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Autore: but honestly    20/04/2014    2 recensioni
«Che cos’è questo posto?» domandò lei, sempre più sinceramente confusa «Dove diavolo mi trovo? E chi diamine sei tu?».
Una sensazione di deja-vu si impadronì ancora della sua mente. Le sembrò di aver già posto domande simili a qualcuno. In un'altra situazione, in un altro momento… molto tempo prima. Troppo per ricordare… No?
Lo sconosciuto si lasciò sfuggire una risatina frenetica. «Donna, Donna, Donna Noble!» cinguettò allegramente, spalancando le braccia «Oh, Donna… Sei esattamente come ricordavo.» quella risata si trasformò presto in un sorriso nostalgico, quasi colpevole, che la sua interlocutrice non riuscì a interpretare «E io sono terribilmente in ritardo.»
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Doctor - 11, Donna Noble
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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5 Luglio 2061
 
Lo sguardo indugiava ancora una volta sulle curve dei caratteri apparsi sul display della consolle, mentre la mano esitante annaspava tra le leve cercando quella giusta per azionare il meccanismo del TARDIS. Una goccia di sudore gli scivolò lungo la schiena, lasciando che un brivido gelido percorresse il suo corpo da cima a fondo.
5 Luglio 2061. Per qualche motivo, si sentì pervaso da un senso di infinita malinconia. Accarezzò dolcemente la colonna luminosa che sosteneva dal centro l’intera struttura della sala, quasi cercando in essa la forza di concludere quel viaggio che si era riproposto di portare a termine da tempo. Ormai era quasi arrivato, ma aveva avvertito il bisogno di riflettere un momento, prima di giungere a destinazione.
Glielo doveva.
E, forse, lo doveva anche a sé stesso.
Bastò una leggera pressione sul pomello rosso di una manopola metallica: la struttura in cui si trovava cominciò a tremar, mentre si smaterializzava gradualmente sospirando con affanno. Quel suono, quel lamento… sembrava quasi un gesto di conforto. Il Dottore sorrise debolmente, ma sembrò spegnersi di nuovo quando il TARDIS atterrò bruscamente, con un tonfo che risuonò per l’intera cabina di comando.
Prese un respiro profondo. Era giunto il momento.
Procedette a passo spedito verso la porta, aggiustandosi il cravattino con naturalezza e arrestandosi soltanto una volta raggiunta l’uscita.
Adesso.
 
 
Pioveva.
Erano le 23.51 del 5 Luglio, in piena estate.
E l’acqua non smetteva di scrosciare lungo le vetrate della sua camera d’ospedale.
«Ma tu guarda se con questo caldo infernale è possibile un tempo del genere!» borbottò Donna, semidistesa sul suo scomodo letto e tenendo tra le mani un bicchiere di latte caldo che un’infermiera le aveva cortesemente offerto, solo dopo la sua quindicesima richiesta “non esattamente indulgente”.
D’altra parte, non aveva nessun altro con cui lamentarsi.
I suoi due figli si erano trasferiti in Europa da qualche mese e si facevano vivi solo per gli auguri di Natale e quando avevano bisogno di una piccola spinta finanziaria.
Suo marito, pover’uomo, l’aveva lasciata una decina d’anni prima per un tumore. Quanto a lei, probabilmente l’avrebbe seguito a breve.
Non ci voleva una laurea in medicina per capire che si avvicinava l’ultima fermata della sua corsa, per quanto il medico continuasse a rassicurare i suoi figli.
 
E lei era rimasta a Londra. Da sola.
 
