nella sua mente, leggi chimiche e fisiche, assurdi assiomi quanto mai contorti. Nel suo desiderio alla morte, erano il suo unico grido all'esistenza.

Questo era il suo modo di resistere.

Quale fosse quello di Shinji, non lo sapeva. Ma c'era e sembrava comunque un buon metodo.

Gli occhi di lei si soffermavano su qualsiasi cosa che ospitava quel locale. Un tempo, quella stanza era stata una cucina. Non sapevano chi ne fosse il proprietario, ma i fornelli e le griglie parlavano chiaro. Un tempo, qualcuno si riuniva intorno al tavolo a cui stavano seduti.

Una famiglia, chissà.

Oppure una persona sola... un po' come la signorina Misato.

Abbozzò un sorriso al pensiero della donna.

La persona più stupida e sentimentale che aveva mai conosciuto nella sua vita.

Fissò una mattonella nera, scrostata dal tempo.

Quella mattonella le ricordava Misato. Un tempo nera e lucente, e alla fine rotta, a pezzi. L'inevitabile declino di un'esistenza già segnata: il destino del Capitano Katsuragi.

... un rumore di cocci la distolse dai suoi pensieri. E come lei, anche Shinji diresse il suo sguardo laddove un tempo si ergeva una porta.

 

"Saki, dovresti essere a letto."

 

Asuka prese in braccio una bambina, dallo sguardo un po' assonnato che a fatica si reggeva in piedi.

 

"Mamma..."

 

La fece sedere tra loro, come erano soliti fare tutte le volte che la loro figlia si svegliava nel cuore della notte.

Avevano avuto Saki dall'unione di una notte disperata.

E la loro disperazione aveva donato una vita.

... quasi un ossimoro.

 

"Non dovrebbe stare sveglia la notte."

"Potrebbe avere qualcosa... in quel caso non lo sapremmo mai."

 

...

 

La cruda verità li schiaffeggiava come l'aria fredda della notte.

Su di loro incombeva anche la profonda consapevolezza che in caso di malattia, la più rosea delle guarigioni era la morte.

Sia Asuka che Shinji avevano preso banali raffreddori, le loro forze immunitarie erano bastate.

Ma se i germi della frebbe avessero colpito Saki, nessuno poteva fare ipotesi. Non esistevano vaccini, medicinali. Niente.

Stavano vivendo una vita quasi primordiale.

 

"Saki, dove sei?"

 

Ed infine eccolo. Il loro primogenito. Un bambino di nove anni che assomigliava alla rossa in modo impressionante.

 

"E' qui con noi... russi troppo per tua sorella."

"IO non russo! Saki si inventa sempre tutto!"

"Yoichi, non dare sempre la colpa a Saki!"

 

Shinji sorrise. Volente o nolente, Asuka si era immedesimata molto bene nel ruolo di mamma.

Un ruolo che in passato lo avrebbe fatto morire dal ridere.

 

...

 

Non era stato difficile dire a Yoichi quello che era successo. Lui non conosceva il mondo prima della distruzione. Non ne conosceva i confort, la tecnologia. Era quasi un bene.

Spesso si perdevano a raccontare la storia dell'uomo, e le chiare ed evidenti conclusioni a cui era arrivata.

Tutte storie che affascinavano il loro figlioletto.

Molte volte lo trovavano per strada a contemplare oggetti distrutti, come auto, pali della luce. Sorridendo, fiero di conoscerle.

Era un bambino che si rallegrava per piccole cose.

Davvero molto piccole.

Forse,anche i loro figli avevano contribuito ad alimentare la loro lucidità.

Una lucidità che stava scemando come le loro esistenze.

E ben presto, come erano ben consapevoli, avrebbero perso anche quell'appiglio chiamato 'consapevolezza'.

 

...

 

"Papà, questo cos'è?"

"Era un auto."

"E a cosa serviva?" guardò il figlio, arrendendosi alla sua curiosità.

"Era un mezzo di trasporto. Lo usavamo per spostarci, eravamo troppo pigri per camminare."

"Forte!"

Forte.

Una cosa tanto ovvia come una macchina destava interesse in quella piccola testolina dai capelli arruffati.

C'era tanto da sapere, e così poco tempo per raccontare.

Riassumere la vita dell'umanità ai propri figli, era un compito troppo arduo, anche per un essere umano.

 

...

 

Qualcosa lo sollevava.

Il fatto che non avessero mai chiesto dei giganti impalati nelle acque.

Yoichi li aveva visti, osservati, ma non aveva mai fatto domande. Forse per paura.

 

 

 

...

 

 

"Non trovi che siano molto carini quando dormono?" domandò la rossa, appoggiata a un vecchio stipite.

"Aha, sai... non credevo che essere padre significasse... questo." Aveva farfugliato quelle parole tentando di nascondere la dose di timidezza che c'aveva messo.

"Almeno la possibilità di essere genitori, Dio ce l'ha concessa. Credo che in fondo sia una bella cosa. Mi accorgo solo ora che sarebbe bastato molto poco per rendermi felice." Asuka abbassò lo sguardo e Shinji capì che quelle parole erano dirette al padre, l'uomo che Asuka detestava più di qualsiasi altra persona al mondo. E pensandoci, anche lui provava lo stesso. La parte del 'figlio' gli era stata completamente preclusa dalla sua vita.

Rimasero in silenzio, ognuno con la mente alla propria infanzia.

Andarono in terrazza, mirando le stelle delle volta. Più pulita, dopo la distruzione.

Pensarono al Dio che esisteva quando ancora c'era vita su quel pianeta.

Le carcasse degli Eva fissavano il cielo, emettendo un grido silenzioso.

E i due bambini li videro. Seduti, vicini. Il braccio del padre attorno alla vita della madre. Due immagini eteree sotto il chiaro della Luna, alta in un cielo illuminato di stelle. Saki tentò di parlare, ma la mano del fratello raggiunse la sua piccola bocca, incitandola a non parlare sollevando il dito indice all'altezza del naso.

"Mamma e papà stanno dormendo. Se li svegliamo, ci puniranno!" aveva sbibigliato all'orecchio della sorella, terrorizzato all'idea di disturbarli.

Erano buoni, ma quando si arrabbiavano perdevano il loro autocontrollo, in modo particolare la madre.

Yoichi trascinò la bambina nel buio della loro stanza, riprendendo a dormire nel piccolo giaciglio che i loro genitori gli avevano costruito.

Quella notte dormirono sicuri, certi di essere protetti.

La mano di Asuka poggiava su quella di Shinji.

Quel giorno aveva indossato un vestito rosso, rosso come i suoi capelli. A detta di lei, era il suo vestito preferito.

In realtà, quella mattina aveva pensato di indossarlo per i propri figli.

Era perfetto per mascherare il rosso del loro sangue.

I loro figli.

Ignari del passato, avrebbero creato un futuro. Un'umanità forse diversa dalla loro.

.. per mano della lama di un coltello...

... era giunto il riposo della loro anima.

 

 

FINE

 

  
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