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Autore: Fefy_07    23/04/2014    3 recensioni
Più propriamente una storia di urban fantasy, ambientata in un futuro non specificato.
Dal testo:
"...avrebbe reso tutto troppo reale: la puzza di carne bruciata, le urla che imploravano pietà, la gioia selvaggia nel sapere che la causa era lei, il senso di colpa che seguiva nel realizzare tutti quei pensieri vendicativi che le si affollavano alla mente. [...]
La prima volta che aveva visto un Redhead, Melanie aveva cinque anni. [...]
A dodici anni, Melanie capì perché i Redhead non di nascita venivano detti impuri."
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nick sul forum/ Nick su EFP : Fefy_07
Personaggio: Melanie Avery
Turno: I
Titolo Storia: Until the end (you and me)
Pacchetto (se presente): Pacchetto 8 (http://www4.images.coolspotters.com/photos/1029283/katharine-mcphee-profile.jpg)
Genere: Urban Fantasy, Introspettivo
Rating: Giallo
Avvertimenti: Nessuno (probabile Tematiche Delicate nei capitoli successivi)
Note (facoltative): L’ambientazione della storia è sulla Terra, molti anni dopo quest’epoca e con elementi immaginari che cominciano ad essere spiegati in questo primo capitolo. Questa storia nasce per il primo turno del contest "The X-Factor of Masterwriter" indetto da HollyMaster e MelodyFoster sul forum di EFP. Generi, avvertimenti e rating potranno subire variazioni nel corso della storia, probabilmente senza mai superare i limiti dell'arancione. Altre note a fine capitolo.

 
Until the end (you and me)
 
La prima cosa di cui Melanie si accorse quando il sangue smise di rombarle nelle orecchie furono i mormorii. Erano tanti e facevano rumore, come uno sciame di moscerini. Provò a non ascoltarli, perché non dicevano quello che voleva sentire e le facevano provare un fastidioso senso di nausea.
Eppure i mormorii arrivavano, chiari e forti come se fossero stati urli. «È diventata brava», dicevano, e anche «Non l’avrei mai detto», «È cresciuta», «È diversa». Diversa. Era quella la parola chiave. Melanie si sentiva diversa, ma rifiutava di riconoscerlo, perché avrebbe reso tutto troppo reale: la puzza di carne bruciata, le urla che imploravano pietà, la gioia selvaggia nel sapere che la causa era lei, il senso di colpa che seguiva nel realizzare tutti quei pensieri vendicativi che le si affollavano alla mente. Lei non era così, non lo era mai stata.
Finalmente si allontanò dalla casa in fiamme che era rimasta a fissare per interminabili secondi – minuti? – e barcollò leggermente, avvicinandosi al resto della Squadra. I suoi compagni la guardavano con un misto di orgoglio e compiacimento, quelli della Squadra di Supporto con invidia.
Il primo ad avvicinarsi fu Brandon, che le tese la mano. Ci volle qualche attimo prima che Melanie si rendesse conto del gesto. «Brandon è un idiota con tutti, non prenderla sul personale», le aveva detto Jennifer, la sua prima amica nel team, quando Brandon le aveva riso in faccia dopo la sua prima missione, definendola debole. Eppure adesso, lo stesso spaccone che non le aveva degnato più di qualche sguardo impietosito e disgustato nei mesi precedenti le stava tendendo la mano, con una nuova luce negli occhi, che Melanie poteva quasi interpretare come rispetto. Le venne di nuovo voglia di vomitare, eppure strinse la mano che gli veniva offerta con un sorriso riconoscente.
I minuti successivi furono un susseguirsi di complimenti, di pacche sulla schiena e di abbracci rapidi. I ringraziamenti le uscivano dalle labbra così meccanicamente che Melanie si meravigliò che nessuno lo facesse notare. Solo Jennifer rimase in disparte, con uno sguardo preoccupato sul volto. Quando i loro occhi si incontrarono, la ragazza inclinò leggermente la testa, per chiederle come stesse in realtà. Fortuna volle che in quel momento la Squadra Demolizione uscisse dall’edificio ormai carbonizzato, quindi nessuno notò l’indice che Melanie portò alle labbra, supplicando l’amica di non fare domande, e il successivo cenno del capo di lei.