Sollevò la schiena dal cuscino e scese dalla brandina, avvicinandosi alla finestra su cui si infrangevano ritmicamente le perle d’acqua che piovevano dal cielo. Adagiò quindi lo sguardo sul vetro appannato oltre al quale si scorgeva appena il cortile della struttura, illuminato dalla luce artificiale di qualche lampione. Si abbandonò ad un sorriso nostalgico, quando improvvisamente le sovvenne l’immagine di suo nonno che, di tanto in tanto, si soffermava con lo sguardo concentrato su un dettaglio del cielo stellato, in cui sembrava perdersi, naufrago nei suoi stessi pensieri.
“Che cosa stai guardando?” gli domandava di tanto in tanto, divertita da quel suo comportamento. Lui si voltava verso di lui come trascinato indietro dal suo mondo di fantasia, ricondotto forzatamente alla realtà, e le rivolgeva uno sguardo carico di tristezza. Una sofferenza senza nome, che riusciva a percepire nel fondo dei suoi occhi limpidi, che non poteva spiegarsi e che non richiedeva una risposta. Dischiudeva appena le labbra, sul punto di riferirle sempre qualcosa di importante. Poi qualcosa lo frenava, scuoteva il capo e la congedava con un gesto della mano, tornando a contemplare le stelle con gli occhi lucidi e la mano destra sul cuore.
Chissà a cosa pensava.
Se l’era sempre domandato, ogni singolo giorno.
Si era sempre domandata se  quella sensazione di vuoto incolmabile che si portava dietro da anni fosse stata ereditata da lui, da quel suo sognare ad occhi aperti a proposito di un mondo “fuori dalla finestra”. Forse, la soluzione giaceva in quelle parole mai riferite, in quegli occhi esitanti che aspettavano qualcosa di impossibile.
Ma era passato tanto tempo… forse, ormai, non importava più.
Forse era già troppo tardi per pensarci.
 
Era sul punto di voltarsi e tornare a letto, quando si accorse di un dettaglio, nel giardino, che non aveva notato prima quella sera, né nei giorni precedenti.
Nel bel mezzo del cortile interno dell’ospedale in cui era ricoverata si era fatta strada una luce nuova, più luminosa delle altre; sotto di essa si distingueva nitidamente il profilo netto di una cabina scura. Aguzzando la vista, potè scorgere l’inizio di una scritta nella parte in alto, che riportava qualcosa come “Police Box”.
Una cabina della polizia? Qualcosa di estremamente raro, in una città ormai completamente rimodernata. Un vero pezzo da museo.
Qualcosa che poteva aver visto soltanto lontano, forse in un sogno.
Come era arrivata lì?
Non ebbe tempo di domandarselo,  che una dolorosa fitta alla testa la fece barcollare.
«Ecco, non dormirò neanche stanotte.» si lamentò lei, scuotendo il capo e attribuendo il sintomo ad uno dei nuovi farmaci prescritti per lei dal suo medico curante.
In ogni  caso, quando si voltò un’ultima volta verso il giardino, la cabina era scomparsa, lasciando dietro di sé soltanto un rumore lieve e prolungato, come il cigolio di una finestra scossa dal vento.
«E adesso anche le allucinazioni!» mormorò ancora tra sé e sè, oscillando la mano e voltandosi in direzione del suo letto «Stupido Davidson, mi sta avvelenando con le sue pasticche al sapore di…» stop. Quel che vide troncò sul nascere qualunque parola volesse uscire dalle sue labbra.
Il bicchiere di latte le scivolò dalle mani, infrangendosi a terra con uno schianto.
 
Impossibile.
Era lì, di fronte a lei.
Quella cabina.
 
Ora che poteva vederla da vicino, ne distingueva il colore blu cobalto che spiccava nella penombra della stanza, mentre la luce forte della lampada sulla sua cima ne disegnava i contorni e gli spigoli in maniera ancora più nitida e tangibile di prima.
D’istinto avrebbe urlato, ma la voce le morì sul fondo della gola, lasciando spazio ad un’espressione di muto e sincero stupore.
La porta della cabina si aprì lentamente, accompagnandosi con un lievissimo suono metallico ed illuminando l’intera stanza con una luce calda e dorata, attraverso la quale di muoveva a passi ampi il profilo in controluce di un uomo.
«Donna?»
La voce proveniva da lui.
«Sei tu? Donna Noble?»
Necessitò di qualche istante per capire che quell’individuo sconosciuto sulla porta di una poco rassicurante e assolutamente improbabile cabina blu materializzatasi dal nulla proprio nella sua stanza le si stava rivolgendo utilizzando il suo nome.
«Che vuoi da me? Chi diavolo sei?» sbottò in tono acuto, scandendo ogni singola sillaba.
 
