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Autore: secretdiary    22/04/2014    1 recensioni
Ho scritto questa storia diversi mesi fa, per un concorso letterario che successivamente è stato annullato. Il tema del contest era la Musica ed io ho scelto di sviluppare la traccia cercando di trovare qualcosa di originale e non scontato.
Secondo dopoguerra. Sienna Mumford, dottoressa, viene chiamata in un istituto di malattia mentale per visitare un paziente, un reduce della Seconda Guerra Mondiale. La donna studierà la sua psiche, scoprendo un terribile segreto relativo alla frenetica ricerca nazista del Soldato Perfetto.
Spero che vi piaccia!
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I passi della dottoressa Mumford echeggiavano sul pavimento bianco, talmente lucido che rifletteva le luci al neon del soffitto.
Sommesse risate, unite a striduli versi di stupore accompagnavano la sua avanzata nel corridoio Nord dell'edificio. Il camice bianco, indossato più come uniforme che per reale necessità di non sporcare i vestiti, le accarezzava le caviglie sottili, avvolte in calze di seta.
Sienna Mumford era una donna di trent'anni circa, di una bellezza che sembrava immortale e, come la maggior parte delle donne, amava viziarsi. Le calze di seta erano un suo sfizio: nonostante la guerra fosse terminata da due soli mesi in Europa e la vita fosse ancora segnata dalle ristrettezze causate dal conflitto, la dottoressa era riuscita a procurarsi quell'indumento con una certa facilità.
Le scarpe nere, sobrie, richiamavano il colore della gonna a vita alta, stretta, che le celava appena le ginocchia. Il petto esile era vestito da una camicia color malva, un colore che esaltava la carnagione lunare della donna. I capelli corvini erano invece raccolti in un'ordinata crocchia.
Non vi erano imperfezioni nella sua figura, persino il tesserino bianco allacciato al taschino del camice sembrava nuovo.
Sienna arrestò la sua avanzata innanzi ad una grata bianca che impediva l'accesso ad un piccolo corridoio laterale. Quella porta era presidiata da un soldato, inglese a giudicare dall'uniforme. La dottoressa gli mostrò il tesserino identificativo e l'uomo indugiò sulla fotografia rappresentante esattamente il viso che aveva innanzi. Con uno scatto la serratura si aprì e Sienna poté riprendere il suo percorso. Si concesse un sorriso per ringraziare il soldato, non solo per averla fatta passare, ma per il suo sacrificio e le sue azioni durante la Seconda Guerra Mondiale. La dottoressa Mumford nutriva profonda stima per tutti coloro che avevano deciso di impedire a quel folle di Hitler di spadroneggiare nel mondo, era profondamente grata a tutti coloro che avevano posto la loro vita a disposizione del beneCerto, da psichiatra non aveva una visione del mondo in bianco e nero, percepiva ogni sfumatura, ogni tonalità di colore, ma non poteva evitare di credere che nel Führer vi fosse una sola cromia a colorarne l'anima: il nero. Fortunatamente ora tutto era terminato, gli orrori a cui l'umanità aveva preso parte avrebbero costituito un ricordo talmente nitido nella mente di ognuno da dissuadere qualunque uomo a dare inizio ad una nuova guerra.
Sienna si arrestò innanzi alla porta bianca che consentiva l'accesso all'unica stanza di quel corridoio. La donna venne ora affiancata da una giovane suora, il cui viso fanciullesco contrastava con lo sguardo provato e malinconico. La suora, stringendo un rosario, porse alla psichiatra un fascicolo corposo e successivamente posò la mano libera sulla maniglia.
«Come da sua richiesta il paziente non è stato sedato oggi» rivelò con voce incerta.
«Bene. Può aprire, Sorella».
«È sicura?». Si percepiva paura nel tono di voce della religiosa, ma Sienna non era una donna incline agli spaventi. Annuì, decisa.
La cella d'isolamento aveva pareti color salvia come quelle dei corridoi e il pavimento piastrellato con grossi quadrati bianchi profilati di grigio. Non c'erano finestre, l'unica fonte di luce era il neon.
Il paziente, stretto in una camicia di forza, era accasciato a terra, in un angolo, contava freneticamente in tedesco.
Arrivava sino a trentasette, poi ricominciava da capo, con metodo. Oltre al suo inquilino, la cella era vuota.
Sienna udì la porta chiudersi alle sue spalle e comprese di essere finalmente sola con il caso che le era stato sottoposto dal collega.
«Lei non è il dottor Eccleston» disse il paziente, interrompendo la conta. Il suo accento inglese era rude e marcato, segno della sua nazionalità germanica.
“Parlargli in inglese sarà più semplice” si disse la donna, sollevata dalla notizia di non dover rispolverare il suo tedesco scolastico.
«Mi chiamo Sienna Mumford, il dottor Eccleston mi ha parlato del suo caso...». Il paziente rise, mostrando una perfetta dentatura perlata.