Quella sera, Sarah la chiamò dal tavolo centrale della mensa, invitandola a sedersi. Melanie si mosse quasi come in un sogno, mentre tutto il suo corpo combatteva per non farla avvicinare.
«Te lo sei meritata» disse il Capitano delle Spie, e Melanie sapeva che avrebbe dovuto sentirsi privilegiata, perché solo i veterani sedevano a quel tavolo, quelli che avevano sterminato un gran numero di Redheads e che avevano addirittura delle medaglie per questo, mentre lei non ne aveva perché era lì solo da alcuni anni e non si era distinta ancora in nulla, o almeno così le piaceva pensare.
Ma quella sera qualcosa era cambiato, e il cuore le martellava nel petto al pensiero di quante persone c’erano esattamente in quell’edificio che era stato dato alle fiamme; per quante vite spazzate via lei aveva gioito in quel modo che le faceva contorcere le viscere appena alcuni secondi dopo. Un migliaio? Di più?
Non doveva andare così, nulla di tutto ciò era previsto era la nenia che si susseguiva senza tregua nella mente della ragazza, mentre prendeva posto sulla panca di plastica fredda e scomoda. Tenne gli occhi fissi sul suo vassoio, dove la cena che sembrava così accattivante pochi minuti prima era diventata un miscuglio inodore in grado solamente di farle ribollire lo stomaco. Non osava alzarli, perché non era certa di poter trattenere le lacrime se avesse incontrato uno di quei volti così poco familiari; volti che aveva osservato da lontano insieme a Jennifer, Trevor, Mariah e tutti gli altri componenti della sua Squadra. Al contrario loro però, mai aveva fantasticato di potersi sedere tra quelle fila, un giorno, perché tutti sapevano che lei non amava i grandi stermini e perciò non si illudeva di poter sedere al tavolo dei veterani. Eppure, in qualche modo che ancora non riusciva a comprendere del tutto, la sua ultima spiata aveva evidentemente condannato più persone di quante ne avesse previste e le aveva concesso quell’onore che per lei era più una tortura.
Quando sentì chiamare il suo nome, fu costretta ad alzare lo sguardo e ad incontrare quello azzurro ghiaccio di Brandon, esattamente di fronte a lei, che le sorrideva soddisfatto. Per un istante di follia, le parve quasi che il ragazzo la stesse deridendo per il suo evidente disagio, ma poi commentò ancora il suo ottimo lavoro di quella mattina, e Melanie seppe che era sincero. Sentì il bruciore dietro gli occhi, ma lottò per ricacciare indietro le lacrime che spingevano per uscire. Loro avrebbero pensato a commozione, ma lei sapeva la verità ed era certa che non sarebbe riuscita a nascondere la sua angoscia una volta che si fosse lasciata andare.
Se il suo ringraziamento fu un po’ tremulo, tutti lo bollarono sicuramente all’emozione.
La prima volta che aveva visto un Redhead, Melanie aveva cinque anni.
C’era una ragazzina nata Redhead nella sua classe, una cosina minuta e graziosa, con la voce sottile e grandi occhi verdi. Non era niente di più e niente di meno speciale rispetto a tutti gli altri ragazzini e Melanie ricordava ancora che ci aveva giocato insieme a palla, l’aveva spinta sulle altalene e avevano saltato la corda.
Ricordava che un giorno era successo qualcosa, era difficile per lei dire cosa perché era diventato tutto sfumato col passare degli anni. Sapeva solo che suo padre glielo aveva spiegato la settimana dopo, quando la ragazzina coi capelli rossi non era tornata più a scuola e Melanie aveva cominciato a fare domande.
Era un uomo semplice, suo padre. L’aveva presa in braccio e si era seduto in poltrona, poi aveva aperto un grande libro in cui veniva spiegata la storia dei Redhead, di come sviluppassero poteri particolari e di come dovessero essere portati in un centro apposito per educarli e insegnare loro a controllarli.
