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Autore: Alkimia    20/04/2014    5 recensioni
"Hanno di nuovo gli stessi nemici, ma non combattono più dalla stessa parte. È strano con quante parole diverse possa scriversi una sconfitta."
[Stucky]
[Spoiler da TWS]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Steve Rogers
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Domani nella battaglia pensa a me
 
 
Maybe I was dreaming of a garden growing far below.
Maybe I was dreaming of a life that I will never know.
 
 
«Sono arrivato tardi, stavolta»
«Non fartene una colpa»
Il sorriso arranca sul labbro spaccato di Steve. La colpa è solo mia.
Il tizio aveva un destro niente male, era un destro, no? Non ha importanza, i lividi ci mettono sempre più o meno la stessa quantità di giorni a sparire anche se pare impieghino una vita intera a smettere di fare male. Il ragazzo vorrebbe dimenticarli, e invece li ricorda tutti.
Bucky continua a guardarlo dalla soglia della porta. Non che la faccia pesta del suo migliore amico sia uno spettacolo nuovo, ma ad ogni episodio del genere diventa sempre più difficile per lui trovare qualcosa da dire, parole che non sembrino simili ai pugni già presi. La frequenza con cui Steve si caccia nei guai, comunque, sta diventando tremendamente allarmante e quando è troppo è troppo.
«Ti darei il resto, giuro, se non fosse per tua madre».
Steve incassa anche questa. «Sì. A proposito di mia madre, ehm…».
A proposito di sua madre che, come ama ricordargli, di gente sanguinante ne vede già abbastanza nelle corsie dell’ospedale, forse è meglio se lui si dà una sistemata prima di rincasare.
Bucky si sposta per lasciarlo entrare, non fa domande e non aggiunge parole inutili perché ci vuole un affetto enorme, smisurato, per conoscere la collocazione e la resistenza di ogni singola crepa sulla corazza dell’orgoglio di qualcuno, e forse ci vuole qualcosa di ancora più grande per non sentire il bisogno di strappartela di dosso con la scusa della sincerità.
Casa Barnes è a meno di trecento metri dai rimproveri di sua madre e dal volto duro di suo padre, dove la guerra ha scavato solchi di disillusione, eppure per Steve continua a essere l’unica zona franca di tutta Brooklyn. 
Il pianterreno è in penombra, le tapparelle socchiuse lasciano entrare fette di luce polverosa. Una di queste cade sul tavolino e illumina la prima pagina del giornale, come un faro da palcoscenico. Quelle prime pagine dicono la stessa cosa da giorni, parlano di venti di guerra che soffiano oltreoceano; sembra ancora tutto lontanissimo e confuso ma ha già il sentore di un temporale che fa bruciare le vecchie cicatrici dei soldati, di quelli sopravvissuti alla Grande Guerra. Soldati come il padre di Steve.
C’è qualcosa di affettato e goffo nel modo in cui Bucky cerca di distogliere l’attenzione dell’amico dal giornale, qualcosa di simile a quando si vuole mentire a un bambino, ma Steve ha idea di sapere cos’è che lui non è pronto a dirgli: se scoppiasse la guerra, si arruolerebbe. Non è neppure una decisione, è destino.
«Siete riusciti a farvi aggiustare la radio?» domanda Bucky, quasi a caso, pilotando l’amico verso la cucina.
La radio è quella che il padre di Steve ha gettato giù dalla mensola mentre veniva trasmesso il resoconto di uno dei discorsi di Adolf Hitler.
«Forse ce la ridanno domani».
Bucky prende uno strofinaccio pulito e lo inumidisce sotto il getto d’acqua del lavello, poi lo appoggia con delicatezza sul viso tumefatto di Steve. Lo fa tutte le volte, con la tranquillità metodica della rassegnazione, sembra essere diventato un rito e lui lo lascia fare, perché è l’unica cosa che lo consola dall’essere tutto ciò che non vorrebbe al di sotto di quella corazza di orgoglio che resta in bilico, appesa solo alla sua testardaggine.
Steve ha un leggero sussulto quando il fresco dell’acqua si somma al pulsare del livido e man mano lo spegne.
«Per piacere, la prossima volta prima di fare a pugni, aspetta almeno che io sia nei paraggi, ok?». Bucky lo guarda negli occhi, come ad assicurarsi che lui abbia capito: pensa a me.
Ma se Steve ci pensasse, sarebbe tutto molto più difficile.
«Ti ho già detto che non devi fartene una colpa. Non sono mica una tua responsabilità»
«No, diciamo che tu sei la mia missione».
 
