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Autore: Wazzighez    22/04/2014    0 recensioni
Una lettera da un padre ad un figlio per raccontare una vita tenuta troppo tempo nascosta. Per raccontare di una tragedia che sbriciola il cuore, e per cercare conforto laddove non abbiamo mai trovato nulla.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Non so bene come iniziare questa lettera, Alex. Da sempre scrivo di getto, impugno la penna e lascio alla mia mente il piacevole compito di riempire un foglio. Da sempre le mie dita picchiettano veloci sui tasti di un computer senza curarsi troppo di che cosa hanno attorno. Ma oggi, sento che mi mancano un po' le parole.
Non so nemmeno perchè queste cose che mi tengo dentro e che vogliono uscire dal mio corpo stanco te le sto scrivendo, invece di venire di là, nella tua stanza, e confessartele a voce. Ma forse, non voglio essere presente quando lo stupore coglierà il tuo volto, e non voglio essere presente quando i tuoi occhi si illumineranno e tu saprai di aver capito tutto ciò che ti ho tenuto nascosto per molto tempo.
Ogni tanto ti sorprendo a fissarmi con il tuo sguardo obliquo, e solo in quegli istanti mi rendo conto che lo stai facendo perchè anche io lo sto facendo, perchè anche io sto osservando i tuoi occhi verdi e i tuoi lineamenti regolari e il tuo sorriso. Forse, ti sarai chiesto perchè qualche volta io smetta di leggere, di scrivere, di parlare, e cominci a guardarti, e pian piano la mia espressione corrucciata si trasformi in un sorriso malinconico.
Ma vi assomigliate così tanto, Alex. Avete così tanto in comune, lo stesso sorriso gioioso e lo stesso sguardo vispo e allegro difficile da distruggere, e un timbro di voce così basso e rassicurante. Quante volte, nella mia vita, ho desiderato di abbracciarti non da padre, ho desiderato parlare non ad un figlio, quante volte nella mia vita ho desiderato poter venire a scuola con te, vestirmi come te, sorridere come te, ed illudermi per qualche ora di avere ancora accanto mio fratello, e di essere fratello io stesso.
Quando i tuoi occhi cadono su quella foto che tengo sulla mia scrivania, riesco solo a immaginare la tua incredulità nel vedere come tuo padre, da ragazzo, abbia avuto un amico così simile a te. Che coincidenza, ti sarai detto, ma forse ti sarà pur venuto qualche sospetto. Ma non ho mai voluto chiarire nulla, perchè parlare di Max, parlare di una persona che non c'è più e che non ci sarà mai più, è sempre stato terribilmente doloroso, per me, e angosciante. Eppure avrei potuto dirti talmente tante cose, e ogni avvenimento della mia infanzia trascorsa accanto a Max sarebbe diventato un piccolo affluente del fiume in piena che un tempo era la mia vita, ma che col passare degli anni si è trasformato in un rigagnolo d'acqua sporca e stagnante. Avrei potuto raccontarti di quella sera d'inverno dei miei sette anni, quando un bambino alto pressappoco come me avvolto in un vecchio abito bussò alla porta del dormitorio ed entrò a far parte della mia esistenza. Avrei potuto raccontarti quando scoprimmo di essere fratelli, e di quando capimmo di aver percorso il cammino della vita al contrario, prima da semplici conoscenti, poi amici e poi infine come due persone unite dal vincolo indissolubile della fratellanza. E avrei potuto descriverti e farti emozionare e sorridere parlandoti dei meravigliosi pomeriggi estivi trascorsi insieme, in sella ad una bicicletta, avrei potuto farti vedere il suo sorriso così simile al tuo, e le sue parole, e il suo abbraccio sempre così rassicurante, e la sua euforia e vitalità incredibile, le sue battute taglienti e il suo carattere, sempre ottimista e allegro. Avrei potuto spiegarti tutte le difficoltà che abbiamo oltrepassato insieme e che grazie a lui ho sempre saputo affrontare meglio, avrei potuto farti sentire il fragore assordante dell'acqua fresca che si riversava nel torrente delle mie emozioni.
