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Autore: Ivola    21/04/2014    5 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Buona Pasquetta♥ Avete mangiato le uova? Io sì, e credo di stare per esplodere.
Per una volta aggiorno dopo… *fa il conto* 19 giorni, anziché un mese. Mi sono impegnata, sul serio.
Bando alle ciance. Prima di cominciare a spiegare delle cose, devo assolutamente ringraziare le persone che hanno recensito lo scorso capitolo: ehykaya, _cashmere, LysL_97, Joyd14th e Giuly_D4. Grazie, davvero, mi avete fatta felicissima♥
Ecco, passato questo capitolo – che segna l’inizio della terza parte di Blur, a cui tengo molto, sinceramente – gli altri mi verranno sicuramente più facili, anche perché non vedo l’ora di entrare nella parte più angst. Senza contare che, dopo maggio, sarò libera di fare quello che cavolo mi pare, sperando solo di non prendere il debito in chimica. Temo che per settembre/ottobre Blur sarà finita, e io non voglio çwç Cioè, sì che lo voglio, ma ancora mi chiedo cosa farò dopo nella mia carriera di efp writer. Qualcuno già sa che mi piacerebbe da morire trasformare questa storia in un romanzo, ovviamente adattando i personaggi ad un contesto diverso, perché ci ho lavorato così tanto che vorrei far conoscere le vicende di questi tre pampini anche ad altre persone. Ma ci vorrà del tempo, quindi non cancellerò questa storia.
Un’altra cosa che mi sta a cuore chiarire è questa: può sembrare che con l’andare avanti di Blur le vicende si stiano sempre più staccando dalla sezione di Hunger Games, ma come ben sapete non posso spostarla nelle originali. Badate che, poi, tra qualche capitolo il contesto della Collins mi tornerà più utile che mai, quindi se cercavate qualcosa di più inerente alla saga, non demordete ancora :')
Come vedrete, in questo capitolo c’è una new entry a cui sono affezionatissima, Käthe. Presto scoprirete chi è, sono curiosa di conoscere le vostre opinioni su di lei uwu Inoltre, avrete qualche delucidazione su Frantz Wreisht, giusto per farvi un po’ capire il motivo sul suo carattere così violento.
Poi… oh, non potete sapere quante litigate col tedesco mi sia fatta xD Ho dovuto chiedere a mari e monti la traduzione di alcune frasi che troverete sotto, e tuttora non sono soddisfatta. Io lo studio, ma da poco, ecco perché mi sono dovuta affidare ad altri.
Ultima cosa ma non per importanza, prima che queste note diventino interminabili: la famosa questione degli hovercraft e dell’Europa. Come avrete capito, Klaus, London e Klaudia hanno tentato una fuga azzardatissima che, se solo fosse scoperta, costerebbe loro molto caro, perché naturalmente è vietato uscire da Panem senza permesso. Tuttavia, non credo che l'America non abbia più contatti con l'Europa, ecco perché secondo me ci sono hovercraft addetti anche ai viaggi intercontinentali. Loro si sono infilati in uno di questi e sono scappati, atterrando in una delle quattro nazioni in cui (nel mio immaginario) si è divisa l'Europa dopo una terza e una quarta Guerra Mondiale: Capo Nord, Aspasia, Anthea e Valhalla. QUI vi metto una cartina approssimativa che ho creato, per farvi capire meglio (Capo Nord è lo stato giallo, Aspasia quello rosa, Anthea quello rosso e Valhalla - dove sono capitati Klaus e London, per intenderci - quello violetto. I territori azzurri sono stati sommersi, mentre quelli verdi credo siano deserti o controllati da qualche altro paese.) Le lingue, come l'inglese a Panem, sono rimaste più o meno invariate a seconda delle zone. Ecco perché sopra ho nominato il tedesco, ed ecco perché Ben sa parlare l'ungherese. L'Europa, sempre secondo licenza poetica, è molto più tollerante di Panem e le varie nazioni sono sempre divise secondo cittadine e province, non Distretti come a Panem. Il sistema politico è sempre una specie di dittatura per ogni stato, ma mascherata, e tutti gli stati europei sono alleati tra di loro, un po' come un'Unione Europea futuristica. Spero davvero che non sia tutto campato in aria, perché ho cercato di essere il più realistica possibile, sempre in riferimento al contesto della Collins, perché naturalmente lei non ha mai spiegato come è nata Panem.
Finalmente ho finito, vi lascio al capitolo, sperando vi piaccia.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da ben due canzoni. Una è l'omonima "Valhalla" dei 30 Seconds to Mars, l'altra è "Immigrant song" dei Led Zeppelin. Inoltre, come spiegavo sopra, una nazione dell'Europa post-apocalittica si chiama proprio così, perché il cosiddetto Valhalla è una specie di paradiso per i guerrieri morti in battaglia, nella mitologia nordica. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 