***
 
«Avevi ragione sai, sono la tua missione, lo sono sempre stato, fin da quando eravamo ragazzi».
A Steve sembra che quelle parole rendano giustizia anche a se stesso, ora che anche lui si chiede chi è, chi dovrebbe essere dal momento che il mondo da cui proviene non esiste più e quello a cui ha cercato di adattarsi è crollato.
Captain America è una maschera, è ciò che deve, ciò di cui gli altri hanno bisogno, ma è l’appartenenza che definisce le persone e non c’è più niente a cui lui senta di appartenere. Niente, se non una singola, fragile eccezione.
«Ti prego, ascoltami».
Allunga la mano in un gesto automatico, afferra l’arqia, stringe nel pugno fantasmi di cui non sa riconoscere le voci, poi lascia cadere le braccia lungo i fianchi.
Il Soldato di Inverno è dall’altro lato del piazzale, lo guarda al di sopra del cumulo di macerie polverose, resti di una base dell’HYDRA che ha fatto saltare in aria. Sta immobile e all’erta, con il viso contratto, come quando senti uno sparo e aspetti di avvertire il bruciore del proiettile che ti affonda dentro.
È così che Steve lo ha trovato, seguendo la scia di macerie che si lasciava dietro, seminando tracce con la sventatezza di chi non ha più niente da perdere.
Hanno di nuovo gli stessi nemici, ma non combattono più dalla stessa parte. È strano con quante parole diverse possa scriversi una sconfitta.
«Non voglio ascoltare» dice il Soldato. «Non capisci? Non serve, né a restituirmi ciò che ho perduto né a ripulirti la coscienza».
Quello che abbiamo perduto, vorrebbe dirgli Steve. 
Il vento mescola polvere e fumo.
«Distruggere non è tutto quello che sai fare, non è tutto quello che ti resta» insiste il Capitano. Davvero non sa se serva, ma sa che Bucky è ancora fermo sul margine di una parete crollata, come se avvicinarsi gli faccia più paura che voltargli le spalle.
Cosa stai combattendo davvero?
Alla fine, il Soldato serra le labbra e allenta i pugni. È veloce nel saltare di lato e poi sparire oltre il moncone di muro.
Le macerie stridono, la parete crollata si spezza e cade sollevando altra polvere bianca come nebbia.
Steve si chiude gli occhi, preme il dorso della mano contro la bocca e il naso e corre alla cieca, inseguendo l’amico perduto, cercando di distinguerne il rumore dei passi che si perdono in quel labirinto di devastazione.
Vede il nero di un’ombra e ci si butta contro, maldestro e disperato. Atterrano entrambi sull’asfalto, qualcosa ad altezza del ginocchio strappa il tessuto dei jeans e taglia.
La cappa di polvere e fumo toglie il respiro, come la nebbia alle pendici delle Alpi, in una vita che non sarà mai abbastanza lontana, in una notte che non sarà mai abbastanza buia da essere dimenticata.
Le montagne sembravano mura di pece sotto il cielo senza stelle, in fondo al sentiero che portava fuori dal campo e che saliva al margine di un piccolo pendio, una lingua infida di fanghiglia scivolosa. Quella volta era stato Steve a cadere, ma Bucky lo aveva afferrato prima che ruzzolasse contro il fianco erboso della collinetta, giù contro il buio e i sassi. Era stata la notte prima dell’assalto al treno. Era stata la prima volta che Bucky aveva appoggiato le labbra alle sue.
«Se sarai così maldestro domani sarà un disastro».
Steve non aveva capito se si riferiva alla caduta o ad altro. Aveva solo potuto promettere che l’indomani avrebbe fatto attenzione.
E adesso, se solo fosse sicuro che ci fosse Dio a guardare, darebbe fuoco a ogni sua preghiera perché nella mente di Bucky si accenda quello stesso ricordo. O il ricordo di un labbro spaccato sul quale appoggiava canovacci umidi.
Ma Bucky è steso in terra con il viso nella polvere, sotto di lui, e sembra opporre resistenza al suo stesso nome. E gli dice che non vuole ascoltare, e gli ricorda di una coscienza sporca con cui lui non ha mai imparato a fare i conti.
Steve si scansa e si lascia cadere seduto sull’asfalto ruvido.
Di nuovo, Bucky non scappa. Si volta di lato, resta steso di schiena. Il Capitano sa che lo sta guardando ma non ha il coraggio di ricambiare lo sguardo di due occhi tanto cari e così estranei. 
«Non ti colpirò di nuovo, non posso farlo» dice il Soldato, e lo dice ringhiando senza alcuna dolcezza.
Ti prego
«Io posso aiutarti».  
rimani.
«Non puoi, Steve. Tu vuoi giustizia, io voglio vendetta».
Troppe parole sbagliate in una sola frase. E il suo nome nel mezzo, come l’ago di una bussola rotta.
Ti prego
«Ricordi abbastanza da sapere che non posso lasciartelo fare?»
pensa a me.
E il cuore di Steve si ferma sulla punta di un sorriso, uno di quelli sbiaditi da troppe ombre, uno di quelli lontani.
«Ti darei il resto, giuro, se non fosse per tua madre». Anche la voce suona lontana, ma gli occhi di Bucky sono lì ora. «Ricordo abbastanza da prometterti che tornerò».
 