Ma non l'ho fatto. Non l'ho fatto perchè quei ricordi, e quelle sensazioni e quei sentimenti volevo celarli, tenerli al sicuro dentro il mio cuore, e non rendere partecipe nessuno degli attimi bellissimi che avevo condiviso con un ragazzo che era tutto per me. E non l'ho mai fatto perchè ogni storia ha una fine, ogni vita ha termine, e quella di Max si è conclusa troppo presto, e il libro che si riempiva ogni giorno di racconti, aneddoti e nuove vicende si è poi chiuso bruscamente, e una folata di vento gelido ne ha strappato le ultime pagine. Perchè ogni storia ha una fine, e quando, quel giorno, mi risvegliai in una stanza d'ospedale e non vidi lo sguardo quieto di mio fratello e la sua espressione tranquilla e inattaccabile, e quando mi dissero che se n'era andato, era morto, allora capii davvero che la mia vita era finita. Finita, stritolata in una morsa di ferro che da quel momento non ha mai allentato la presa.
Da quella mattina sono successe tante cose. Ho sofferto, Alex. Svegliarsi la mattina desiderando di riaddormentarsi per sperare che tutto ciò sia solo un incubo, svegliarsi la mattina e ricacciare la testa sotto a letto piangendo, con l'amara e dolorosa consapevolezza che tuo fratello non tornerà più, è il panico quello che ti prende quando capisci che tutto ciò che un tempo avevi non tornerà mai. Quando capisci che Max è morto, e non tornerà mai più indietro, e non ti rimarrà null'altro di lui se non qualche foto e un mucchio di ricordi sparsi nella tua mente.
La disperazione era tanta in quei giorni, Alex. Talmente tanta che alla fine una mano invisibile mi spinse giù da un terrazzo al quarto piano d'un albergo, la mia coscienza, la mia volontà, la mia angoscia, non lo so. Morire, era quello che volevo. Farla finita, scappare per sempre da quella che per me non era più la vita.
Ma la sorte non fu dalla mia parte, e come vedi sono ancora qui. Mi sono laureato, mi sono sposato, sono diventato padre, adesso avrei tutto, dalla vita. Ma non ho Max. E' come se avessi dovuto rinunciare alla parte più importante di me per ottenere tutto il resto.
La penna sta finendo l'inchiostro, Alex. E tu forse adesso sai tutto, avrai capito il perchè della mia tristezza che ogni tanto continua a perseguitarmi come un'ombra, avrai capito il mio sguardo che a volte si posa su di te, avrai capito quella foto che campeggia sulla mia scrivania e che raffigura me, e Max, e io sorrido come tu, forse, non mi hai mai visto sorridere.
Non so se riuscirai mai a comprendere perchè ho voluto dirti tutto questo solo ora, ora che hai ventun anni. E non so se riuscirai mai a capire il dolore immenso che ho provato io quando mi sono state riportare quelle tre parole. “Max è morto”. “Max è morto”. E' come se ti chiudessero in una stanza senza porte né finestre, senza vie d'uscita, senza uno spiraglio di luce, senz'aria, con la sola possibilità di impazzire.
Devo soltanto ringraziare te, Alex, e tua madre, e tua sorella. E' stata tua madre a buttare giù il muro che mi teneva prigioniero in quella camera, e siete stati voi, i miei figli, a costruire delle finestre e a rendere più confortevole questa prigione. Ma se ci fosse ancora Max, qui con me, sarei già riuscito ad andarmene da questo luogo e a tornare a vivere all'aria aperta.
Ma è per questo, che ti sto scrivendo,Alex. Tu, tu che tanto gli assomigli, prova a farlo. Prova a prendere la mia mano, stringerla, e costringermi a correre fuori, a sentire il vento che mi scompiglia i capelli non più biondi, a pedalare giù per le discese del quartiere e ad arrampicarmi sugli alberi e a non avere più paura di niente. E forse, allora, in quell'istante, vedrai sul mio volto lo stesso sorriso che incorniciava sempre gli occhi ridenti di mio fratello”.
 

  
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