 















Blur

(Tied to a Railroad)






020. Twentieth Chapter – Valhalla.




« Chiudi a chiave. »
London non esitò a fare quanto richiesto, abbandonandosi ad un sospiro di sollievo, o forse di rassegnazione. Senza nemmeno che Klaus glielo dicesse, girò la chiave nella serratura almeno tre volte e solo dopo aver constatato che la porta era ben chiusa si voltò a guardare la stanza. Klaus gettò il borsone stracolmo sull’unico letto appoggiato alla parete, per poi sedervisi con un sospiro altrettanto liberatorio.
Klaudia trotterellava avanti e indietro per la camera, toccando con le sue manine di bimba tutto ciò che riusciva a vedere.
Era mezzanotte inoltrata e dalla strada non proveniva alcun suono.

« A quanto pare » fece Klaus, « qui vanno tutti a dormire presto. »
London lo guardò in tralice, incapace di riuscire a pensare a qualcosa che non fosse “ce l’abbiamo fatta”. « Credo sia ora che anche noi ci mettiamo a dormire » disse, aprendo la cerniera del borsone e cominciando a cercare i loro pigiami. « Domani avremo tantissime cose da fare… dobbiamo cambiare i documenti, parlare con il sindaco, trovare qualcosa di simile ad un lavoro- »
« London » la bloccò il marito, sfiorandole una mano per tentare di rassicurarla, « ci pensiamo domani. Adesso rilassati. »
Lei si girò di poco, parlando più a se stessa che a Klaus. « Ci sto provando, davvero. Solo che… »
L’altro la osservò, in attesa.
« … niente, lascia stare » fece infine, passandosi una mano sul viso stanco. « Sono distrutta. » Klaus annuì e la aiutò a sistemare le cose che stava cacciando dal borsone.
Trascorsero circa un’oretta nel silenzio più totale e soltanto dopo aver messo a posto i beni essenziali si lasciarono andare ad un sonno lungo e senza sogni.

