Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: hikachu    20/04/2014    4 recensioni
Jotaro giunge a Napoli per far visita a Giorno Giovanna. Post Vento Aureo.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Maggio è appena cominciato e l'aria a Napoli è già opprimente. Fa ripensare Jotaro alle estati umide trascorse tra Tokyo e Morioh.

Cammina per Via Toledo, attento ad evitare i bambini urlanti che rincorrono un pallone da calcio e i turisti che si soffermano davanti a gelaterie e vetrine. Non vi è silenzio qui, dove estranei parlano tra loro come vecchi amici ed una calca di gente del luogo si sofferma davanti ad un gruppo di artisti di strada africani per cantare e ballare assieme. Il ritmo veloce di 'O sole mio suonata ai bonghi è quasi da far impazzire.

Il nuovo quartier generale di Passione è situato all'interno di un vecchio palazzo che – dice a Jotaro il lungo nome scolpito su una placca di marmo – ad un certo punto era appartenuto a qualche nobile famiglia.

Al disopra del portone, una Maria dal viso tondo stringe al petto un Gesù bambino dall'aspetto ancora più soffice; è sporta in avanti, come ad osservare meglio i passanti, o forse sul punto di lasciare la nicchia ovale in cui è stata scolpita.

Nel cortile ricoperto di sampietrini, la costruzione vera e propria è cosparsa di abbellimenti simili—resti di un tempo in cui la bellezza suprema era cristallizzata nell'opulenza stravagante del barocco e del rococò. Qua e là, è facile individuare anche ritocchi neoclassici. In questa città, la storia esiste in strati, tutta ripiegata dentro il presente senza mai svanire.

L'ascensore, un'aggiunta non più vecchia di tre o quattro decadi, è brutto e fuori luogo; un'alta colonna di plastica e metallo che si appoggia al decadente palazzo. È per di più rotto.

Jotaro sospira e si dirige verso la breve rampa di scale, larghe e piatte, fatte di pietra grigio scuro, che conduce all'ingresso. Dopo esser stati calpestati per secoli, i gradini sono diventati rotondi e lisci; sembrano sul punto di sciogliersi in questa calura anomala.

Dentro, invece, le scale sono fatte di lucido marmo bianco, alte e strette, e quando ha passato due dottori, quattro avvocati, un sarto e molte altre persone egualmente abbienti nel suo percorso verso l'ultimo piano, Jotaro si sente come se avesse scalato il doppio della quantità di scale che in realtà ha salito. Non c'è da meravigliarsi, pensa dopo uno sguardo all'alto soffitto, che esibisce gli ultimi resti ammuffiti di un affresco che, senza dubbio, una volta ritraeva una scena di qualche mito greco: è ancora possibile distinguere la gamba pelosa di un satiro e una corona d'edera posta sopra un profilo ben definito.

Ci sono delle piante in vaso ad ambo i lati della porta del quartier generale di Passione: lucide foglie più larghe della mano di un uomo, niente fiori. In un posto così lussuoso, è il genere di cosa che aiuta a rendere un appartamento meno appariscente, affatto diverso dalle porte di tutti i dottori ed avvocati dei piani inferiori. La placca d'ottone sul pannello di legno tirato a lucido riporta un nome del tutto diverso. Una mezza verità più gentile, una menzogna necessaria.

È l'uomo che Jotaro ha conosciuto come Guido Mista tramite le foto ed i racconti di Koichi che apre la porta.

Viene salutato con un rapido cenno della testa e fatto entrare nell'ufficio del boss nel giro di pochi secondi: queste persone sono coscienti di chi sia, forse del motivo della sua visita, e pare che non abbiano intenzione di girarci intorno.

C'è una ragazza nella stanza, seduta alla punta di una scrivania massiccia. Parla e agita le mani con quell'energia soverchiante che è come una seconda natura per quelli del posto. Si fa silenziosa nel momento in cui lui entra e gli getta uno sguardo perplesso, ma i suoi occhi acquisiscono una luce di consapevolezza abbastanza in fretta. Jotaro la riconosce essere Trish Una.
 
Uscendo dalla stanza, Trish afferra il polso di Mista e lo trascina letteralmente – lui, il braccio destro del boss, la sua guardia del corpo, la sua ombra – nel corridoio.