Nessuna risposta. Lo sconosciuto era già scomparso, avvolto e inghiottito al tempo stesso da quei bagliori  generati dall’interno della cabina stessa. Sembrava essere un tutt’uno con essa, come in un miraggio, un sogno assurdo di cui solo loro, Donna e l’estraneo con in suo insolito veicolo, facevano parte. E, come immersa in quella dimensione onirica a sua volta, Donna non potè che abbandonarsi alla visione e trascinarsi verso la cabina, senza trattenere uno stuzzicante senso di curiosità che non provava da anni.
 
Già… l’aveva mai provato prima?
 
«Ah…!» quello che vide le mozzò il fiato ancora una volta. L’interno della cabina era semplicemente immenso. Al centro di essa, su un ponte rialzato, si trovava una consolle di stampo futuristico, quasi fantascientifico, sovrastata da una colonna luminescente che probabilmente rappresentava il centro dei comandi di quella strana struttura. In alto, un’immensa volta a cupola era sostenuta da una serie di archi e costoloni che si facevano strada tra gli intarsi decorativi.
E più i suoi occhi si posavano su questi dettagli, più il dolore nella sua testa si faceva acuto, diventando quel campanello d’allarme che Donna pareva decisa ad ignorare, pur di raggiungere, questa volta, una risposta alla sua domanda. Si portò una mano alla testa ancora una volta, massaggiandosi una tempia e portando gli occhi sul misterioso individuo che le aveva chiesto di seguirlo.
Quell’estraneo non era niente più che un ragazzo sulla ventina: mediamente alto, il viso lungo incorniciato da una folta chioma castana la cui frangia scivolava verso gli occhi lateralmente. Indossava una giacca di tweed chiara – che, pensò, solo il suo bisnonno avrebbe potuto indossare, ai suoi tempi d’oro – una camicia bianca infilata dentro dei pantaloni provvisti di bretelle colorate e, a coronare il tutto, un vivace papillon.
Soltanto per un attimo, sembrò rivolgerle uno sguardo preoccupato, addirittura esitante, ma la sua espressione sembrò cambiare nel momento in cui le porte della cabina si richiusero automaticamente alle spalle dell’ospite.
 
«Che cos’è questo posto?» domandò lei, sempre più sinceramente confusa «Dove diavolo mi trovo? E chi diamine sei tu?».
Una sensazione di deja-vu si impadronì ancora della sua mente. Le sembrò di aver già posto domande simili a qualcuno. In un'altra  situazione, in un altro momento… molto tempo prima. Troppo per ricordare… No?
Lo sconosciuto si lasciò sfuggire una risatina frenetica. «Donna, Donna, Donna Noble!» cinguettò allegramente, spalancando le braccia «Oh, Donna… Sei esattamente come ricordavo.» quella risata si trasformò presto in un sorriso nostalgico, quasi colpevole, che la sua interlocutrice non riuscì a interpretare «E io sono terribilmente in ritardo.»
Lo vide compiere qualche passo in avanti, allontanandosi dal dispositivo di comando di fronte al quale aveva preso la propria posizione. Le rivolse un sorriso comprensivo, completamente in antitesi con l’entusiasmo quasi adolescenziale che aveva mostrato poco prima. Quando le fu dinnanzi, le portò delicatamente le mani salde alle spalle, mentre lei tratteneva a stento l’impulso di sottrarsi alla sua stretta.
«In realtà, la domanda più sensata in questo momento è “chi sei tu”.» sentenziò, quasi solennemente, lasciando spazio ad un breve istante di silenzio prima di voltarsi verso la consolle ancora una volta e percorrendo la pedana d’accesso a ritroso rispetto a prima. «Pazienta, Donna Noble. Sto per mostrartelo.» annunciò, sfregandosi le mani.
Donna inarcò un sopracciglio, sempre più confusa – se non irritata – da quelle parole che le apparivano incomprensibili quanto una parete piena di frasi intraducibili. Affascinante, ma pur sempre priva di significato, per lei.
«Un ospedale nel 2061, eh? Interessante! Ho una storia curiosa a proposito degli ospedali…» continuava a parlare come se non potesse porre fine alle sue parole, gesticolando in maniera esagerata, frenetico, quasi in preda ad un attacco di schizofrenia galoppante. O come se stesse completamente eludendo le informazioni veramente importanti su quello che  stava accadendo, ma non fosse troppo capace a mentirle.
Quel giovane dall’aspetto anacronisticamente bizzarro le era letteralmente piovuto dal cielo e, ai suoi occhi, non aveva niente di meno che l’aspetto di un marziano uscito da un film di fantascienza.
«Ehi, senti un po’, tu, spaceman…» avanzò ad ampie falcate (anche troppo per la sua età) e con gli puntò il dito al petto con decisione «…con chi credi di avere a  che fare? A che gioco stai giocando? Dimmi subito che sta succedendo, o giuro che…» non riuscì a proseguire.
 
