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Autore: Mamey    18/12/2004    2 recensioni
Il Diverso...questo terribile sconosciuto, questa spaventosa chimera...abbiamo perso l'umanità, fratello, ma tu continua a giocare punti... per F...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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carico, liscio, briscola…Umanità

carico, liscio, briscola…Umanità

 

Leggende e fiabe narrano l’inizio della diversità rinchiudendola nella cima della torre della gloria umana, innalzata in onore della salvezza: Babilonia. La città dagli incanti, dei giardini fioriti e degli animali più strani, la città dalle mille parole e dalle mille lingue in cui nacque il concetto di diverso. L’umanità, punita perché osò innalzarsi verso la gloria del suo Dio, fu costretta a rinnegare la sua fratellanza: fratello e sorella iniziarono a parlare lingue diverse, senza avere più la possibilità di capirsi. Era morta, dopo secoli di storia umana, l’Ugualianza.

 

   Il libro giaceva aperto sul banco con l’enorme ombra della torre di Babele in primo piano sulla pagina stropicciata e sbiadita, mentre il freddo gelo di metà inverno scuoteva le figure accucciate sulle sedie; le parole lette dalla professoressa annoiata si trascinavano verso i ragazzi perennemente distratti e per nulla interessati alla lezione, mentre lo scrosciare della pioggia sui vetri si faceva man mano più intenso. Era giunto l’inverno, a questo pensava il ragazzo al secondo banco, grattandosi la nuca scura e sbadigliando, un nuovo, freddo e monotono inverno. Natale alle porte, i regali già chiusi nei loro pacchi colorati fra fruscii di nastri e stridere di forbici…un altro Natale, con nuovi regali, nuove cene famigliari… non esisteva proprio niente, adatto a rompere quel circolo vizioso di noia e stanchezza? Niente che riuscisse ad oltrepassare la monotonia… avrebbe mai trovato qualche cosa di interessante, in quella già triste giornata invernale?

   La campanella trillò, cogliendo tutti di sorpresa e costringendo la massa di studenti sonnecchianti  ad abbandonare il torpore. Intervallo, pausa merenda o qualunque altro nome… non sarebbe stata altro che ora d’aria: fuori, anche se per pochi minuti, da quel carcere chiamato “istruzione giovanile” o, per meglio dire, “scuola”. Prese la sedia con un movimento ormai istintivo, la portò verso i quattro banchi già riuniti nel centro dell’aula ed estrasse le carte dalla tasca della cartella: ora-della-briscola, si poteva benissimo ribattezzare l’ora d’aria.

   Incessantemente l’ombra dell’istituto si rifletteva nei corridoi privi di calore, con finte pareti colorate a festa a nascondere le crepe nel muro, ed una cupa atmosfera di sottomissione vagava per le aule, solleticando il viso agli studenti assonnati. Era il suo mondo, tutto lì: casa, scuola, oratorio, campo da calcio, casa, scuola, oratorio, campo da calcio, casa, scuola… e così all’infinito, fino a quando si sarebbe ritrovato sbalzato nell’età adulta…casa, lavoro, cene da amici, campo da calcio, casa, lavoro, cene da amici, campo da calcio, casa… chissà se un giorno si sarebbe mai svegliato con in testa un’idea diversa: fare qualcosa della sua vita. Forse la catena si sarebbe rotta, cadendo in terra e distribuendo i suoi argentei pezzi per tutta la stanza, provocando un tintinnare giocoso ed allegro…o magari sarebbe stata dimenticata subito, accantonata in qualche scatolone e poi, etichettata come roba inutile, buttata via. Ma che importanza aveva, infondo, visto che quella mattina non sarebbe mai arrivata, quell’idea nuova non sarebbe mai nata?

    Si trascinò lungo i minuti di respiro, fra un carico ed un liscio, urla di vittoria troppo grandi per una semplice partitella tra ragazzini e misere sconfitte cariche di vergogna. Come era semplice…lasciarsi prendere da quel gioco, senza obbligare la mente a guardare altrove, allenandosi nei piccoli inganni per poter vincere, quei trucchi innocui e quasi ridicoli per donare punti al compagno di squadra…se fosse stato tutto così facile… hai carico, bene, buttalo io ho  briscola…no, vai liscio, non rischiare…. Il mondo era chiuso in una semplice carta, quell’asso nero su cui era appoggiato il mazzetto. L’altero Asso di picche, Padrone e Signore indiscusso della partita. Un inchino a sua maestà, che non concede nessuna responsabilità al giocatore! Se sbaglio, posso riprovare, poco importa se ho sacrificato il Due nero, ora che ho suo fratello più grande Mastro Sette.