Jotaro ha letto a sufficienza sul passato della ragazza per chiedersi se sia perché sa che discutere di padri assenti è una di quelle cose che fanno emergere lati di una persona che altrimenti non vorrebbe mai mostrare ad altri. (Se fosse da solo, od un altro uomo, il pensiero lo farebbe trasalire per la vergogna.)

Quando la porta si chiude vi è solo silenzio. Il morbido tappeto ingoia il click-click delle sue scarpe e Jotaro nota che tutte le finestre sono coperte da tende spesse, tranne per quella di fronte a lui. Essa occupa circa un terzo della parete.

Oltre il vetro, il cielo, gli alberi, i vecchi tetti, le chiese ed i castelli e il mare brillano luminosi e si fondono ai bordi, come in una foto sfocata.

Davanti al vetro, Giorno Giovanna è una figura delicata con un'aureola di capelli dorati. Ha il volto in penombra, tuttavia i suoi occhi risaltano, sfavillanti. È una cosa familiare e a Jotaro non sfugge, non può sfuggire.

Quando l'unica cosa tra loro è la scura e pesante scrivania di legno, Giorno porge una mano. Ha la presa ferma, gentile appena quanto basta a non far male.

Vi è un elegante vassoio con manici dorati sullo scrittoio. Jotaro abbassa lo sguardo su di esso e si rivede aggrottare le sopracciglia sulla superficie simile ad uno specchio. La macchina del caffè, insolitamente tonda, condivide la stessa caratteristica che urla: nuovi, e costosi.

Un aroma intenso ma piacevole pervade l'aria.

“Il caffè è fresco,” spiega Giorno, indicando il sottile rigagnolo di fumo che si solleva dalla moka. “Sapevamo che sarebbe arrivato.”

Sapevamo. Le parole riecheggiano nella testa di Jotaro e lui ricorda la sensazione di essere stato osservato mentre raggiungeva questo posto. È naturale che l'abbiano saputo, è naturale. Si tratta di Passione. Malavita. Camorra. E per di più, a dare gli ordini è nessun altro che Giorno Giovanna: in svariati modi, il ragazzo si sta rivelando esattamente ciò che Jotaro si aspettava.

Con movimenti precisi ed eleganti, Giorno versa il caffè in quelle che Jotaro può descrivere soltanto come la traduzione in tazze di porcellana dei bicchierini da liquore.

“Zucchero?”

Jotaro scuote il capo. Non ha mai amato particolarmente i dolci, e anche il caffè è più godibile quando forte ed amaro, pensa.

Per un istante, gli occhi di Giorno si assottigliano agli angoli.

“Consiglierei di aggiungere perlomeno un cucchiaino, signor Jotaro. Gli stranieri di solito trovano il nostro caffè, ah, un po' troppo intenso per le loro papille, soprattutto se lasciato così com'è.”

Jotaro agita la mano in un segno di diniego.

“Molto bene, allora.” Giorno annuisce, e con un piccolo sospiro affonda nella poltrona di pelle.

Sembra più piccolo, così, ma in nessun modo fragile. C'è qualcosa nel suo portamento formale che parla di forza, come se la chiave di quella calma assoluta risiedesse nella certezza che è tutto sotto controllo, che non c'è problema che non possa essere risolto. Nessun ostacolo che Giorno Giovanna non possa superare.

Inimicarsi questa persona sarebbe un errore madornale.

“Ho sentito da Koichi che vi è possibile ottenere facilmente la conoscenza di qualsiasi linguaggio grazie ad un vostro alleato. È una fortuna, considerando che, purtroppo, non sono più molto fluente in giapponese.”

Per un momento, prima che che possa impedirsi di farlo, Jotaro si chiede se Jolyne ricordi ancora come scrivere il proprio nome in katakana, come dire salve, piacere di conoscerti, come stai, ma presto si rende conto che con ogni probabilità non è il genere di cosa che una bambina ricorderebbe dopo una singola lezione arrabattata in un pomeriggio piovoso: due o tre ore prima che papà debba saltare su un altro aereo e sparire fino alla prossima settimana, o al prossimo mese. È un lasso di tempo che non basterebbe per nulla.

Jotaro stringe le labbra perché questo non è il momento di rimpiangere e disprezzarsi (e non lo sarà per un bel po', non fino a quando non saprà essere coraggioso).

“Fammi il favore con tutti questi convenevoli,” ghigna leggermente. Non è la stessa espressione che indossava a diciassette anni. Sa bene che non sarà mai più in grado di riprodurre quella precisa espressione. Sono passati troppi anni, sono successe troppe cose. “Sono sicuro che tu sappia perché sono qui.”