Melanie era rimasta affascinata dalla storia del Potere Unico, che i Redhead sviluppavano pienamente solo quando raggiungevano la maggiore età, e che prima di allora si risvegliavano ogni mese con un potere differente. Non era riuscita a pronunciare alcune parole, come “telecinesi” e “controllo gravitazionale”, ma il volo e il controllo dell’acqua le erano sembrati poteri sufficientemente interessanti da esprimere il desiderio di diventare una Redhead.
Suo padre aveva riso e le aveva scompigliato la chioma castana, rispondendo: «Chi può dirlo, forse un giorno lo diventerai, bambina mia. Dipende tutto dalla tua Ghiandola dello stress.»
«Che cos’è, papà?» gli aveva domandato, con gli occhi larghi di sorpresa e pieni di curiosità.
Lui le aveva toccato lo sterno con un dito, indicando un punto accanto al cuore. «Si trova qui, tesoro, ed è un pezzetto del nostro cuore. Quando un essere umano viene sottoposto a un forte stress, la ghiandola rilascia particolari ormoni che garantiscono la nascita dei poteri e trasforma il colore dei capelli nel rosso. È così che sono nati i Redhead detti impuri.»
Melanie aveva aggrottato le sopracciglia e aveva detto che non voleva essere impura, perché la mamma depurava l’acqua impura, quindi doveva esserci qualcosa che non andava in essa. Suo padre aveva riso di nuovo quando gli aveva esposto quel ragionamento, poi aveva chiuso il libro e non ne avevano più parlato.

A dodici anni, Melanie capì perché i Redhead non di nascita venivano detti impuri.
A quel tempo aveva un’amichetta del cuore, Sonia. Erano compagne di banco a scuola e tutti i giorni tornavano a casa insieme. Melanie si fermava sempre prima e, anche se provava ad accompagnare l’amica fino a casa, Sonia insisteva che non ce n’era alcun bisogno. Anche quando si organizzavano per stare insieme il pomeriggio, era sempre a casa di Melanie, perché Sonia diceva che il fratello era malato e che non era sicuro stare nelle sue vicinanze.
Era un pomeriggio di primavera quando la bambina percepì direttamente quanto poco sicuro fosse.
Melanie stava già salendo i gradini di casa sua quando udì l’urlo. Riconobbe la voce di Sonia immediatamente e corse verso la fonte del suono senza curarsi di avvisare nessuno o di armarsi con qualcosa. Più avanti negli anni, Melanie si sarebbe pentita di quella decisione impulsiva – tratto predominante della sua personalità già da allora – molte volte.
Quando finalmente raggiunse la sua amica, lo spettacolo che gli si parò davanti le bloccò il fiato in gola: un ragazzo più grande, massiccio e alto rispetto alla piccola Sonia, prendeva a calci un bastardino che uggiolava pietosamente. Sonia era attaccata al suo braccio e cercava di strattonarlo via, pregandolo di smettere, con le lacrime che le scendevano sulle guance paffute. La cosa che più risaltò agli occhi di Melanie furono i capelli del ragazzo, quel rosso intenso sfumato d’arancione. Redhead impuro le fece notare stoltamente la sua mente.
«Hey!» aveva urlato, dopo qualche secondo. «Lasciali stare!»
E lui aveva alzato gli occhi su di lei, confuso, mentre Sonia aveva strozzato un gemito e aveva sussurrato: «Corri, Mel… Scappa!»
Da lì la situazione era precipitata. Il ragazzo aveva cominciato a ridere in modo spaventoso, un suono stridente e completamente folle che Melanie avrebbe risentito molte volte in futuro, nei suoi peggiori incubi. «È lei, dunque?» aveva grugnito il ragazzo, prendendo Sonia per i capelli e facendola mugugnare di dolore. «Lei è la “ragazza meraviglia” che salva le tue mattinate dallo stare accanto al fratellone pazzo?»
«Roger, ti prego…» aveva tentato di placarlo Sonia, ma un altro strattone e un sussurro che Melanie non era riuscita a cogliere l’avevano fatta tacere.
Roger aveva gli occhi pieni di rabbia quando finalmente incontrarono direttamente quelli di Melanie. Una furia così pura e animalesca che la ragazzina aveva sentito il sangue gelarsi nelle vene e non era stata capace di proferire parola né di tentare la fuga quando lui si era avvicinato, ringhiando qualcosa riguardo alla sua sorellina.