 
*


« Non c’è male come prima settimana qui » disse Klaus, aggiustandosi gli occhiali da sole sul naso. « Valhalla è un bel posto, c’è bel tempo, la gente non vuole ucciderci, il sindaco ci ha accolti in questa ridente cittadina… »
« Possibile che devo essere io a ricordarti che non è ancora detta l’ultima parola? » sbuffò London, strattonando un po’ la mano di Klaudia perché la bambina si stava incantando davanti a un negozio di dolci. « Eppure dovresti essere tu quello prudente, dopo gli Hunger Games. »
Klaus la guardò dietro le lenti scure, alzando un sopracciglio. « Per una volta sono ottimista. Per la prima volta in vita mia. Ti dispiace? »
La moglie continuò a camminare, trascinandosi dietro la figlia che si era imbronciata per non essere riuscita ad ottenere ciò che voleva. « Nella mia testa sono ancora a Panem » sospirò la ragazza. « Tu conosci persino la loro lingua, io sono un pesce fuor d’acqua. »
« Devi ringraziare mia madre, che a volte da bambino mi parlava in tedesco » spiegò l’altro. « E comunque qui molti lo parlano, l’inglese. »
« Non so se hai notato con che occhi ci guardano » precisò London. « Ci disprezzano. Siamo forestieri. »
« Ma almeno non siamo visti come potenziali nemici » ribatté Klaus.
« E chi te l’ha detto? » chiese lei, fermandosi.
« Senti, London » sbuffò il marito, « sei stata tu a voler andartene da Panem. Adesso non ti creare problemi da sola, sei fin troppo paranoica. Per una volta ammetto che avevi ragione, che qui la pensano diversamente, che in Europa si sta bene e sembra sicura. »
London si ammutolì e si morse le labbra.
« Andiamo » le disse, prendendole una mano ed esortandola a camminare di nuovo verso l’albergo dove erano momentaneamente alloggiati. La moglie non disse più niente e si limitò a portare un piede davanti all’altro, non del tutto convinta dalle parole di Klaus. Non era colpa sua, del resto, se era diventata così sospettosa.
Dopo qualche minuto raggiunsero una piccola piazza con il pavimento di pietra, al centro del quale si stanziava un’imponente fontana di marmo bianco. Accanto ad essa si poteva osservare quella che aveva l’aria di essere una statua commemorativa, rappresentante un uomo della media borghesia, con tanto di cappello a cilindro e frac elegante. Non c’erano moltissime persone lì, dal momento che era ora di pranzo, eccetto qualche vecchietto seduto sulle panchine vicino alla fontana, una comitiva di ragazzi seduti a dei tavolini e un paio di bambini che facevano una gara di corsa.
Klaudia, a quella visione, si staccò dalla madre e cominciò a correre a sua volta, spensierata, facendo volare via al suo passaggio tutti i piccioni che le capitavano a tiro.

« Klaudia! » esclamò London, decisa ad andarle dietro, ma Klaus la trattenne.
« Avanti, lasciala divertire un po’ » disse, mentre la bambina aveva cominciato a ridere e seguiva quei due ragazzini, senza mai raggiungerli perché quelli erano molto più veloci di lei.
London lo fissò con sguardo sconcertato, ma dopo qualche istante provò a rilassarsi: non c’erano pericoli, doveva stare tranquilla.
« Andiamoci a sedere lì, almeno la tengo d’occhio » mormorò, vinta, indicando una panchina poco lontana. « Però tra dieci minuti andiamo via. »
« D’accordo » assentì Klaus, alzando gli occhi al cielo. Si sedettero con la fontana alle spalle, beandosi per un secondo di quell’istante di pace. Le risate dei bambini, lo scrosciare dell’acqua, i piccioni che svolazzavano sulla piazza… sembrava tutto perfetto, un momento da cornice.
« Credi che potremmo davvero vivere una vita normale, qui? » domandò London improvvisamente, senza sciogliere la stretta di Klaus tra le loro mani.   
Il ragazzo la guardò per un secondo, poi tornò a posare lo sguardo su Klaudia che correva, facendo tuttavia un sorriso obliquo. 
« Solo se tu lo vuoi, mia Londie. »
Lei sorrise a sua volta. Le sembrava di non averlo fatto per secoli.
 
Klaus si alzò solo dopo un quarto d’ora abbondante e non per andarsene. 
« Aspetta qui » le disse. « Torno subito. »
London rimase un attimo spaesata e lo vide avventurarsi in una via che non avevano mai attraversato prima. Irrigidì la schiena e tornò a guardare Klaudia che giocava con quei due bambini, non avendo la minima idea di come stesse comunicando con loro.
London constatò da sé che senza Klaus la sua inquietudine era ritornata a livelli molto alti. Prese ad osservarsi intorno, soffermandosi appena su una ragazza che le si era casualmente avvicinata. Ragazza che la fissò per qualche secondo senza dire nulla.
Che cosa vuole?, si chiese, quasi entrando in panico. Quella, però, la sorpassò senza badare minimamente al suo stato d’ansia, continuando a fumare la sua sigaretta e camminando oltre in direzione della statua commemorativa. Il cuore di London si rilassò appena, prima che, stavolta, si avvicinassero i due bambini che stavano giocando con Klaudia, seguiti proprio dalla figlia.