Giorno sorride. Il modo in cui parla è educato, al punto di riuscire addirittura un tantino ingessato alle volte, ma non vi è traccia di finzione o arroganza nella sua voce. Sarà anche determinato ed ambizioso, ma comunque onesto. È qui che Jotaro inizia finalmente a notare le differenze—quelle che contano.

“Posso immaginarlo. Di certo, non può essere perché desidera portare il signor Polnareff via con sé: gli abbiamo fornito tutti i mezzi per contattare lei e la Fondazione Speedwagon, per non parlare del fatto che sono certo che l'abbia già sentito da Koichi, che il signor Polnareff desidera restare qui per offrirci il suo supporto.”

Giorno fa un pausa, beve un sorso del suo caffè e fa una smorfia.

“Ah,” guarda la tazzina, esasperato. È una reazione talmente spontanea che, per una volta, la sua età effettiva sembra palese. “Ho dimenticato di aggiungere lo zucchero anche al mio. Sebbene abbia vissuto qui per gran parte della mia vita, non sono ancora abituato al sapore amaro—o forse dovrei dire che sono terribilmente goloso,” confessa con un piccolo sorriso.

Il sorriso pare un po' stanco, ed un po' smarrito: è altro che Giorno sta cercando di dire, ma non ha ancora trovato le parole.

Jotaro attende in silenzio. Non è mai stato nella sua natura, l'essere particolarmente educato, tuttavia è certo che si tratti di qualcosa che dovrebbe ascoltare, perché è questo lo scopo della visita, di più di mezza giornata trascorsa su un aereo con le gambe che gli si intorpidivano perché lui è troppo alto e lo spazio tra le fila di sedili troppo stretto. Perché è stupido ed autoindulgente, ma interrompere Giorno Giovanna in questa stanza e in questo momento sarebbe come voltare le spalle ad occhi grandi che lo pregano di restare, e non può dare la colpa di questa cosa al carisma di un mostro.

Giorno intreccia le dita, le appoggia sullo scrittoio come un uomo d'affari esperto.

“Quando la mia... famiglia si è trasferita in questo paese, ho dovuto dire addio al mio pudding preferito del conbini a due isolati da casa, all'anime che guardavo ogni mercoledì pomeriggio, al libro con i miei primi esercizi sui kanji. Persino al mio stesso nome. Pensavo allora che il mio patrigno mi avesse tolto ogni cosa, ma fu proprio in quel periodo che mia madre mi fece il suo primo ed ultimo regalo. Intendo cioè, una foto del mio vero padre.

“Dopodiché, per qualche tempo, ogniqualvolta mi sentivo triste, la guardavo e mi dicevo che, di sicuro, un giorno lui sarebbe venuto da me, per riportarmi in Giappone o ovunque stesse vivendo ma, naturalmente, si trattava solo della fantasia di un bambino.

“Non ho mai incontrato mio padre: non mi è stata mai data l'opportunità di odiarlo o amarlo, ancor meno di sentirne la mancanza adesso. Non è difficile dedurre per quale motivo lei abbia affrontato un lungo viaggio fino a Napoli. Aveva paura. Che mi sarei rivelato essere esattamente come lui, o che avrei cercato vendetta su di lei, che ha ucciso mio padre.”

“Quello è stato—”

“Necessario.”

Gli occhi di Giorno brillano di qualcosa di misterioso, di una luce dolce-amara. Appare troppo sereno, troppo tranquillo, troppo predisposto al perdono, per qualcuno nella sua situazione. Per un essere umano.

“Il signor Polnareff mi ha raccontato di sua madre. Se qualcuno minacciasse una persona che mi è cara, nemmeno io esiterei.”

Jotaro deve ricordarsi—convincersi di nuovo che la persona di fronte a lui è soltanto un ragazzo, a stento grande abbastanza da non essere più chiamato un bambino. Non dovrebbe aver motivo di farlo, e Giorno Giovanna non dovrebbe aver motivo di agire in questo modo a quindici anni. Tuttavia, è qui che la vita li ha condotti. La vita, ed una storia iniziata secoli fa. Jotaro si morde il labbro.

“Sono conscio che i più criticherebbero i miei metodi,” Giorno prosegue. “Ma è così che funzionano le cose in una città lasciata in balia di se stessa troppo a lungo; è questa la soluzione migliore a cui posso pensare, essendo la persona che sono. E a scapito di ciò, confido che sia ovvio che io non abbia alcuna intenzione di seguire le orme di mio padre.”