Qualcosa la bloccò, quando raggiunse con lo sguardo i suoi occhi di smeraldo.
Per qualche strano motivo, una di quelle parole dovette colpire il giovane come un pugno nello stomaco, perché lo vide indietreggiare di un passo verso la la balaustra che percorreva l’interno della cabina e distogliere lo sguardo da lei.
«Avevo un’amica che…» mormorò, con gli occhi velati di una tristezza innaturale, antica, più di lei o di qualunque altra cosa avesse incontrato durante la sua mediocre vita. Una tristezza che Donna ricollegò subito ad un certo ricordo.
 
“Che cosa stai guardando, nonno?”
 
Trasalì; il suo cuore perse qualche battito.
«Tu…» balbettò, allontanando il dito da lui e abbandonando il braccio al fianco «…conosci Wilfred? Wilfred Mott?».
Non seppe spiegarsi perché aveva posto questa domanda, né perché proprio a lui, tuttavia non parve pentirsi di averlo fatto.
Doveva essere stato quello sguardo. Le parole le erano uscite dalla bocca  di getto, istantaneamente, come se qualcuno gliele avesse tirate fuori di lì con le mani.
Ma forse lui non la stava veramente ascoltando.
Aveva già raggiunto il centro dei comandi, percorrendo per intero la passerella che vi ruotava attorno e la sosteneva.
Osservò la sua figura accarezzare delicatamente i tasti della consolle, mentre volgeva lo sguardo alla colonna verticale che si stagliava imponente su di essa. Si destreggiava sapientemente tra quelle leve e quelle manopole come se non fosse destinato a nient’altro nella sua vita se non essere un tutt’uno con quella cabina. Aveva l’espressione di un bambino felice, con il suo giocattolo preferito tra le mani.
 
Eppure, il suo atteggiamento evasivo nei confronti delle sue richieste le faceva ribollire il sangue nelle vene. Ora che le sembrava di essere così vicina alla risposta che agognava da anni, ne sentiva la necessità come il respiro che la teneva in vita.
«Senti, tu…» fu sul punto di far valere le proprie ragioni, quando un improvviso scossone la costrinse ad ammutolirsi, per sorreggersi saldamente al corrimano in metallo che percorreva l’intera sala. Seguì di nuovo quel cigolio prolungato – che improvvisamente le sembrò estremamente familiare – che terminò con un ultimo tonfo che risuonò per la sala di comando giusto una manciata di secondi.
Finalmente, la terra sotto i suoi piedi smise di tremare.
Sollevò lo sguardo verso l’assurdo personaggio che aveva avuto l’idea di seguire.
«Ci siamo.» disse lui. Il suo sorriso sembrava entusiasta, ma i suoi occhi lasciavano spazio ad una punta di malinconia, che si leggeva nella loro estrema limpidezza.
«Ci siamo dove, esattamente?»
Lui sorrise ancora. Un sorriso quasi dolce, che le strinse il cuore. Perché?
«Donna Noble,» con un gesto elegante della mano, le fece cenno di precederlo alla porta «La donna più importante dell’intero Universo. Un ultimo viaggio insieme, che ne dici? Dopo di te.».
Lei storse appena la bocca, contornata dai solchi che gli anni avevano lasciato sulla sua pelle, e percorse la pedana d’accesso, avvicinandosi nuovamente alla porta dalla quale era entrata.
Quel ragazzo era molto più che bizzarro, certo, ma d’altra parte non l’aveva esplicitamente invitata ad entrare. Ed aveva tutto il diritto di esortarla a fare il contrario. Ma che senso aveva un comportamento simile, allora?
Poco male pensò, congedando ancora la questione almeno potrò sdraiarmi sul letto e prendere  qualche medicina per questo maledetto mal di testa.
 