«Dunque sono il vostro caso speciale» commentò ironico. «Un caso da sottoporre ai colleghi, o forse il dottor Eccleston non sa come trattare con me?». Sienna non rispose, si limitò a studiare la cartella del paziente. Ovviamente Eccleston l'aveva largamente informata sull'uomo che ora aveva innanzi, ma la psichiatra desiderava leggere la diagnosi e i vari trattamenti a cui egli era stato sottoposto.
«Güstav Van Mark...».
«Gustaf» la corresse l'uomo, sottolineando la corretta pronuncia del nome, poi, con un cordiale cenno del capo, le diede il permesso di proseguire.
«Signor Van Mark, sa dove si trova?». L'uomo chinò la testa, osservando la camicia di contenimento.
«Deduco di essere in manicomio».
«E sa perché è qui?». Egli sogghignò.
«Perché ho ucciso trentasette persone? Questa è la risposta che vorrebbe da me, che faciliterebbe il suo lavoro. È la risposta che le darei per spingerla ad andarsene appagata, ma, in tutta onestà, le dico che il mondo si è capovolto. Una donna studiosa del cervello è un concetto assurdo tanto quanto un ebreo pulito. Il suo è un mondo folle se le permette di allontanarsi dalla cucina, lei dovrebbe essere al mio posto». Sienna era preparata alle provocazioni, a cui non diede seguito. Il paziente voleva esasperarla, godeva dell'ira altrui, del dolore, ma la dottoressa non gli avrebbe dato soddisfazione. Vi era qualcosa negli occhi, nel tono di voce di quell'uomo che suonava come una velata richiesta di aiuto. Come se in Van Mark vi fossero due personalità in lotta per il dominio sul corpo.
«Trentasei persone» precisò la donna. «L'ultima vittima, la piccola Ester, è sopravvissuta». Gustaf sgranò gli occhi, cominciando a dondolarsi in avanti ed indietro, riprendendo a contare. La dottoressa Mumford lo osservò in silenzio per diversi istanti, concentrata sul tono frenetico eppure ripetitivo della voce dell'uomo. I suoi capelli biondi cascavano sulla fronte ad ogni movimento oscillatorio, frustando la pelle chiara. Sienna immaginava che l'uomo non avesse avuto alcuna difficoltà nel dimostrare di appartenere alla razza ariana: tutto nel suo fisico rispettava i canoni di purezza decantati dal Nazismo.
La suora bussò delicatamente alla porta della cella, informando la psichiatra che il tempo a sua disposizione per la prima seduta era terminato.

Il giorno seguente, la dottoressa Mumford si ripresentò da Gustaf Van Mark con un apparecchio particolare: un grammofono. Il paziente la guardò, incuriosito.
«Sbaglia se crede che le domanderò di ballare» commentò aspro, posando la testa sulla parete ed osservando con aria di sufficienza la donna azionare il giradischi. Nella stanza si dispersero le familiari note della Marcia Funebre di Sigfrido di Wagner. L'apertura era sommessa, quasi inquietante, misteriosa, per poi esplodere in un crescendo ostentato dagli strumenti a fiato dell'orchestra. Infine si univano gli archi, a dare corpo all'aria. La sinfonia era decisa, forte, ritmata. Alternava crescendi con momenti più sommessi, ogni accordo racchiudeva in sé un'immensa drammaticità. Sembrava che le note abbracciassero i due interlocutori, avvolgendoli in un velo di forza, di grandezza, ma al tempo stesso li trascinasse in un turbinio di introspezione, di brividi e di profonda conoscenza della propria anima. Era impossibile rimanere impassibili ascoltando una simile composizione. La musica di Wagner entrava nelle vene, accelerava il respiro, provocava vibrazioni nell'anima.
Il sorriso che tendeva le labbra del paziente svanì rapidamente, lasciando il posto ad un'espressione tesa. Il suo viso sembrava ora solo un'imitazione priva di anima del volto di un essere umano. Era vuoto, scevro di ogni emozione.
Sienna vide gli occhi chiari dell'uomo perdere vitalità, sino a sembrare due semplici bottoni su un pupazzo di pezza: erano vacui e fissavano il nulla.
Il paziente cominciò a dimenarsi, tentando disperatamente di strappare la camicia di forza, di liberarsi per portare a termine il suo compito. La sua bocca tornita era spalancata in un urlo disumano che però le sue orecchie non riuscivano a sentire, totalmente rapite dall'aria del compositore tedesco. L'ultimo crescendo lasciò nuovamente spazio a toni più pacati, ma non per questo meno coinvolgenti. Sembrava una caccia, un inseguimento. La psichiatra allontanò la puntina dal disco, interrompendo improvvisamente la musica.
Van Mark si guardò intorno, disorientato, senza comprendere perché il suo respiro fosse accelerato o perché gli dolessero le spalle.
«Crede nell'ipnosi, Gustaf?» gli domandò la dottoressa. L'uomo la guardò, senza comprendere.