« Ist sie taub?1 » domandò quello che sembrava il maggiore, giocando con uno yo-yo colorato. Lei si attirò la borsetta al petto, involontariamente, e lo fissò senza capire.
Il bambino più piccolo ridacchiò. 
« Sie ist nicht von hier, Rodrich!2 »
« Ist dieses taubes Mädchen deine Tochter?3 » riprovò l’altro. London stava per alzarsi, prendere in braccio Klaudia e andarsene, ma prima che potesse davvero farlo la ragazza di prima si aggiunse alla conversazione.
« Ti sta chiedendo se questa bambina è sorda e se è tua figlia » disse quella, con un pesante accento tedesco, rilasciando uno sbuffo di fumo. « Non sei di queste parti, vero? »
London si alzò quasi di scatto. « N-no » mormorò. « Puoi dire a questi bambini che ce ne stiamo andando e che dovrebbero imparare a farsi i fatti loro? »
L’altra ridacchiò. « Come vuoi » rispose, poi si voltò verso i due bambini. « Spielt weiter, ich werde es machen.4 » Entrambi fecero spallucce e tornarono ai loro giochi senza più degnarle d’attenzione.
« E così sei di Panem… » fece la nuova arrivata, aggiustandosi il ciondolo della catenina che portava al collo. « Non si vedono molti panemiani in giro. »
London non le rispose. « Adesso devo andare » disse semplicemente, stringendo la mano di Klaudia, che si lamentò perché voleva di sicuro continuare a giocare. « E’ stato un piacere » aggiunse con una punta di saccenza.
La ragazza dai capelli castani ridacchiò, ormai intenzionata a invadere gli spazi di London. 
« Io ho dei parenti, a Panem » continuò, imperterrita, prendendo a camminare accanto a lei senza chiedere il suo consenso.
« Interessante » ribatté l’albina. Non sapeva se quella fosse una bugia o meno, ma in ogni caso non aveva intenzione di ascoltare le chiacchiere di quella che aveva tutta l’aria di essere una prostituta. Gonna corta, tacchi che la facevano apparire più alta di quanto già non fosse, scollatura generosa – per quanto le sue curve fossero poco accentuate, forse per motivi di costituzione –, rossetto cremisi…
« Sono gli stessi parenti che hanno fondato questa piazza » specificò la mora, indicandole la statua onoraria. « Quello sarebbe un mio pro-prozio, era un magnate della zona e si atteggiava a paladino della- »
« Sì, sì, d’accordo » la bloccò London, seriamente infastidita, « ora mi lasci in pace? »
L’altra incrociò le braccia e alzò gli occhi al cielo. « Va bene, fare amicizia con gli stranieri non è il mio forte, ma almeno apprezza il mio tentativo! »
« Fare amicizia al momento non rientra nelle mie priorità » replicò. « Se vuoi scusarmi… » London affrettò il passo, lasciandosi alle spalle quella tedesca impertinente. E io che credevo che qui fossero tutti freddi e sulle proprie povera illusa, si disse, scuotendo la testa. Prima di lasciare la piazza, però, si trovò a passare accanto alla statua commemorativa e ripensò alle parole di quella ragazza.
Ha dei parenti a Panem, rifletté, ed è tedesca.
Ignorò ancora le lamentele di Klaudia e si avvicinò alla targa che decorava il piedistallo dell’uomo di marmo. “Dem Rosenplatzgründer gewitmet5” c’era scritto. London non aveva idea di che cosa potesse significare, ma, invece, sbiancò di botto nel leggere il nome di quell’uomo. A caratteri cubitali, sulla targa era vergato in bella grafia: “Albert Wreisht”.
Quando si voltò a cercare la ragazza mora con lo sguardo, si accorse con rabbia che quella era già andata via.