   È il turbinio di carte riordinate alla svelta che decide la fine del gioco, che decreta l’arrivo dell’insegnante imbacuccata in una pelliccia di finto pelo, con un finto sorriso dipinto sul volto ed una finta allegria ad incresparle le labbra. Lei li odia tutti, quei ragazzi con facce da schiaffi, in piedi solo per prenderla in giro. Come ci se ne accorge? Basta vedere il suo volto, quando guarda loro e quando guarda i suoi adorati miti del passato, perfetti nei loro scritti ritoccati perché sembrassero tali, ma feccia della peggior specie nel loro tempo, ladri usciti di prigione che con le loro parole hanno avvelenato il vento. Dispensatori di sospiri per amanti, di lamentele per insegnanti severi, di martiri inutili ed ingiustificati in nome di idee costruite su castelli di carte…su nuvole del colore dello zucchero filato ed altrettanto appiccicose. Istruzione…miraggio ed inganno per chi mai l’ha trovata ed è sicuro di essere tra quei cercatori così poveri di idee, ma così pieni di speranze.

   Ma ecco la nota di disturbo, l’errore peccaminoso uscito da chissà quale inferno, entrare in classe: Lui, il diverso, l’emarginato. Colui che va temuto. La professoressa lo rimbecca, la campanella è suonata da ben due minuti e mezzo, non importa se per andare ai servizi ha dovuto attraversare mezzo istituto e sgomitare per farsi spazio tra la calca di ragazzi che affolla la scuola: bisogna imparare ad arrangiarsi. Ma Lui è indifferente a questi discorsi, perso in chissà quali pensieri strani, avvolto in un mondo tutto suo, dalle tinte certamente rosso sangue o nero tenebra, ed alza le spalle, fa un sorriso assente e si siede al suo posto. È il suo compagno di banco. Ne brutto ne bello, capelli neri perennemente in disordine, aria sempre assente, strano modo di pronunciare la S…è il suo compagno di banco e ne sa a malapena il nome. È Lui che terrorizza tutti con quelle sue occhiate sbieche che sembrano accusarti, con i suoi movimenti meccanici, come se fosse un robot programmato per eseguire compiti indicibili di chissà quale portata, Lui che fa paura perché pensa in modo strano, perché si blocca ad osservare le nuvole oltre la finestra, sospirando con un sorriso ebete, perché parla in modo buffo, ma con voce metallica, perché…perché fa paura e basta. Non c’è spiegazione alla paura, c’è solo l’irrazionale timore di Lui e l’obbligo di stargli lontano. Semplice come giocare briscola quando il tuo compagno ha in mano carico. Ma ecco che, come è solito divertirsi il burlone destino, la matita rotola sul banco e cade a terra, tintinnando.

   Non è sua, la mano che ora la raccoglie e gliela porge e non sono i suoi gli occhi che si sono staccati dal paesaggio oltre la finestra, per guidare la mano nel movimento. Non è neanche suo, il sorriso che increspa quelle labbra così scure. È quello di Lui. “Tieni”.

   Che potere hanno le parole? Una domanda che ci si pone spesso, tuttavia senza una risposta precisa. Ma ora che si ritrovava a fissare per la prima volta quel Diverso… la sua mano poteva benissimo essere scambiata per quella di un altro ragazzo qualunque, le sue labbra erano come quelle di tanti altri ed i suoi occhi erano come i suoi: casa, scuola, oratorio, campo da calcio, casa…  che c’era di così tanto diverso e temibile in lui? Niente, solo scemenze messe in giro per chissà quale motivo, impressioni sbagliate su di un ragazzo che forse aveva solo bisogno di affetto. Come ne aveva lui. Un ragazzo uguale a tutti gli altri, che voleva soltanto giocare punto ogni tanto, al posto dei solito carico e liscio.

 

Grazie”

  

   La pioggia continuava a scorrere ininterrottamente, scaricando la sua rabbia sui vetri della classe, e la torre di Babele persisteva nel troneggiare sulla pagina del libro. Guardandola il ragazzo del secondo banco dalla capigliatura scura si sorprese a ridacchiare: aveva perso la mano e lasciato in mano agli avversari l’Asso, eppure il libro era sempre lì, la professoressa dagli occhi falsamente buoni continuava a leggere senza interesse ed i ragazzi persistevano nel non ascoltare. Cosa era cambiato, rispetto all’ora precedente? Ora c’era un Diverso di meno, in quella classe, un Diverso che in realtà non c’era mai stato. Ma era anche vero che questo non cambiava le cose e mai le avrebbe cambiate: le giornate persistevano nell’essere monotone, le vita nel non aver significato; ora c’era solo la consapevolezza che così era per tutti e non solo per un unico ragazzo.

   Fu la campana che decretò la fine dei pensieri, come quella delle lezioni, con un trillo esasperato, indifferente a tutto ciò che succedeva sotto di lei. L’ultima frase del capitolo si perse negli sbadigli, nei frusciare dei quaderni sistemati in tutta fretta e nelle urla finalmente libere degli studenti:

 

Ma nonostante gli uomini abbiano smesso di comprendersi a vicenda, fuggendo ad abitare in paesi distanti e lontani, nonostante si accaniscano gli uni contro gli altri e si facciano battaglia, vendicando territori chiamati Patrie e Nazioni, non hanno mai dimenticato la loro origine comune, la loro unica e vera condizione:

 

l’essere ugualmente  figli di quel  popolo chiamato Umanità.

  
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