I secondi successivi furono talmente rapidi che Melanie non avrebbe saputo descriverli con precisione nemmeno allora. Le uniche cose che ricordava ancora erano lo sguardo terrorizzato della sua amica, uno sfrigolio di corrente elettrica e l’ululato del cagnolino che aveva tentato di scappare ma senza successo. Osservandolo, Melanie poteva dire che avesse una gamba rotta.
Poi aveva corso. Aveva corso fino a farsi mancare il fiato, fino ad avere gli occhi lucidi di lacrime e le gambe gonfie per la fatica, fino ad essere inzuppata di sudore dalla testa ai piedi. E dopo aveva corso un altro po’, solo per sicurezza.
Era tornata a casa molto tardi quella sera. Si era trascinata sui gradini infreddolita, stanca ed emotivamente a pezzi. Il padre non le aveva fatto domande, l’aveva solo stretta a sé e l’aveva lasciata singhiozzare sul suo petto, nelle narici l’odore di vecchi libri di cui era impregnata la sua camicia. Dopodiché l’aveva condotta nel salotto, su quella stessa poltrona in cui anni prima Melanie aveva scoperto l’esistenza dei Redheads, e le aveva letto un nuovo capitolo del libro. I Redheads impuri potevano impazzire facilmente, perdere il controllo dei propri poteri e diventare pericolosi. Non fu veramente sorpresa della scoperta.
Il giorno dopo Sonia non venne a scuola, e quello dopo nemmeno. In poco tempo, la ragazzina si era trasferita e Melanie non seppe più nulla di lei.
Arrivò nello studio di Hudson trascinando i piedi, desiderosa solo di un lungo bagno caldo e del suo letto. Sapeva che il Comandante avrebbe voluto vederla dopo quella giornata, per darle le sue congratulazioni o addirittura una di quelle medaglie che Melanie aveva sempre disprezzato.
Trovò l’uomo intento a rigirarsi tra le dita un oggetto di legno che aveva tutta l’aria di essere un rompicapo. Per un momento Melanie rimase a fissarlo, mentre lui osservava quel giocattolo come se contenesse le informazioni necessarie a spazzare via tutti i Redheads dalla faccia della Terra.
Si schiarì la gola per attirare la sua attenzione e, quando i suoi occhietti porcini si soffermarono finalmente sul volto di lei, parlò: «Voleva vedermi, Comandante Hudson?»
Un sorriso mellifluo gli distese le labbra troppo piene, mentre le allungava un fascicolo di fogli. «Si sieda, prego, Miss Avery», fece un cenno verso la grande sedia imbottita di fronte alla sua scrivania, poi proseguì: «Milleottocentocinque Redheads. Un numero considerevole per un solo edificio e ancora non riusciamo a comprendere come abbiamo fatto a non rendercene conto. Sospettiamo che ci fossero almeno un centinaio di Occultori esperti tra di loro, forse anche di più. Se non fosse stato per la sua infinita abilità nello spionaggio e nella copertura, quel nucleo sarebbe ancora attivo. Quello che ha fatto nelle ultime settimane è ammirevole, signorina.»
Si interruppe e la studiò da sotto le folte sopracciglia grigie, come se stesse aspettando di vedere qualcosa. Melanie era ancora troppo occupata a contemplare quel numero – milleottocentocinque era quasi il doppio dei Redheads che aveva scovato per la Squadra Demolizione negli ultimi sedici mesi – e non si curò di atteggiare il volto in un’espressione diversa dall’angoscia che sentiva. Hudson annuì, come se avesse appena avuto una silenziosa conversazione con se stesso, e le allungò il rompicapo di legno.
Alla sua occhiata spaesata, spiegò: «Non ho dimenticato perché sei con noi, Melanie.»
La ragazza seppe subito che la conversazione si era spostata sull’argomento che la rendeva più vulnerabile, perché Hudson aveva perso quel poco di formalità che riservava alle questioni della Squadra ed era passato ad un atteggiamento quasi paterno, che non mancava mai di farla sentire stranamente al sicuro. «Quello è per lui, so che gli piace molto questo genere di cose. Sta diventando bravo, te lo assicuro. Nel Dipartimento Sviluppo sono tutti convinti che non avrà alcun problema a controllare il suo Potere Unico una volta che si sarà manifestato.»