 

*
 
 
Klaus si domandò per tutto il giorno perché London non avesse apprezzato i fiori che le aveva regalato. Aveva rischiato di perdersi almeno una decina di volte solo per trovare un fioraio aperto all’ora di pranzo e lei, dopo aver guardato distrattamente il mazzo, non l’aveva più calcolato. Sembrava ancora più tesa di quella mattina, il che, da un lato, lo preoccupava. Non l’aveva mai vista così agitata.

« Cosa c’è ancora che non va? » le chiese, puntiglioso, mentre lei continuava a girare per la stanza sistemando tutto ciò che, tuttavia, era stato già sistemato.
« Niente! » esclamò London fin troppo repentinamente. Klaus la stava fissando con occhi incapacitati. « Niente » ripeté lei. « Va tutto a meraviglia. »
« Oh, meno male » fece il marito con sarcasmo. Davvero non riusciva a capire quale fosse il problema. « Avanti, non prendermi per il culo, cos’è successo? »
London lasciò perdere l’armadio che stava ordinando e con un sospiro grave si lasciò cadere sul letto. « Non ci crederai mai. »
« Se magari ti decidessi a parlarmi… »
Lei ignorò la sua ultima considerazione. « Quando te ne sei andato, stamattina, ho conosciuto una ragazza. Mi si è avvicinata con una scusa e ha cominciato a parlarmi, farmi domande, raccontarmi un po’ di storia della sua vita, insomma, a importunarmi… senza che io le avessi chiesto niente, poi! »
« Non vedo dove sia il problema » replicò Klaus, che intanto si era avvicinato alla brandina di Klaudia per aggiustarle le coperte mezze cadute sul pavimento. Le lanciò una breve occhiata addolcita e poi tornò a rivolgersi alla moglie. « Se l’hai seminata dopo un po’, non capisco perché ti preoccupi tanto. »
« Fammi finire » protestò la ragazza, « la parte clou non è ancora arrivata. »
« La parte clou»
« Sì » sbuffò London, « perché mi ha parlato soprattutto della sua famiglia. Alcuni dei suoi parenti sono a Panem. Mi ha detto che quello raffigurato nella statua onoraria era un suo pro-prozio e che era il fondatore della piazza. Fin qui, beh, tanti auguri, soltanto che… dopo averla sorpassata sono capitata proprio vicino alla statua e… »
« E? » la incitò a continuare Klaus, ora seriamente attento. Una ragazza tedesca con dei parenti a Panem.
« Ho scoperto che questo tizio si chiamava Albert » continuò. « Albert Wreisht»
Il ragazzo spalancò gli occhi scuri, colto quasi del tutto di sorpresa. All’inizio credette di non aver capito bene. « Mi stai dicendo che hai trovato una mia parente? E’ assurdo! »
« Lo è » confermò London, mordendosi le labbra.
« E perché non me l’hai detto subito? » esclamò Klaus con tono arrabbiato. « Cosa stavi aspettando, la menopausa? »
La moglie fece una smorfia offesa e incrociò le braccia. « Non sono sicura che stesse dicendo la verità… e se fosse una spia di Capitol City? »
L’altro recuperò la giacca e le lanciò uno sguardo di rimprovero. « London, ma per favore. » Si avviò verso la porta della stanza. « Rosenplatz, giusto? »
« Dove vai? » chiese lei, turbata.
« Vado a cercarla » rispose Klaus. « Forse, per una volta, potrò conoscere la verità sulla mia stupida e inutile famiglia. »
 

