Capitolo I
In Viaggio
Le cinque e mezza del
mattino
Pigramente, una graziosa testolina scarmigliata si fece
strada fra un allucinante groviglio di lenzuola azzurro cupo, mentre un braccio
cercava a tastoni di spegnere l’assordante trillo di una sveglia digitale; un
nuovo gentile invito proruppe dalla
cucina, una voce di ragazza irritata gridava affinché il proprietario della
testolina si svegliasse, finalmente: “Razza di abulico figlio dell’indolenza,
lo so che sei ancora sotto le coperte! Muovi il culo o ti lascio qui!”
Con grande sforzo, finalmente il ragazzo si scrollò di dosso il mostruoso
viluppo, tirandosi a sedere sul letto; rimase immobile per qualche minuto
buono, tentando di mettere a fuoco la vista e, stropicciandosi gli occhi, si
trascinò verso il bordo del letto, appoggiando cautamente i piedi a terra; il
contatto con il pavimento freddo gli causò un brivido che gli corse su per la
schiena, cosa che lo aiutò a liberarsi di quella foschia mentale che gli
impediva di rendersi minimamente conto di dove fosse o di come si chiamasse.
“Hey ragazzino, muoviti che Alex si sta adirando” Ricordò Julie, appena
comparsa sulla porta, ridacchiando all’idea di sua sorella adirata. “Uh? Ah…si ecco, un secondo..” tentò di rispondere fra uno
sbadiglio e l’altro; si alzò lentamente, e altrettanto lentamente si diresse
verso la cucina.
Alex lo attendeva già vestita e pronta, sveglia ed energica in modo
inquietante, tenuto conto dell’orario; lei e July avevano già fatto colazione e
ora, sul tavolo, una solitaria tazza di latte e caffè dall’aspetto poco
invitante attendeva il ragazzo ormai quasi semi sveglio. Si sedette lentamente,
prese la tazza calda e l’avvicinò alle labbra, e istantaneamente fu investito
dal vapore profumato di caffè, un odore casalingo, piacevole, intimo:
quell’odore forte gli era sempre piaciuto, anche se il sapore non lo amava
molto, anzi, lo beveva quasi soltanto nel latte; addirittura ne comperava una
qualità aromatizzata alla vaniglia, che aveva scovato in una piccola
erboristeria nel centro, pretendendo che in casa consumassero quello perché aveva un odore rilassante. Per
sfregio Alex aveva continuato a bere quello normale, e lui aveva continuato a
buttarglielo.
“Muoviti” Fu l’invito secco di Alex che attraversò velocemente la cucina,
passandogli accanto, con due grosse valigie nelle mani, diretta all’auto dove
le avrebbe caricate; comparve anche la
madre, che rivolta alla ragazza chiese con un lieve tono di rimprovero “Non
vorrai che si strozzi”; Alex l’aveva giusto guardata di sfuggita, ridacchiando
in modo inquietante, e aveva accennato un “ Ah! Mi hai scoperto” prima di
scomparire sulla porta dell’ingresso.
Julie si era seduta di fronte al fratello, le braccia incrociate sul tavolo, e
lo sguardo fisso sul ragazzo; era rimasta a guardarlo per un poco, poi aveva
detto :“ Sei emozionato? Finalmente si parte”; il ragazzo aveva alzato lo
sguardo dalla colazione, e aveva guardato Julie, che sorrideva allegramente,
chiedendosi una volta in più che parentela potesse esserci tra lei e l’erinni
che stava caricando le valigie in macchina. Mah.
“Julien santo dio vuoi muoverti!? Dovevamo partire cinque minuti fa!”
“Dio.. ecco! Dieci secondi!” si era finalmente deciso a rispondere lui,
esasperato.
Aveva terminato con un sorso la tazza di latte e caffè, e di corsa era andato a
raccattare una maglietta e un jeans, aveva afferrato i due borsoni con la sua
roba compressa dentro e finalmente era uscito di casa.
“Metti la tua roba nel cofano e sali”
“Sissignora”
“Avete preso tutto?” la signora Celéstine era comparsa sull’uscio, e guardava
affranta l’auto già in moto; “Si ma’ abbiamo preso tutto. Ti voglio bene, vedi
di non preoccuparti troppo, ok?” Julie l’aveva avvolta in un abbraccio, e
staccandosi da lei l’aveva baciata, sorridendo; “Mi raccomando, non litigate,
state attenti e chiamate” “Certo ma’. Ci vediamo!” “Si... si, ciao ragazzi!”
salutò mentre Julie saliva in auto, e Alex, per sottolineare che avevano
capito, abbassò il finestrino e sorrise allegramente, sollevando il pollice in
segno di saluto.
“Mon dieu, speriamo non succeda niente…”
pensava Celéstine mentre l’auto si allontanava dal vialetto.
Julien Tournier aveva allora diciassette anni; era
l’ultimogenito della famiglia Tournier, una delle tante di un piccolo paesino
ordinato e abitudinario, situato nel centro sud della Francia.