Tuttavia, al di fuori della porta, non trovò il suo letto ad aspettarla. Né la finestra tormentata dalla pioggia, né il giardino dell’ospedale, né il bicchiere di latte che aveva finito con il rovesciare a  terra e qualcuno, al suo posto, avrebbe pulito.
 
Davanti ai suoi occhi, spalancati dallo stupore, si apriva uno sconfinato deserto di sabbia rossa, dominata da altipiani e canion color ambra, che diventava sempre più scura mano a mano che si avvicinava all’orizzonte. Laddove lo toccava, il rosso si faceva più intenso e brillava sotto la luce di tre soli disposti nel cielo così rischiarato da apparire quasi bianco, evanescente, e dominato da nubi dorate.
Nell’aria aleggiava un lieve odore di zolfo.
 
Una serie di informazioni nuove, eppure familiari, tempestarono i suoi cinque sensi, mentre un’altra fitta lancinante prese il sopravvento su di lei. «Questo è…! É…!» balbettò, senza riuscire a completare la frase.
Le sembrava di restare in bilico tra due verità distinte, tra le quali non riusciva a decidersi.
La sua guida la prese saldamente per le spalle, invitandola così a voltarsi verso destra.
Donna alzò lo sguardo verso un’altura sulla quale si sporgeva un profilo squadrato, blu cobalto.
E la vide.
 
Sé stessa.
 
Era incredibilmente giovane, molto più di quanto riuscisse a ricordare. Stava parlando, ma non riusciva a sentirla da quella distanza. Riusciva soltanto a scrutare la sua espressione: sorrideva, entusiasta, indicando a qualcuno una sporgenza molto più avanti.
Non riusciva a vedere il suo interlocutore.
Cercò di fare un passo avanti, ma l’uomo alle sue spalle la fermò sul ciglio della porta.
«Non uscire. Ho attivato un generatore di distorsioni – e sto consumando parecchia energia per farlo, credimi – e ci sta consentendo di sostare qualche minuto qui senza essere visti. Ma la copertura non va oltre la parete esterna del TARDIS.».
Donna rimase immobile.
TARDIS. Ricordava questo nome.
Era il nome della cabina. Time and relative dimension in space. Una sigla.
Gliel’aveva riferito un uomo, tanti anni prima. Avrebbe tanto voluto ricordare chi.
E fu in quel momento che una seconda figura apparve nel suo campo visivo, al fianco della sé stessa più giovane.
Un uomo. Alto, estremamente magro, i capelli pettinati in avanti e un sorriso pieno d’emozione a illuminargli il viso. La sua lunga giacca marrone veniva scossa da una brezza lieve, mentre sembrava intento a ridere e spiegare qualcosa sul luogo in cui si trovavano.
Passò una manciata di secondi.
 