*
 

London aveva insistito tanto per uscire a cercare quella ragazza con lui. Klaus le aveva risposto male più di una volta, ma alla fine si era lasciato convincere, soltanto perché sapeva quanto lei avesse timore di rimanere da sola. Avevano svegliato Klaudia di soprassalto dal momento che non potevano lasciarla lì in albergo, ma lei dopo un po’ era crollata di nuovo e adesso London era costretta a portarla in braccio per tutto il tragitto.
Erano circa le undici di sera, ma la Piazza delle Rose era più frequentata che di giorno. La ragazza si accostò di più a Klaus e insieme si incamminarono verso un bar vicino, addentrandosi in quella folla di ragazzi e uomini.

« Dovrebbe essere uscita di qui » disse London, che ricordava vagamente di aver visto quella ragazza venire da quella direzione. Il bar era molto grande, dall’esterno sembrava persino avere un secondo piano con un’altra sala. Quel posto era pieno di voci, schiamazzi, risate e musica, ma loro non erano andati lì per divertirsi.
« Allora entriamo » assentì Klaus, varcando per primo la soglia del locale.
All’interno li investì d’improvviso un acre odore di birra e alcool; London si affrettò a sedersi ad uno dei tavoli più vicini, mentre il marito si avvicinò ad un cameriere per chiedergli se conoscesse la ragazza che stavano cercando, descrivendola brevemente.
Dopo qualche istante si andò a sedere accanto a moglie e figlia.