Melanie sorrise debolmente, con gratitudine – forse l’unico sorriso sincero da quando aveva lasciato l’Accampamento tre settimane prima. Era merito di Hudson se lei era salva e, cosa più importante, Hudson stava aiutando l’unica persona che amasse ancora sul serio, di quel tipo di amore che ti spinge a fare di tutto pur di preservarlo. «Grazie, Comandante. Non so proprio come ringraziarla.»
Quel sorriso appena un po’ troppo compiaciuto tornò sul volto dell’uomo, che continuò, dopo un grugnito divertito: «Stai facendo ben più della tua parte dell’accordo, non c’è bisogno della riconoscenza. Quello è un altro segno dell’apprezzamento di tutti noi,» indicò il fascicolo che Melanie ancora non aveva nemmeno guardato. «Non è esattamente un libro come quelli che ti ricordi tu, sai quant’è difficile trovarne di questi tempi. Ma sono sicuro che gli piacerà comunque. So che ama leggere.»
A un’occhiata più attenta, la ragazza riconobbe nell’agglomerato di fogli un libro fotocopiato chissà quando, spillato alla meglio e con le pagine un po’ strappate, ma leggibile. Il titolo le riportava alla mente ricordi felici, con un’enorme poltrona rossa e tanti scaffali pieni di tomi più o meno consistenti. Melanie sentì un fastidioso pizzicore alle labbra e si rese conto di averle tra i denti, un vizio che aveva preso da piccola per soffocare le emozioni troppo forti.
Solo quando Hudson tossicchiò leggermente, la ragazza si accorse di essere rimasta a fissare il plico di fogli per più tempo di quanto normalmente accettabile. Arrossì leggermente e rialzò lo sguardo, un nuovo ringraziamento già sulla punta della lingua, quando il Comandante la congedò. «Te lo leggo in faccia che tutto ciò che vuoi adesso è un posto caldo in cui riposare,» disse burbero, alzandosi dalla sedia per tenderle la mano. «Sei di Servizio Notturno per la prossima settimana, senza Potenziamento nel pomeriggio. Hai bisogno di recuperare le forze.»
Melanie uscì stranamente leggera dall’ala dell’Accampamento che occupava gli uffici amministrativi dell’Alto Comando. Quel numero esorbitante le oscillava ancora nella mente, come un rimprovero silenzioso, ma il peso del rompicapo di legno nella mano e del volume fotocopiato sotto il braccio le ricordava con più concretezza il perché di tutta quella violenza e le dava una speranza.
La sua stanza era già riscaldata dal braciere quando entrò. Guardandosi intorno, Melanie non poté far altro che sentirsi a casa, anche se casa sua era stata rasa al suolo ormai da cinque anni. Eppure era stranamente confortante tornare alle pareti color crema, ai tendaggi bordeaux che circondavano l’unica finestra della camera, al piccolo bagno in porcellana da cui le arrivavano gli odori della violetta e dell’incenso – segno che il suo bagno era già quasi pronto – e, soprattutto, al conforto del letto a due piazze che campeggiava al centro del locale. Dopo tre settimane di scomodo pavimento e coperte appena sufficienti a non farla congelare, un letto vero era una tentazione quasi irresistibile. Per un solo secondo, Melanie si domandò se non fosse più saggio rimandare il bagno al giorno successivo.
Ma un fischiettio allegro proveniente dal bagno la spinse verso la porta. Rimase appoggiata allo stipite ad osservarlo, in silenzio. I muscoli della schiena risaltavano ogni volta che si muoveva e luccicavano leggermente a causa del sudore. Faceva veramente caldo in bagno, perché a Melanie il calore piaceva, le faceva sciogliere i muscoli e la rilassava; al contrario suo, che preferiva il freddo e perciò toglieva la maglietta ogni volta che le doveva preparare il bagno.