Poi una fitta lancinante colpì Donna in pieno cranio e la costrinse a piegarsi su sé stessa.
«Ehi, ehi!» il giovane alle sue spalle la afferrò al volo, chiudendo con una mano le porte della cabina e accompagnandola dentro «Stai calma. Va tutto bene.».
La sua voce sembrava improvvisamente insicura, tremante.
Ma Donna non era abbastanza concentrata su di essa per accorgersene. Il suo sguardo era rivolto lontano, verso immagini che scorrevano nella sua mente, come se qualcuno avesse montato su un proiettore il film della sua vita, includendo le scene mancanti.
Gli ood e la loro canzone, i pianeti, i viaggi, il senso smisurato di libertà e curiosità che aveva provato per tanto tempo… tutto improvvisamente scivolava al suo posto.
Tutto riacquistava un senso, perfino il comportamento di suo nonno che per anni non era riuscita a spiegarsi.
Per quanto potesse essere doloroso essere travolta da quel fiume in piena, il suo cuore strepitava di felicità al punto che avrebbe potuto scoppiare. Era tutto reale, lo era sempre stato: aveva semplicemente accantonato tutto in un cassetto in fondo alla sua mente, l’aveva dimenticato.
 
Un viaggio che era durato e valso una vita.
 
Sollevò lo sguardo verso il giovane che ora la teneva stretta, impedendole di cadere a terra, mentre le ripeteva di stare calma, di non avere paura.
Nei suoi occhi terrorizzati riconobbe quelli di un suo vecchio amico e distese le labbra fine in un sorriso pieno e sincero.
Non sentiva neanche più dolore. Solo un infinito senso di tranquillità.
Era passato così tanto tempo…
«Avevi ragione,» mormorò, in un sospiro sollevato «sei davvero in ritardo, spaceman.».
Sollevò una mano ad accarezzargli il viso rigato dalle lacrime, che gli piovevano addosso come acqua dal cielo. La stessa che aveva visto dalla finestra, quella stessa notte.
Tra i due intercorsero pochi secondi in cui si scambiarono un unico sguardo, sostitutivo di molte parole superflue.
C’erano molte, troppe cose che quell’anziana signora avrebbe voluto chiedere al giovanotto che la teneva tra le braccia. Tante domande, tanti dubbi che per anni l’avevano tormentata.
Eppure, tutto sembrava essersi risolto in quell’istante.
Improvvisamente,  era tornata al posto cui sentiva di appartenere.
Era a casa.
«Io…» balbettò lui, cercando nel suo repertorio il più rassicurante dei suoi sorrisi. Voleva semplicemente riferirle di quanto ne aveva sentito il bisogno. Di vederla ancora una volta. Una sola volta, una gli sarebbe bastata.
Forse era stato un pensiero egoistico, in fondo. Non soltanto un regalo ad una vecchia amica. D’altronde, non aveva certo il tempo di spiegargli che sarebbe comunque morta alla mezzanotte di quello stesso giorno.
In ogni caso, lei sembrava già aver capito tutto.
I suoi occhi lasciavano trasparire soltanto un senso di profonda quiete e serenità.
 
Il buio scese delicatamente, come allo spegnersi di una candela.
Donna sembrò addormentarsi, mentre il Dottore tratteneva a stento il proprio dolore.
 
Quando l’infermiera tornò il giorno dopo, non c’era più nessuna cabina, né tantomeno il bicchiere di latte in frantumi. Donna giaceva immobile sul suo letto d’ospedale.
Sul suo volto, l’ombra del suo ultimo sorriso.
 
Buonanotte, earthgirl.

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Tralalà ~ eccoci di nuovo qui nello spaziuccio dedicato al commento!
Onestamente, la seconda parte della fanfiction non mi fa impazzire... ma non sapevo più davvero come scriverla e dopo averla modificata millemila volte ho deciso di scriverla così.
Inizialmente doveva essere molto breve, avevo intenzione di descrivere soltanto un incontro dove Donna intravedeva il Dottore. Poi ho pensato che sarebbe stato un po' triste e non avrebbe reso abbastanza giustizia al loro rapporto.
Non che questa oneshot riesca comunque a farlo, visto che non mi soddisfa affatto QwwQ
Quindi aspetto numerosi commenti per avere qualche consiglio çUç mi spiace di non aver fatto di meglio.
Alla prossima! 


River Song ~
   
 
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