«Lei è un esperimento» gli spiegò. «Gli scienziati nazisti stavano conducendo degli studi sull'ipnosi e sugli innesti mentali. Lei è stato condizionato per reagire all'ascolto di questa famosa aria; è stato condizionato per uccidere».
Van Mark sputò con disprezzo nella direzione della psichiatra.
«Non avrebbero mai fatto una cosa simile, io ero un soldato!».
«Allora ricorderà cos'è accaduto cinque minuti fa, ricorderà in che modo ha ucciso trentasei ebrei». Il paziente tacque, dunque Sienna riprese l'esecuzione del brano dall'inizio. Per la seconda volta quelle note piene, forti, si liberarono nella cella. Per la seconda volta la Marcia Funebre di Sigfrido attivò l'innesto del paziente che riprese a dimenarsi a terra, rotolando, lottando contro l'impedimento che lo costringeva con le braccia incrociate, combattendo per dare sfogo al suo impulso omicida.
Improvvisamente, con uno strappo, la camicia di forza si lacerò, cogliendo di sorpresa la psichiatra. Gustaf si alzò in piedi, torreggiando sulla dottoressa che rimase a fissarlo in quegli occhi vitrei, paralizzata dall'assenza di emozioni che palesavano, improvvisamente pietrificata dall'imponenza di quell'uomo, dalla straordinaria efficienza di una compulsione mentale.
«Lo hanno resto una macchina di morte» mormorò la donna cercando di raggiungere il grammofono, ma il paziente fu più rapido e la scaraventò a terra, a diversi metri di distanza, con uno schiaffo. Possedeva una forza sovrumana, quasi animalesca; si trattava di forza primordiale, forza celata negli angoli più reconditi e meno sviluppati, meno evoluti, dell'animo umano. Forza risvegliata dal condizionamento.
«Signor Van Mark... Signor Van Mark, mi sente?». L'uomo non rispose, continuando ad avanzare verso la donna che comprese immediatamente a cosa sarebbe andata incontro. Se non fosse riuscita ad interrompere la musica, sarebbe morta.
Il grammofono era ormai dalla parte opposta della stanza, separato da lei dall'impressionante mole del paziente. Sienna valutò la possibilità di chiamare aiuto, ma se avesse urlato, nessuno sarebbe riuscito ad aprire la cella in tempo per fermare la furia omicida di Gustaf. Poteva davvero morire così, in quel modo? Era sopravvissuta alle due Guerre Mondiali, aveva superato i pregiudizi che avevano ostacolato i suoi studi ed ora sarebbe stata uccisa da un paziente la cui mente era stata manipolata da scienziati nazisti, da un esperimento mal riuscito poiché incontrollabile.
Aveva sempre amato la musica classica. Wagner non era il suo compositore preferito, ma amava la sua forza, la sua energia. Ora, invece, si scopriva ad odiare quella sinfonia, tanto intensamente che ogni battuta riprodotta dal grammofono, ogni accordo, ogni nota, le produceva un conato di vomito che risaliva l'esofago, arrestandosi in gola.
Odiava quella musica, avrebbe voluto portare le mani alle orecchie e tapparle, ma si spinse a reagire razionalmente. Il paziente era stato ipnotizzato, indotto ad associare comportamenti violenti alla Marcia FunebreInvertire il processo mentale sarebbe stato troppo lungo, impossibile ottenere risultati positivi in poco tempo, ma forse Sienna sarebbe potuta riuscire a ricondurre Gustaf alla realtà.
«Signor Van Mark, sono la dottoressa Mumford. Lei si trova in un ospedale psichiatrico di Berlino, ricorda? È un esperimento, è stato plasmato affinché diventasse una macchina senza sentimenti, la prego, ricordi!». Il paziente arrestò la sua avanzata, permettendo alla psichiatra di concedersi un sospiro di sollievo. Egli si voltò verso il grammofono, poi nuovamente puntò i suoi glaciali occhi sulla donna.
«Me la tolga dalla testa» disse adottando una sfumatura di voce inedita alle orecchie di Sienna: sembrava quasi implorante. Ella si rese conto di essere riuscita a creare una breccia nel muro dell'ipnosi e si alzò in piedi, lentamente.
«Lo farò, glielo prometto» rispose seria, allungando una mano verso il paziente, nel tentativo di instaurare anche un contatto di tipo fisico.
Gustaf scosse il capo, arreso, indietreggiò sino a raggiungere il grammofono che ora stava riproducendo le ultime battute della sinfonia. Sollevò l'apparecchio sopra il proprio capo, distendendo le braccia muscolose. La musica continuava a suonare, dimessa, stava volgendo al termine.
«C'è un solo modo» concluse, allargando le braccia e lasciando cadere il pesante oggetto sulla propria testa.
«No!» esclamò la psichiatra, portando una mano alla bocca dischiusa in un'espressione d'orrore. Non poteva fare nulla, se non assistere alla conclusione della sinfonia d'innesto.
«Trentasette» disse il paziente. Chiuse gli occhi.
Il greve grammofono di legno gli franò addosso. La musica cessò e tutto fu silenzio.

   
 
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