Non era particolarmente alto, ma molto grazioso di viso: i lineamenti erano
delicate curve appoggiate appena sulla pelle di candida seta cinese, gli occhi,
grandi e fondamentali nell’elaborato ricamo della sua bellezza, erano di
pallida giada screziata, con lunghi raggi di verde più scuro che partivano
dalla pupilla e si perdevano nell’iride, tra i quali il colore s’intensificava,
divenendo quasi – paurosamente – assenzio; il naso era elegante e dritto, non
troppo piccolo o troppo grande, con una collinetta impercettibile sulla cima e
con la punta spavalda rivolta in alto; le labbra, sottili e rosse, spiccavano
quasi volutamente come una piccola e violenta rosa tra due smeraldi, sul viso
d’avorio: quella inferiore, più carnosa della sua vicina, rimaneva talvolta
dischiusa, in una posa involontariamente sensuale, accentuata, se è possibile,
dal colore quasi scarlatto.
Era di costituzione decisamente sottile, tanto che da bambino pareva quasi un
fuscello, e crescendo aveva conservato la delicatezza e la grazia di un
ballerino dell’opera, seppure la sua figura avesse assunto una sfumatura, ai
margini, quasi femminile.
Mangiava poco e amava la lettura e la musica: in un ammirevole slancio di
patriottismo, era riuscito a leggere quasi tutte le opere di Dumas e Hugo; ma
la sua passione rimanevano le poesie di Verlaine e dei Maudits, le meravigliose
poesie intrise di fuoco e morte, tragiche e romantiche a loro modo, a volte
scabrose, a volte semplicemente tristi.
Riguardo il suo secondo amore, lo aveva coltivato sin da bambino, con l’aiuto
di maman e di un simpatico zio, insegnante di un conservatorio poco lontano dal
paesino natale: possedeva un innegabile talento per gli strumenti a corde,
suonava eccellentemente violino, violoncello e contrabbasso, e anche se non
aveva un passione particolare per quest’ultimo strumento, il pianoforte.
Prediligeva Debussy, con le sue melodie di vetro soffiato, i notturni di
Chopin, Bach per la perfezione delle sue opere e Tchaikovsky, con le
meravigliose melodie complesse e armoniose, che sapevano emozionare,
sconvolgere, catturare. Si stupiva ogni volta, ad ascoltarlo, di quanti
strumenti, quante armonie, quanto caos fosse riuscito a domare e armonizzare
nelle sue creazioni.
Una cosa singolare nella vita di Julien erano le sue sorelle: Alexandra e
Juliette. Come capita spesso fra i gemelli, pur essendo fisicamente speculari,
caratterialmente erano completamente diverse; non che fossero l’una il
contrario dell’altra, ma qualcosa di ancora più lontano, che in qualche modo
singolare, si congiungeva immancabilmente in tutto.
A differenza del fratello minore, loro possedevano una bellezza di carattere
sudista, bruna e dorata, eredità materna; entrambe avevano lunghi capelli color
ebano, stretti in folti e minuti ricci, morbidi e aggraziati, e la pelle color
bronzo anche in pieno inverno. Soltanto il colore degli occhi, quel verde così
singolare, le accomunava al fratellino.
Alex, la primogenita in assoluto, era la leonessa della famiglia. Possedeva un
carattere radicalmente dominante, un’ascendente a volte persino involontario su
chi gli stava intorno, professori compresi:
i voti vertiginosi erano pienamente meritati, e questo è fuori ogni
dubbio, ma quel particolare tono, quel particolare sguardo che solo lei
possedeva, avevano il potere di intimorire gli insegnanti; gli studi non erano
l’unico campo in cui eccelleva: praticava un numero indeterminato di sport, su
consiglio dei genitori, “per sfogare lo stress…” e una lieve tendenza all’aggressività
che spesso la coglieva nei momenti sbagliati. E, ovviamente, coltivava la
musica. Più per insistenza del fratello che per altro, aveva iniziato a prender
lezioni di canto a undici anni, e aveva così scoperto un piacevole talento
anche per quest’arte.
Juliette era invece una creaturina graziosa e delicata, un’anima antica, saggia
e serena, mai arrabbiata; sembrava vivesse sospesa in un piacevole limbo dai
colori caldi e piccoli fiori esotici dai colori rilassanti, dove ogni cosa era
fatta d’aria e d’acqua, mai troppo solida da poter essere toccata con le mani.
Amava vestire con tessuti naturali, ampie gonne leggere e pantaloni kaki, con casacche
di colori naturali e foulard svolazzanti: nel complesso sembrava una visione d’altri
tempi, una giovane bohemiénne egiziana,
una ballerina delle vie.
Ad accentuare tutta l’esoticità di queste tre creature, i loro lineamenti:
nessuno, nella loro città, possedeva lineamenti simili, il volto, la linea
della mascella, la curva delle labbra, il taglio degli occhi allungato, quel colore, le ciglia folte che
sembravano quasi poste ad una ad una da Caravaggio, per il gioco d’ombre che creava
intorno agli occhi, amplificando o mimetizzando ogni espressione.
E per quanto, almeno nel fototipo, Julien non somigliasse nemmeno vagamente
alle due sorelle, era impossibile non accorgersi del loro stretto legame di
sangue.