« Che ha detto? » domandò London, stringendosi Klaudia al petto.
« Pare che questa sia la nostra giornata fortunata » rispose Klaus, guardandosi in giro con circospezione, « se è la stessa persona, allora lavora qui. »
« E dov’è ora? »
« Ha detto che adesso va a chiamarla. »
La moglie si guardò intorno a sua volta, concentrandosi sui clienti che entravano e uscivano dal bar. Sembravano persone normalissime, in ogni caso. Eppure aveva paura di loro, per qualche strano motivo. Riconoscere di non sapere la loro lingua, essere in territorio straniero, non avere punti di riferimento… la stava uccidendo. Era passata soltanto una settimana e già le mancava tutto di casa sua. Tutto e tutti.
Erano giorni che si chiedeva cosa stesse facendo Ben, come l’avesse presa per la loro partenza improvvisa, se avesse capito.
Certo che ha capito, si ripeteva. E il mio gemello, mi capisce sempre al volo.
Nonostante ciò, senza di lui, si sentiva una persona completamente diversa, come se una parte di sé le fosse stata portata via in modo brusco e doloroso e che fosse rimasta nel passato, in un altro mondo, in un’altra vita.
Dopo qualche minuto la ragazza di quella mattina si presentò al loro tavolo. 
« Hallo! Was kann ich euch zu trinken bringen?6 »
Klaus la squadrò per un tempo quasi interminabile. « Ti dobbiamo parlare » disse, in modo che anche London capisse.
« L’avevo immaginato » sorrise quella, spostando una sedia e accomodandosi accanto a loro, con le gambe accavallate. Appoggiò il mento a una mano e prese a fissarli senza dire niente, come se stesse aspettando le loro domande e come se avesse già preparato le risposte. Sembrava essere già al corrente di tutto quello che volevano chiederle.
« Prima di tutto » cominciò Klaus, a disagio, « qual è il tuo nome? »
« Käthe Wreisht, tanto piacere » rispose, porgendogli la mano, che lui non strinse. « Sorpreso, Klaus? »
« Tu sai chi sono, ma io non so chi sei tu » constatò il ragazzo, allibito. « Vuoi illuminarmi? »
« Se proprio insisti… » sbuffò la mora, alzando gli occhi al cielo. « A quanto pare sei disinformato del tutto, devo partire da lontano. » Fece una breve pausa. « Sai chi era Leonore Wagner? »
« Mai sentita » rispose Klaus, facendosi tutt’orecchi.
« Bene » ribatté Käthe, « Leonore Wagner era mia madre. E sai come l’avevano soprannominata, da queste parti? Puttana. E’ un bel titolo, non trovi? Eppure glielo diedero per un motivo che trovo alquanto stupido… Era innamorata di un certo Frantz Wreisht, se non ricordo male. »
Klaus impallidì e non seppe cosa replicare, cominciando a collegare i puntini nella sua testa.
« E lui lo era di lei, oh sì » continuò la ragazza. « Proprio una bella coppia. Ma lei era una poveraccia e Frantz era già promesso a un’altra donna, che tra parentesi era sua cugina di primo grado. Lo scandalo fu, tuttavia, inevitabile. Leonore restò incinta e, per riparare al danno, Ludvig e Monika Wreisht, i genitori di Frantz, affrettarono il matrimonio e fecero partire i novelli sposi per Panem, dove non avrebbero avuto complicazioni e dove la diffamazione per un tale scandalo non li avrebbe raggiunti. Ludvig aveva molte conoscenze, quindi la giovane coppia non ebbe problemi ad attraversare l’Atlantico. Leonore ebbe tutt’altra sorte. A pochi giorni dal parto, non appena venne a sapere della partenza del suo amato, si suicidò per disperazione, gettandosi da un ponte. » Käthe si godette le loro facce sconvolte per qualche secondo abbondante, dopodiché disse: « E’ una bella storia, non credete? »
London fu la prima ad elaborare una frase di senso compiuto. « Quindi tu saresti… sua sorella? » chiese, spostando lo sguardo da lei al marito.
« Sorellastra » precisò la mora, giocando con una ciocca dei propri capelli. « Non noti la somiglianza, Bridge? »
L’altra restò decisamente sconvolta, limitandosi a tenere la bambina tra le braccia e a fissarla con sguardo incredulo.
« Come hai fatto a sapere chi siamo? » sibilò in un soffio Klaus, guardandola allo stesso modo. « Insomma, non ci siamo mai visti prima… »
Käthe lo fissò negli occhi, ghignando appena. « Sbagliato. »
Il ragazzo corrugò la fronte. « E quando ci saremmo incontrati, scusa? »
« Panem, Distretto Sei » disse semplicemente. « Diciassette... luglio… di otto o sette anni fa, se non sbaglio. Zona ovest. Era un bar molto più squallido di questo e pioveva. Io ho fatto per due mesi la cameriera lì. Dovevano essere le due di notte, forse, tu eri ubriaco e in compagnia di un ragazzo che a giudicare ad occhio e croce doveva essere suo fratello » spiegò, facendo verso le ultime parole un cenno con la testa in direzione di London, che irrigidì la schiena e stirò le labbra.