Jotaro sente, allo stesso tempo, e con egual certezza, che ciò che Giorno Giovanna ha appena detto è il vero ma anche una menzogna.

Può avvertire la stessa aura, lo stesso carisma, lo stesso incantesimo senza parole che sussurra: fidati di me, seguimi, non dubitare, poiché io solo conosco la via.

“Allora perdoneresti l'assassino di tuo padre?”

Il silenzio che segue è carico di tensione. Jotaro è conscio di essere studiato, giudicato forse, e si prepara, aspettandosi che possa accadere qualsiasi cosa.

Giorno sospira e, in qualche modo, questo basta a rendere l'atmosfera immediatamente meno pesante.

“Non sono certo vi sia alcun che che necessiti il mio perdono, innanzitutto. Io sono stato... più fortunato di mio padre. Ho trovato qualcosa da proteggere oltre a me stesso molto tempo fa. È per questo che, come dicevo, comprendo le sue circostanze.”

Jotaro annuisce. Si domanda se questo ragazzo guardi mai ancora la foto di Dio Brando e sogni ad occhi aperti. Se sia addolorato, a modo suo.

Sa di non avere nessun diritto di chiederlo, quindi non lo farà. Perché non si sente in colpa per aver posto fine alla follia di Dio, ma semplicemente non ne ha diritto, non quando non sa essere un buon padre per la propria bambina.

“Passione offrirà il proprio supporto alla Fondazione Speedwagon, qualora possibile.” Quando i nostri obiettivi coincideranno. Per quanto non venga esplicato a parole, Jotaro lo sente molto chiaramente.

“Puoi aspettarti lo stesso da parte nostra.”

Sembra un transazione d'affari. Il risultato ultimo è forse migliore di quel che ciascuna parte si aspettava, ma qualcosa a riguardo è come stranamente vuoto. Forse addirittura fuori luogo.

Jotaro spinge i palmi contro le cosce, pronto ad alzarsi e ad andare, quando Giorno sorride, con dolcezza, e fa cenno verso le tazzine tra loro.

“Deve ancora provare il nostro caffè. Il mio subordinato si è preso il disturbo di prepararlo al meglio delle sue capacità, lo prometto.”

Di nuovo, Jotaro si ritrova a non poter far altro che annuire. Deve dunque esserci ancora dell'altro: una richiesta di aiuto con un gruppo rivale, o una minaccia velata che deve esser fatta, o forse vi è, dopotutto, un perdono che va guadagnato, e Jotaro deve pagarne il prezzo—

“Il signor Polnareff ha detto che la Fondazione lo ha—ha quel che resta di lui.”

“Il cadavere di Dio Brando è...”

Irriconoscibile. Niente di più che le rimanenze di un corpo che ne ha passate troppe e per troppo tempo. Qualcosa che nemmeno appartiene davvero a tuo padre. Che non rassomiglia nemmeno più una persona.

Ma a Jotaro non riesce di sforzarsi di dire nulla di tutto ciò.

Non importa, realizza. Non in questo frangente.

“Sarebbe un problema... se lo vedessi?”

Giorno ha distolto lo sguardo e la sua voce è bassa, eppure non trema, non esita. Questo ragazzo potrebbe essere forte in modi in cui Dio – o Jotaro stesso – non potrebbe mai nemmeno sperare di essere.

E precisamente perché è quel genere di codardo, Jotaro può solo scrollare le spalle, sollevare la sua tazza e mormorare contro il bordo, “Fa' come ti pare.”

Può sentire il sorriso nel grazie mille di Giorno.

Finalmente, ingolla un sorso di caffè, che adesso è a temperatura ambiente-quasi-freddo, e ben più amaro di qualsiasi miscela istantanea che abbia assaporato in Giappone o in America. Una combinazione letale che gli fa fare una smorfia.

Giorno Giovanna ride, forte e senza restrizioni, come a dire: ti avevo avvertito!, e, per una volta, si tratta proprio di qualcosa che ci si aspetterebbe da un quindicenne.

Jotaro sente il cuore alleggerirsi appena un po' e pensa tre sé e sé che dovrà cambiare i biglietti aerei una volta lasciato questo posto. C'è uno scalo in Florida che deve fare prima di ritornare a Morioh.
   
 
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