La melodia che gli usciva dalle labbra era dolce e allegra insieme, sapeva un po’ di nostalgia e un po’ di scherzo. Melanie pensò che avrebbe voluto sentirla in musica. Sorridendo, accennò un breve applauso, che lo fece trasalire e voltare di scatto, per poi arrossire con aria colpevole. Prima ancora che potesse aprire bocca, Melanie disse: «Faccio in un minuto» e lui annuì, uscendo dal bagno e richiudendo la porta dietro di sé.
In realtà, ci vollero ben venti minuti prima che la ragazza si sentisse abbastanza bene da uscire di nuovo, vestita perché lui si era premurato di lasciarle gli abiti notturni nel bagno mentre preparava la vasca. Erano piccole cose che aveva sempre fatto, anche prima che arrivassero nell’Accampamento, e che l’avevano sempre fatta sentire un po’ speciale.
Nella camera, lui stava osservando il rompicapo di legno con un espressione desiderosa, sorpresa e anche un po’ timorosa. Per un attimo, a Melanie parve che lui fosse davvero ciò che fingeva di essere: uno schiavetto senza importanza che poteva osservare ma non toccare ciò che la sua padrona lasciava in giro. Scosse la testa a quei pensieri, perché era così che gli altri dovevano vederlo, ma non lei. Lei sapeva ancora chi era lui, la ragione principale per cui quel casino sanguinoso e spietato era diventato la sua vita.
«È tuo» gli sussurrò, sorridendo dolcemente quando lui si voltò ad osservarla. «L’ho portato per te. Ho anche qualcosa che può sostituire un libro, almeno per un po’. Sono certa che ti piacerà.» E non poté trattenersi più a lungo di così, perché erano tre settimane che non lo vedeva e che aveva passato a preoccuparsi per quello che avrebbero potuto fargli, che avrebbe potuto farsi se non l’avesse vista tornare.
Spalancò le braccia nello stesso istante in cui lui si avvicinava e l’abbraccio risultante fu quanto di più liberatorio Melanie avesse sperimentato in tanto tempo. Lui la circondò con le braccia, tenendola stretta al suo petto – a quindici anni era già più alto e robusto di lei – e la ragazza non poté fare a meno di sentirsi al sicuro, come se non fosse dieci anni più vecchia di quel ragazzo troppo cresciuto, che giocava a fare l’uomo ma che alla fine rimaneva un bambino spaventato al pensiero di perdere anche l’ultima persona che rimaneva a prendersi cura di lui.
Così vicina, poteva sentire i battiti accelerati del suo cuore, il leggero tremito che scuoteva tutta la sua figura e cominciò a passare le mani tra quei capelli rossi in una morbida carezza, sperando di placare tutta l’ansia repressa in ventuno giorni di solitudine, senza scherzi, risate e storie sussurrate nel buio della notte, quando il resto dell’Accampamento era già immerso in un sonno profondo.
«Mi sei mancata» sussurrò piano dopo un po’, senza nemmeno accennare a lasciare la presa.
Melanie sorrise talmente tanto che sentì le guance farle male, ma andava bene, perché lì c’erano solo loro e poteva permettersi un sorriso sincero. Assaporò per un attimo la sensazione di essere ancora importante per qualcuno, prima di rispondere: «Anche tu, fratellino.»

Angolino dell'autrice :)

Torno ad avventurarmi nella sezione originali con un urban fantasy fresco fresco. Probabilmente è la prima storia di una serie che avevo già intenzione di sviluppare da un po' e per cui questo contest mi ha dato la spinta finale. Diciamo che è un prequel (sì, il prequel prima della storia vera, è un po' particolare come cosa :'D) per un'altra storia che avevo in mente in questo Universo, quindi sto "testando le acque" grazie al contest. Non ho descritto fisicamente la protagonista perché il link all'inizio della storia rimanda alla foto usata come prestavolto. Un paio di piccole note veloci: il limite di pagine era 6/7 in times new roman 12, quindi non ho potuto approfondire alcuni aspetti che mi sarebbe piaciuto trattare da subito, tuttavia arriveranno ulteriori spiegazioni in merito a tutto nei capitoli successivi e nelle altre storie della serie. Non ero convintissima del genere (e non lo sono tuttora) quindi se poteste suggerirmene uno che ritenete più adeguato, vi sarei molto grata!
E' tutto per il momento, lasciatemi qualche opinione si vi va! :3

 
  
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