***
 
«Steve!». La voce di Sam sovrasta la polvere e la nebbia di confusione che condensa in un tremendo cerchio alla testa.
Il Capitano strizza gli occhi, sente il sapore del sangue in bocca.
Sam atterra a pochi passi da lui, le ali di Falcon si richiudono su loro stesse con un sottile  suono metallico, e in un istante gli è accanto, mani sulle spalle a scrollarlo un po’ troppo forte: il male alla testa diventa lancinante, male di chiodi che gli si conficcano nelle tempie.
«Aveva detto che non mi avrebbe colpito» dice, in risposta allo sguardo preoccupato di Sam. Ma quello degli ultimi istanti non era Bucky, era il Soldato di Inverno, il fantasma, l’arma modellata a immagine e somiglianza dei suoi padroni.
Bucky è quello che ha promesso di tornare, e lui potrebbe quasi farselo bastare.
«Dove è andato?». Sam lo aiuta a rialzarsi.
«Non lo so».
Ma tornare è il domani, oggi c’è la battaglia che Bucky ha deciso di combattere da solo.
«Se sarai così maldestro domani sarà un disastro» mormora Steve a fior di labbra.
Sam lo guarda non senza una certa preoccupazione. «Come hai detto?» 
«Niente. Andiamo»
«Andiamo dove?».
Ora che è libero dalle catene dell’Hydra, il Soldato di Inverno è ciò che ha scelto di essere. E Captain America non può che continuare ad essere ciò che deve.
«Come hai detto tu, a fermarlo».
 

 
 
 
 

 Note
One-shot come una di quelle sorprese astruse nell’uovo di Pasqua. Che voleva essere più che altro un esercizio di stile per una che non è mai stata grande fan dello slash nel fandom di The Avengers&Co. fino a quando questi due mi hanno fatto rendere conto che non è mai troppo tardi per cominciare :P (sì,The Winter Soldier ha avuto, sta avendo e temo che ancora avrà, pessimi effetti collaterali sulla sottoscritta).  
Il titolo è una citazione (inflazionatissima) del Riccardo III di Shakespeare. I versi iniziali appartengono al brano “I heard someone crying” dal musical The secret garden. 
Curiosità, domande su la vita, l’universo e tutto quanto: ASK
Alla prossima. 

 
   
 
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