Klaus capì al volo di quale diciassette luglio stesse parlando e tentò di fermarla, ma Käthe continuò: 
« Non aggiungo cos’altro ho visto perché la donzella, qui, potrebbe scandalizzarsi. »
London le lanciò un’occhiata di brace, mentre Klaus si affrettò a domandare, per spegnere il discorso: « Eri a Panem? »
« Già » ribatté la mora, studiandosi distrattamente le unghie di una mano smaltate di nero. « Sai, ero curiosa di conoscere mio padre. Quando conobbi la verità sui miei genitori, decisi che per una volta nella mia vita avrei dovuto fare qualcosa di intelligente e stupido al tempo stesso. Avevo un obiettivo e l’ho raggiunto con tutti i mezzi che avevo a disposizione. Volevo guardare Frantz Wreisht in faccia, e ci sono riuscita. »
« Io non ti ho mai vista nel Distretto Sei » provò a contraddirla Klaus, biascicando quelle parole tra i denti. Davvero era stato spiazzato dalla presenza di quella ragazza che, per di più, era la sua sorella illegittima. Forse quella personalità così deliziosa era una caratteristica che avevano nel sangue.
« Sono io a non essermi mai fatta vedere » ribatté Käthe. « Ti ricordo che tuo padre non sa nemmeno che esisto, non avevo voglia di sconvolgergli ancora di più la vita. So che ha fatto cose orribili – una delle quali fu sicuramente mettere incinta tua madre – ma da un lato lo comprendo. Gli hanno strappato in un solo secondo tutto ciò che amava, l’hanno abbandonato in culo al mondo solo per interesse personale. »
« Suo padre è un bastardo » s’intromise London prontamente, alzando il tono di voce. « Avrebbe ucciso mia figlia se non ce ne fossimo andati! »
« Sinceramente questo non fa parte dei miei interessi » disse l’altra con voce annoiata. « Non è colpa mia se il cervello di un uomo è capace di incepparsi e prendere una cattiva strada. »
« Indirettamente questo è tutta colpa tua » le fece notare Klaus, con una cattiveria nemmeno tanto velata. « Se tu non fossi mai nata… »
« La tua vita sarebbe stata migliore? » domandò lei, incapacitata, facendogli il verso. « Oh, sai quanto m’importa! E pensare che quella notte corteggiasti anche me, facendo apprezzamenti poco casti sul mio sedere! Ancora non sono riuscita a capire di quale sponda fai parte. »
London emise un basso verso di rabbia.
« Sta’ tranquilla » disse poi, rivolgendosi a London, « non mi avrebbe mai portata a letto. A parte che mi fa ribrezzo l’idea di scopare con un mio consanguineo, e poi a me piacciono le ragazze » – e qui le fece un occhiolino malizioso.  
A Klaus sfuggì una risata nervosa. Nessuno era riuscito a metterlo più imbarazzo di Käthe prima d’ora. 
« Fantastico, sul serio… E comunque non mi hai spiegato come facevi a sapere i nostri nomi e come hai fatto a riconoscerci. »
« Ho una memoria di ferro » spiegò. « E, durante quel periodo in cui sono stata a Panem, ho studiato la tua famiglia. So che tua madre prepara il caffè dopo pranzo, che tuo padre il sabato si chiude nel suo studio ad amministrare i suoi soldi e anche che quando avevi otto anni ti ha promesso alla pupilla della famiglia Bridge, nonostante Alfons ed Erzsébet non ne fossero entusiasti. »
« Ti hanno mai detto che potresti fare la stalker, di professione? » chiese London a quel punto, infastidita e irritata per il comportamento di quella che – non l’avrebbe mai pensato – era sua cognata a tutti gli effetti, o quasi. « Ti pagherebbero veramente bene. »
« I soldi non mi interessano, Bridge, forse non l’hai capito » replicò la mora, continuando a sorridere in modo saccente e decisamente poco amichevole. « Guardami… dopo essere diventata ufficialmente l’ultima erede dei Wreisht di Valhalla ed aver ricevuto tutti i loro beni, a ventisette anni mi ostino ancora a fare la cameriera. Sarà che mi piace vivere alla giornata… » lasciò volutamente la frase in sospeso. Sembrò ricordarsi solo in quel momento che era in servizio, per cui aggiunse velocemente: « Scusate, se non vi dispiace adesso devo tornare al lavoro o il capo mi ammazza. Ci vedremo sicuramente molto presto, non vorrete di certo raffreddare il nostro fantastico legame famigliare… » li salutò, mandando nella loro direzione un bacio con la mano e, dopo essersi alzata da quel tavolo, sparendo con la stessa velocità con cui era apparsa ed entrata nelle loro vite. Come un ciclone, come una gazza ladra in picchiata pronta a rubare qualcosa di prezioso.
A quanto pareva, pensò London, le sorprese in casa Wreisht non finivano mai.

 













E’ sorda?
Lei non è di queste parti, Rodrich!
Questa bambina sorda è tua figlia?
Tornate a giocare, ci penso io.
Al fondatore di Piazza delle Rose.
Salve! Cosa vi porto da bere?










 
   
 
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